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La grande bouffe e il digiuno
È destino di molti titoli del cinema italiano – dolce vita, nuovo cinema paradiso, grande bellezza, capitale umano… – subire un’inversione del loro significato ironico ed esser presi alla lettera. Sovvertimento retorico che vale anche per il celebre film di Marco Ferreri del 1973. Adesso grande abbuffata è il nome di un gran numero di ristoranti, pizzerie, trattorie, salumi, libri, blog, ricette. Ma è soprattutto un modo di dire (“grande abbuffata mediatica”, “la grande abbuffata del PNRR”…) , un’espressione stereotipa che aspetta d’esser ripensata. Così, alcune sere fa ho rivisto il film in questione, dove si agitano da fantasmi Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Michel Piccoli e una straordinaria Andréa Ferréol. Ecco una sontuosa dissacrazione delle norme e magnificazione del corpo che, facile a dirsi, lo sciocco moralismo contemporaneo fa enorme fatica a comprendere.

La Grande Bouffe merita d’essere nominato in francese per la semplice ragione che è con questo titolo che è uscito, prima che in Italia, in Francia, dove è stato quasi interamente girato in una villa di Auteuil, alla periferia di Parigi. Un film che ha a che vedere con una cucina tanto raffinata quanto estrema non poteva che esser ambientato là, Oltralpe, dove la gastronomia è patrimonio identitario rivendicato con ostinato sciovinismo. S’era al culmine del miracolo economico, con l’austerity dietro l’angolo. Così, la prima interpretazione che è stata data del film è quella di una critica al capitalismo maturo e alla società dei consumi. Da cui termini ricorrenti come sarcasmo, humour nero, acre moralismo, satira, grottesco e simili. A cinquant’anni di distanza rivedere il film è scoprirvi non solo gli evidenti aspetti profetici rispetto all’attualità, ma anche l’ulteriore umorismo che ne emana dinnanzi a tanti comportamenti alimentari e discorsi sul cibo. Al diplomatico cinese che, all’inizio domanda che cosa i quattro si apprestino a fare, Philippe risponde: “un seminario gastronomico”.


Che ne sarebbe oggi di Philippe, Michel, Ugo e Marcello – il giudice, l’uomo di spettacolo, il cuoco, l’aviatore – se decidessero di rinchiudersi in una villa fuori Parigi, a mo’ delle orge sadiane, e ammazzarsi dal mangiare? Che senso ha, oggi, una abbuffata come quella? L’idea di morire mangiando, deliberatamente, è quanto di più lontano possa esserci dalla nostra sensibilità, dal nostro immaginario alimentare, fors’anche dalla nostra cultura. I celebri eroi della grande bouffe s’ingozzano a più non posso, ma per loro il cibo ha un valore relativamente casuale: è la quantità che vale. Non c’è gola, c’è eccesso. Di modo che l’ingordigia suicida vale come cupa allegoria dell’accumulazione capitalistica. Così, i quattro ci danno dentro, con una voglia di rimpinzarsi apparentemente senza senso, ma in effetti hanno soltanto il desiderio di farla finita. Di smetterla con tutto e con tutti.
C’è in questo bizzarro programma comune come un’ansia mistica, una voglia di silenzio, di nulla. Il loro, come dire, è un suicidio omeopatico: s’abbuffano per protestare contro l’abbuffata generale, vaneggiano dinnanzi alla vanità del tutto. Senza esplicitare mai, a parole, il loro progetto, ma vivendolo lentamente, con ammirevole abnegazione, senza che nessuno, spettatore compreso, sappia in anticipo del cupo destino che si sono dati. La grande abbuffata è un atto eroico, un gesto assoluto che fa della totale insensatezza il suo contrario. È il senso allo stato puro, dove tutto diventa possibile, anche le più radicali inversioni di marcia: non ci si nutre per far l’amore, ma si pratica l’erotismo per tornare a ingozzarsi; non si alterna fra ingoiare ed evacuare, si fanno le due cose insieme; non si mangia per vivere, ma per morire. Il clima è da allucinazione, certo, non senza un’ironia di fondo, al tempo stesso cupa e strafottente: i quattro scherzano, canticchiano, ballano, recitano versi illustri, condividono i corpi come fossero leccornie. In questo, il trionfo della sensorialità è la piena assunzione di un atto intellettuale categorico. Rifiutando la società e le sue pompe, permettono al corpo glorioso di tornare in primo piano, quasi al modo della dietetica antica che si preoccupava dell’alimentazione come dell’eros, degli esercizi ginnici come del vomito, delle evacuazioni come della salute e della malattia.

Forse, il modo migliore per cogliere il senso profondo di questo film è rovesciare la prospettiva: l’abbuffata, a ben pensarci, non è altro che il contrario del digiuno. E come quest’ultimo ha tante forme, tanti usi e tanti significati, stessa cosa accade nel nostro film. In un libro recente intitolato Il digiuno (Il Saggiatore) John Oakes spiega assai bene che si rinuncia al cibo per vari motivi, dall’ascetismo mistico alla protesta sociale, dal tentativo di disintossicazione alla voglia di dimagrire, ma alla fine è la purezza che si insegue, foss’anche a costo della propria stessa esistenza in vita. Lo sa molto bene quel noto personaggio di Franz Kafka che fa del rifiuto del cibo una forma d’arte, circense ma pur sempre arte. Sino a scomparire, poco a poco, dentro una gabbia. Digiunare è un atto sociale totale e al contempo un gesto individuale assoluto. Esattamente come rimpinzarsi da morire.
Oakes entra molto poco nel merito degli odierni disturbi alimentari che affliggono soprattutto gli adolescenti, ma, si capisce, è a questo che pensa a ogni pagina del libro, ora spiegando i meccanismi fisiologici legati alla digestione e alla sua mancanza, ora raccontando le storie dei santoni asceti del primo cristianesimo o del buddismo, ora fornendo le ragioni di chi ha fatto e continua a fare del digiuno una forma di ribellione, vuoi contro il potere politico vuoi contro quell’altro potere, più nascosto e dunque più pericoloso, che è il mercato, e con esso il consumismo sfrenato che caratterizza, volenti o nolenti, le nostre esistenze. Che cos’è il consumo? È una violenza perpetrata nei confronti del tempo, dei soggetti e degli oggetti, l’imposizione di una accelerazione costante, tanto superficiale quanto ansiogena. Rinunciare al cibo è allora dribblare questa temporalità fallace: tot pasti al giorno, la spesa tot volte alla settimana, tot sacchetti di immondizia mal differenziata ogni sera... Digiunare è porsi in ascolto dei borborigmi dell’apparato digerente, inseguire il silenzio del mondo circostante, desiderarlo.
La valenza rivoluzionaria di tutto questo è abbastanza evidente: “Quando il digiuno viene usato come mezzo di protesta diventa uno sciopero della fame. È uno sciopero duplice, perché è sia un rifiuto di partecipare alla sacralità dell’autorità sia un attacco. Sul piano dell’immaginario, lo sciopero della fame è uno strumento potente: attraverso la fame i dissidenti rendono manifesta la mancanza di giustizia, traducendo una nozione astratta (‘siete ingiusti’) in una sfera concreta”. Fare a meno del cibo, vivere il nulla, condividere il vuoto è quanto di più tangibile possa esserci.
Possiamo applicare questo ragionamento al gesto cupo dell’abbuffarsi sino a scoppiare? Parola per parola: l’abbuffata dei quattro è un estremo sciopero della fame. Comprendiamo in tal modo che l’attuale gastromania, pur somigliandole in superficie, è il contrario della grande bouffe. Tanto quest’ultima è consapevole di sé, muta nel suo desiderio di tirare la corda sino all’estremo, quanto la prima è chiacchiericcio continuo ma senza mete, senza destini, senza progetti assoluti e definitivi. Il cibo, oggi, è la chiave interpretativa privilegiata del nostro immaginario, dunque della nostra vita, ma lo è a condizione d’essere praticato come una riserva di argomenti, di immagini, di metafore, di valori da proiettare su tutte le sfaccettature dell’esistenza, le dimensioni della nostra società. Provando a fornire loro un senso e un significato. Oggi si mangia senza alcun intento autodistruttivo, ma parlandone a dismisura. Con tanta leggerezza, un tocco di faciloneria, molta ansia di atteggiarsi, e soprattutto con una falsa voglia di vivere. Ancora una volta l’ambivalenza, e con essa il dubbio, ma anche la speranza. Qualcuno direbbe: occorre misura.
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