Speciale

Giorgia e la cotoletta diplomatica

12 Ottobre 2025

L’altro giorno in diretta televisiva la Premier Meloni, per sostenere la candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’Unesco, ha ricordato i bei vecchi pranzi della domenica d’una volta dove si mangiavano le pastarelle. E fra esse il suo amato diplomatico, porzione più o meno mignon della nota torta diplomatica: diversi strati di pasta sfoglia e uno di pan di spagna, crema chantilly e crema pasticcera mescolate, talvolta con un po’ di rum, talaltra con un po’ di bagna all’archermes per ammorbidire. Un tipico dolce per famiglie numerose e assortite che sembra fatto apposta per accontentare tutti i gusti. Croccante e cremoso perfettamente mescolati. Da cui, forse, il suo nome; se pure gli immancabili miti dell’origine non mancano di proporre differenti interpretazioni.

Eppure mai denominazione è stata più foriera del suo opposto semantico. Come sempre quando si parla di cibo domestico, identità territoriali e tradizioni d’un tempo, scoppia la bagarre. Da un lato è insorto chi, indicando i temi pesantissimi dell’agenda politica internazionale, ha visto nelle pastarelle un’arma di distrazione di massa. Come dire: ci sono cose ben più serie del cibo domenicale. Dall’altro non è mancato il solito talebano del gastronazionalismo, che ha ricordato come la torta diplomatica non sia affatto tipica della cucina italiana, essendo stata inventata in altre parti d’Europa. Di modo che, da un altro lato ancora, ha gongolato chi, pigiando il pedale dello scandalo, ha ribadito come – a dispetto della prestigiosa candidatura Unesco – in realtà la cucina italiana non esista, essendo un’invenzione mediatica tanto recente quanto posticcia. Tutto questo negli stessi giorni in cui Carlo Petrini, inaugurando a Bra un’affollatissima edizione di Slow Cheese, di fronte a una moltitudine di assessori e sindaci, ma soprattutto di casari provenienti da mezzo mondo, dimostrava con lucidità come l’occuparsi di formaggio al latte crudo, rivendicandone la legittimità, è un gesto politico forte che, a suo modo, funziona da segnale per la pace nel mondo. Fuori d’ogni paradosso.

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Forse avrebbe fatto prima, Giorgia, a indicare qualcos’altro di quel pranzo domenicale, magari ben presente nel solito rassicurante ricettario di Pellegrino Artusi, che a suo modo questa famigerata cucina italiana ha raccolto e rilanciato. Non senza difficoltà, per così dire, ancestrali. Difficile, difatti, non cadere nei regionalismi e, peggio, nei localismi anche minuti. Di italiano doc, in giro, c’è ben poco. A meno, e anche questo si sa, di non assumere quello sguardo esterno, straniero, tendenzialmente turistico, che assimila in un medesimo immaginario paese – il nostro – risotto e carbonara, spaghetti al pomodoro e bagna cauda, pajata e gattò. Un po’ come andare in gondola al Colosseo o salire sulla torre pendente e ammirare, di fronte, la Madonnina in cima al campanile del Duomo. Non senza aver assistito a una rappresentazione alla Scala al suono eteroclito di mandolini e marranzani. Il mélange è d’obbligo, ed è proprio questo, bastian contrario, a costituire l’identità italiana in cucina, la sua singolare ricchezza distribuita nel territorio, i suoi barbarismi atavici accompagnati da ibridismi d’ordinanza.

Prendiamo il caso della cotoletta, nervoso – ed euforicamente risorgimentale – simbolo, ancora una volta, di identità locale: la cotoletta, al netto di iperbolici pachidermi e loro annessi apparati uditivi, è percepita come pietanza fortemente milanese. E così come la mortadella, in molti paesi, è detta ‘bologna’, analogamente, negli stessi e in altri luoghi, la cotoletta è chiamata ‘milanesa’. Più chiaro di così. Ma sta, dunque, nel pranzo della domenica? Forse nel tavolo dei bambini con le patatine fritte – anche se poi, surrettiziamente, i grandi l’addentano con gusto. La scienza in cucina di Artusi, comunque, non ne dà la ricetta perché la considera ovvia, tradizionalissima, scontata. Eppure c’è tutta una storia e una geografia della cotoletta che, rafforzandone l’identità, la distribuisce nel tempo e nello spazio, ribadendo ancora una volta, in generale e per contraccolpo, come tale identità – qualunque identità – sia costitutivamente ibrida, frutto di traduzioni e tradimenti, naturalmente cangiante. A dispetto delle leggende che la vogliono fissa e immutabile, antica e originale.

Serve allora leggere, d’uopo, il nuovo, freschissimo libro di Luca Cesari intitolato Storia mondiale della cotoletta (Il Saggiatore) che, come recita il titolo, prova a gettare sulla vessata questione delle origini della fettina fritta uno sguardo da lontano, sia temporalmente che spazialmente. È mezzo pianeta che occorre esplorare: dal Mediterraneo all’Inghilterra, da Parigi a Vienna, ma anche la Russia, gli Stati Uniti e il Giappone, tutti posti dove questo piatto è cotto e mangiato con gusto. Così, da una parte Cesari smonta la nota leggenda per cui si parlerebbe per la prima volta di cotoletta in un documento ecclesiastico, manco a dirlo ambrosiano, del 1149 dove si nomina un fantomatico “lombolos cum panitio”: che, documenti alla mano, non era vitello con pangrattato ma lonza con polenta. E, d’altra parte, ricostruisce i modi e i motivi per cui, dall’Odissea alla Roma antica, passando per i ricettari medievali arabi e quelli rinascimentali italiani, per approdare ai libri di cucina francesi del ‘600, questo composto di carré di vitello, pangrattato, uovo e burro chiarificato per friggere ne ha viste – letteralmente – di tutti i colori. La doratura, decisa avversaria della candida pastella, è stata una conquista.

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Gli ingredienti della cotoletta sono solo quattro, ma ci sono voluti secoli per riunirli tutti. E solo quando a fine ‘500 la grande cucina italiana arriva in Francia e in Inghilterra, e un secolo e mezzo dopo, assai trasformata, torna nel Belpaese che viene fuori, prima a Napoli e quindi a Milano, l’orecchio d’elefante, pronto a rivendicare cocciute progeniture di contro al Wiener Schnitzel. A indicarne l’identità milanese sarà poi, come di consueto, una voce esterna, quella di un gastronomo d’eccezione, come dire Alexandre Dumas. A quel punto, moltiplicandosi trattorie e ristoranti, la cotoletta diviene un luogo di sperimentazione di cuochi e massaie, e le modificazioni si sprecano. Basti pensare alla variante bolognese, la cosiddetta petroniana, ripiena come si sa di parmigiano e prosciutto crudo che la rendono non proprio adatta agli “stomachi deboli” cui si rivolgevano già nell’800 medici e cuochi. Per non parlare delle versioni di Marchesi e Cracco, che la sbagliano con creativa determinazione. C’è anche, sembra, un arrangiamento palermitano, da quelle parti chiamato ‘arrosto panato’, che a causa della sua estrema semplicità rischia di essere eletto, ancora una volta, glorioso antenato della milanesa.

Quel che non smette di colpire, a fronte di queste esplorazioni fra il poliziesco e il filologico, è l’ostinazione con cui, da un lato, si tende a retrodatare piatti e ricette anche di molti secoli, come se l’antichità di una pietanza fosse di per sé il miglior segno della sua autenticità territoriale, della sua identità sedicente genuina; come se un piatto potesse nascere in un solo colpo e tutto d’un pezzo dai fornelli pensosi di un singolo soggetto, individuale o collettivo che sia. E, dall’altro lato, impressiona la determinazione con la quale si va a caccia di bufale in nome di verità storiche o scientifiche indiscutibili. Cesari, sensatamente, riesce a dribblare questa sterile alternativa fra gastropuristi e demistificatori. Mostrando come sia le rivendicazioni di origine inventata sia i proclami circa l’inconsistenza delle tradizioni gastronomiche vadano intesi al di là della consueta dialettica fra vero e falso, attendibile e leggendario. Piuttosto, si tratta di strategie discorsive, di tattiche semiotiche, di mosse e contromosse nell’arena sociale e, soprattutto, politica. Non chiediamoci, allora, se le parole corrispondano alle cose, ma piuttosto come funzionano, e perché, tanto le parole quanto le cose.

Torniamo al diplomatico: se alla nostra Premier quel dolcino ricordava i pranzi domenicali in famiglia, e dunque la (sua) cucina (per lei) italiana, non aveva tutti i torti. La consuetudine diviene identitaria, l’abbiamo detto, per poi modificarsi alla prima occasione. Il problema è che, in altri contesti, anche più ufficiali, Giorgia Meloni ha pigiato, e pigia, il pedale di una identità nazionale pura e dura, di cui una fantomatica cucina italiana altrettanto dura e pura sarebbe il principale testimone. Allora bisogna decidersi: se il diplomatico è italiano, anche il kebab e il sushi lo sono. La storia della cotoletta lo dimostra. E sta bene così.

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