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L'ego, una storia a incastro

20 Giugno 2025

C’era una volta un pezzo di legno. Anzi no, questa volta era un falegname.

C’era una volta un falegname, dunque, che, rimasto senza lavoro durante la Grande Depressione, iniziò a costruire piccoli giocattoli di legno nel retro della sua officina. Viveva in uno sperduto villaggio danese di nome Billund, dove la vita scorreva pacata. Nulla lasciava presagire che proprio in quel momento si stavano gettando i semi di quella che sarebbe divenuta una delle più grandi e longeve aziende produttrici di giocattoli al mondo. L’eroe di questo racconto si chiama Ole Kirk Christiansen ed è un personaggio ben tratteggiato: guidato da un’indubbia capacità imprenditoriale, passionalmente caratterizzato da ambizione e caparbietà, confortato da una solida fede religiosa che svolge funzione ora di motore propulsivo ora di rifugio consolatorio. Caratterizzazioni che lo porteranno a superare prove, ostacoli, sfide e fallimenti per infine raggiungere notorietà planetaria in qualità di fondatore di LEGO.

Ce lo racconta Jens Andersen – autore danese già noto per aver firmato la biografia dell’omonimo favolista e della famiglia reale danese – in LEGO. Una storia di famiglia (tradotto nel 2024 in Italia per Salani), un libro che accompagna il lettore nel passaggio dalla piccola falegnameria della Danimarca all’universo espanso fatto di parchi a tema, fan club, set cinematografici e robotica educativa. Un libro che si legge come una biografia, ma anche come un romanzo d'avventura, un memoir collettivo, una fiaba nordica dove al posto di draghi e principesse ci sono incendi, innovazioni e crisi economiche. Una storia attraverso cui poter leggere la Storia, il modo in cui, nell’arco di un secolo, è cambiata la concezione dell’infanzia e lo statuto del gioco. Andersen mescola l’aneddoto al dato, la vicenda intricata alla riflessione, grazie anche all’ausilio della voce di Kjeld Kirk Kristiansen, nipote del fondatore e per decenni figura chiave dell’azienda, che interviene con ampi virgolettati a precisare, ricordare e personalizzare il racconto.

Intorno a questa storia ruotano tanti elementi, con decine di personaggi, alleanze, divergenze generazionali, scelte controcorrente, e bivi narrativi: c'è la decisione di usare la plastica in un'epoca in cui il legno dominava ancora il mercato dei giocattoli, una scelta rischiosa e controintuitiva che in pochi anni si rivela decisiva. C'è l'incontro fortuito con i primi mattoncini della Kiddicraft, che accende l'immaginazione di Ole e pone le basi per l'invenzione del famoso sistema di incastri brevettato nel 1958 – già, perché con grande stupore, il lettore scopre che i primi mattoncini LEGO nascono dall’imitazione di costruzioni prodotte da una meno fortunata ditta inglese. Ci sono le tensioni generazionali, come quella tra Ole e il figlio Godtfred, che hanno opinioni divergenti su come impostare l'attività ma rimangono uniti dalla convinzione che la qualità debba restare al centro di tutto. E ancora, l'ingresso in scena della terza generazione, con Kjeld che spinge l’acceleratore sull'espansione internazionale, sul marketing e le operazioni di co-branding, coinvolgendo altri grandi marchi che finiscono per nutrire LEGO e per nutrirsi della loro trasformazione in mondi fatti da mattoncini (Star Wars, Harry Potter, Marvel, ma anche Adidas, Nintendo e tanti altri).

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Alla base di tutto un meccanismo tanto geniale quanto elementare, anzi geniale perché elementare, basato sull’ars combinatoria (“con sei mattoncini 2x4 si possono ottenere 915.103.765 combinazioni diverse” si declama a gran voce in LEGO). È l’idea di Ole del “sistema”, di creare un gioco chiuso ma costantemente espandibile, in cui ogni set si può affiancare a un altro per creare mondi più complessi (di modo che una stazione di polizia può porsi accanto al benzinaio, al negozio e al supermercato), in cui i mattoncini di sessant’anni fa sono compatibili con quelli odierni, in cui tutto, soprattutto, può divenire LEGO: non solo castelli, astronavi e stazioni di polizia, ma anche, mazzi di fiori, riproduzioni di opere d’arte e di architetture famose. Da qui l’intuizione di quella che possiamo chiamare “leghizzazione” del mondo: tutto può essere ricreato con i mattoncini; mondi infiniti di elementi finiti, aperture alla creazione nella chiusura essenziale dei singoli pezzi. Il risultato è straordinario: dalle minuscole macchinine perfettamente funzionanti alle gigantesche ricostruzioni di dinosauri a grandezza naturale, l’effetto meraviglia su grandi e bambini è assicurato.

E poi c’è Billund, quartier generale LEGO che non si limita a fare da sfondo al racconto ma ne viene fuori come un attore centrale. Un territorio che intreccia inestricabilmente i propri destini con quelli dell’azienda, la quale – romanticamente – ha sempre rifiutato qualsiasi ipotesi di delocalizzazione, lasciando nel luogo di origine il suo baluardo. Lì c'è ancora oggi la sede principale di LEGO, con i suoi avanguardistici uffici; lì c’è l'aeroporto, fortemente voluto da Godtfred per facilitare i contatti con il mondo; lì è stato costruito il primo parco LEGOLAND, nato quando ancora i parchi a tema non erano così diffusi. Lì, ultima per ordine di apparizione, c’è LEGO House, vero e proprio tempio autocelebrativo del brand, che replica su scala monumentale con una architettura avveniristica un incastro di mattoncini: un luogo in cui ammirare sculture LEGO giganti, ripercorrere la storia del marchio e in cui, soprattutto, vivere una vertigine tra milioni di mattoncini da assemblare, minifigure da comporre, mazzi di fiori da esporre e sceneggiature da costruire. Un lento ma inesorabile processo ha trasformato l’identità di Billund da centro rurale a meta a vocazione turistica, dove ogni anno milioni di famiglie e appassionati si recano in pellegrinaggio. Non dunque una città sede di un’azienda, ma un’azienda che plasma la città.

Come in ogni racconto che si rispetti, poi, non mancano i momenti di crisi, come quella degli anni Duemila, quando LEGO rischia il collasso per aver disperso le proprie energie in troppi progetti non coerenti con il proprio DNA. Una fase da cui si viene fuori con il ritorno al core della propria identità. Perché LEGO comprende il principio che sta alla base di qualsiasi identità ben costruita e cioè che l’evoluzione, per quanto necessaria, non è mai stravolgimento, ma trasformazione coerente; mantenimento dei valori profondi, da calibrare con un adattamento ai cambiamenti sociali. Così, ad esempio, di fronte a un mondo del giocattolo che abbandona il gesto e la materialità per trasferirsi sugli schermi, la scelta di LEGO è quella di non adattarsi facendosi fagocitare, ma di piegare la tecnologia ai propri valori: app e videogame oggi non possono mancare, ma non tradiscono mai il mattoncino, anzi fungono da richiamo a esso.

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E l’utente non può che essere sedotto da questa proposta, dal sapore a tratti vintage: diventare adepti LEGO significa sposare un sistema di valori non confinati al mondo del gioco. Non stupisce allora che LEGO possa contare su una forte comunità di appassionati: gli AFOL (Adult Fan Of LEGO) non sono solo clienti fidelizzati, ma parte attiva del processo creativo – alcuni diventano designer ufficiali, altri propongono nuovi set attraverso la piattaforma LEGO Ideas. Ci sono mostre, eventi, un gergo specifico e perfino fasi della vita codificate (la cosiddetta "Dark Age", il periodo in cui si smette di giocare con i mattoncini per poi tornare, inevitabilmente, a farlo). Tutto questo è parte di un racconto in cui chi gioca non è solo spettatore ma autore, demiurgo di mondi immaginari e, al tempo stesso, membro di una tribù. E altra forte comunità è quella dei dipendenti, impregnati di una cultura aziendale che li coinvolge quanto più possibile nei processi decisionali e promuove un modo di lavorare “giocoso”. Perché così come il mattoncino non è soltanto un gioco che serve a mero scopo di divertimento, ma anche strumento di apprendimento, di collaborazione, di scoperta di sé; allo stesso modo, la fabbrica e l’ufficio somigliano a un grande cantiere creativo, dove spazi modulari e ambienti mobili cancellano gerarchie e favoriscono un approccio ludico alla propria occupazione.

L’investimento in relazioni umane – con i cittadini, gli utenti, i dipendenti – passa attraverso il riconoscimento del potere della comunicazione. La narrazione è sempre stata parte integrante del progetto LEGO: dai manuali d'istruzioni, pensati come veri e propri racconti visivi, alle collaborazioni con colossi del cinema, fino alla costruzione di una mitologia interna fatta di slogan, riti e icone. “Solo il meglio è abbastanza” non è solo una frase del fondatore, è un mantra aziendale, ripetuto ovunque, e persino trasformato in set. LEGO ha fatto scuola nell’ambito del branding e in quello che oggi si chiama storytelling e che, forse, potremmo più specificatamente indicare come narrazione mitica della fondazione delle origini. La storia dell’azienda, il suo radicamento familiare, i suoi valori esistono perché sono costantemente ribaditi nei più diversi supporti, in saggi e testi divulgativi (tantissimi i titoli dedicati alla storia di LEGO), libri per bambini (si veda per esempio Ole Kirk Kristiansen. L’inventore dei Lego, di Sergio Rossi), cortometraggi (tra tutti, quello che si può trovare sul sito LEGO) e documentari (per esempio Beyond the Brick: A Lego Brickumentary, di Davidson e Junge). Tutti questi racconti su cosa LEGO è stata, è e sarà organizzano la memoria del brand, selezionano gli aspetti da mettere in primo piano e quelli da far rimanere sullo sfondo, creano un ordine, eliminano incoerenze. E il libro di Andersen rientra pienamente in questo sistema narrativo.

Il libro, pur essendo una cronaca ricca di date e decisioni strategiche, non si trasforma in freddo resoconto; non si limita a ripercorrere le tappe evolutive di un brand, ma riesce a sintetizzare un certo modo di pensare il lavoro, la famiglia, il gioco, la comunità. Una storia di rapporti umani, di sguardi diversi sullo stesso progetto, di inevitabili contrasti che, paradossalmente, sono anche linfa vitale del successo. Giocare – è il messaggio – è una cosa seria.

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