Paesi e città. Trapani

3 Ottobre 2025

Città tra due mari, città del sale, città falce, città delle cinque torri, città delle vele, città del corallo. Come tutte le città, Trapani ha molti epiteti che tentano di catturarne l’identità in una formula, ma quello che meglio la descrive è “città del vento”. Perché il vento a Trapani non è un dettaglio, non è un fenomeno meteorologico, non è una presenza discreta. È un protagonista: a volte consola, altre si comporta come un bambino dispettoso; può agevolare mansioni quotidiane o prendere dispoticamente decisioni per conto di altri; lunatico, può cambiare all’improvviso, o testardo, può decidere di perdurare per giorni nelle sue inclinazioni. Il vento fa sbattere le porte, asciuga i panni meglio di un’asciugatrice, spinge rapidamente le barche a vela verso le loro mete, manda all’aria i piani di chi vuole costruire certezze. E quando gruppi di turisti spaesati e madidi di sudore chiedono perché l’aliscafo per Marettimo non parta, l’ormeggiatore fa spallucce e indica l’aria: “C’è maestrale”.

E i trapanesi nominano i venti con la stessa naturalezza con cui gli eschimesi utilizzano le quasi novanta parole che la loro lingua gli mette a disposizione per indicare la neve nelle sue diverse consistenze. Riconoscono il maestrale, che arriva invadente e porta mare grosso; il “grecalino”, che entra fresco e leggero; lo scirocco, quel “rosso vento venuto dall’Africa che stringe la testa in una morsa di fuoco mentre ricopre di sabbia tetti, strade e automobili”, come lo definisce Sciascia, aria che si appiccica addosso e fa evaporare sudore e pazienza. Se il vento si infila nelle viuzze del vecchio quartiere arabo, strette e tortuose perché in origine consentivano di nascondersi e sferrare attacchi improvvisi, produce fischi a tratti inquietanti; se lambisce il mare produce melodie new age. Il vento anticipa e segna le stagioni: porta l’odore della salsedine annunciando la primavera, sprigiona quello di terra bagnata dopo un acquazzone autunnale, diventa afa soffocante d’estate e d’inverno fa scherzare adulti e bambini: “Oggi ti metto le pietre in tasca, altrimenti voli via”. E insieme al vento, Trapani cambia, a modo suo, riproponendo con piccole variazioni cicli e rassicuranti rituali. È una città molto gattopardesca, Trapani, bramosa di novità e allo stesso tempo restia al cambiamento.

D’inverno, quando il vento si fa più freddo e tagliente, la città si ripiega su se stessa. Le arterie che d’estate traboccano di tavolini e spritz tornano a essere corridoi semideserti, percorsi da pochi e frettolosi passi. Il lungomare, d’estate affollato di gente e bici, diventa il regno di ostinati runner e di automobilisti che, intenti alla guida, si lasciano comunque scappare un’occhiata verso l’onda che si infrange. Il mondo della ristorazione si assopisce, salvo alcuni irriducibili osti che continuano a rimanere aperti per i trapanesi “veri”, quelli che sono diffidenti dei posti con menu in doppia lingua. L’inverno è la stagione della noia e dei lamenti; del “non c’è niente da fare”; della critica allo spirito dei trapanesi di cui pure si fa parte; dei lunghi, lunghissimi, pranzi domenicali, dove ancora poter mangiare un verace piatto di couscous “incocciato” a mano disquisendo se è meglio quello con i grani di semola lavorati fini o più consistenti. Certo, durante il periodo natalizio non ci si può far mancare una passeggiata a Erice. Con il suo sapore medievale, la sua nebbia e l’aria pungente restituisce il gusto del freddo che in città si percepisce ben poco. Ascoltare un concertino nella chiesa sconsacrata ed entrare in pasticceria e mangiare una genovese tiepida riportano alla mente quella afosa sera di agosto in cui per trovare refrigerio si è saliti al Monte e si è persino riusciti a indossare un maglioncino. Ma il letargo invernale, come tutti i letarghi, non è un tempo vuoto e privo di senso, è propedeutico all’esplosione della primavera e serve ad accumulare quell’energia che verrà liberata in un sol colpo – o quasi.

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Primavera vuol dire Pasqua. E Pasqua vuol dire Misteri. La processione del Venerdì Santo, che dura ventiquattrore, durante le quali venti gruppi sacri seicenteschi sfilano per le vie della città. Rappresentano scene della Passione di Cristo, sono fatti di legno, tela e colla e ciascuno è patrocinato da una antica corporazione (sarti, panettieri, pescatori…) che se ne prende cura per tutto l’anno e rivaleggia con le altre per quantità di accoliti che riesce ad attrarre. Vengono portati a spalla e seguiti da bande che intonano marce struggenti, si “annacano”, cioè ondeggiando malinconicamente all’unisono, in un movimento che fonde i partecipanti in un unico corpo sociale. Insolito per una città che di norma resta chiusa in comparti ben distinti. È un mix di sacro e profano, di tragedia e carnevale, dove donne che piangono la Madonna Addolorata sfilano accanto a venditori di ceci secchi e palloncini; dove i portatori al termine della processione si lasciano andare a pianti liberatori, mentre i ragazzi si affretteranno a zoomare sulle loro espressioni contrite per postarli prontamente sui social. E nei giorni precedenti Trapani vive in apnea: riunioni, prove, lucidature delle statue, piccole processioni preparatorie, in un’attesa collettiva che si accumula e diventa via via più intensa, fino al gran giorno in cui la città lascia andare il respiro trattenuto tutto d’un fiato. È una catarsi collettiva. Intanto le giornate si allungano ed è tempo di iniziare a girovagare nei dintorni – senza troppo allontanarsi, però, per carità –, magari per un tramonto alle saline dove i confini tra natura e cultura non si sa più dove siano e dove vasche perfettamente geometriche offrono una palette di colori che va dal celeste pallido al rosa intenso, in perfetta sintonia con il piumaggio dei fenicotteri che in certi periodi le visitano. Meglio se in una bella giornata di vento (ancora!) in cui nella laguna dello Stagnone spuntano, al posto dei funghi, kitsurfer prestanti che fanno dei cieli uno spettacolo di vele colorate.

L’estate è la stagione in cui si percepiscono più nettamente le differenze. Differenze generazionali, intanto: con anziani barricati in casa; bambini esaltati, convinti che il mare non sia mai abbastanza; e adulti impegnati in una lotta di resistenza al caldo, da combattere grazie al privilegio di potersi concedere un fugace e ristoratore bagno al mare in pausa pranzo. Ma anche differenze sociali, con turisti che affollano le vie del centro e abitanti che se ne lamentano. È un rapporto ambiguo quello del cittadino con il visitatore: un mix di insofferenza per l’invasione e orgoglio per l’attenzione ritrovata e per la possibilità di far conoscere paesaggi naturali, patrimoni artistici e chicche gastronomiche. Genera perplessità il toccare con mano, persino qui (chi lo avrebbe mai detto?), i segnali della foodification, con strade composte da sequele di locali instagrammabili, paninerie gourmet e cannoli da passeggio (al pistacchio, sacrilegio) che non sanno più da che parte tirare la coperta della tipicità. Non è sempre stato così. Vent’anni fa ad agosto Trapani era un set da film western: saracinesche abbassate e strade deserte. Poi nel 2005 la città è stata sede di alcune sfide preliminari dell’Amerca’s Cup e nel 2006 è stata eletta a scalo da Ryanair: due eventi che hanno agito da detonatore, facendo sì che quello che era stato per decenni un punto centrifugo, puro attraversamento di passaggio per visitare i dintorni – la ben nota San Vito lo Capo con le sue spiagge cristalline iperbattute; Segesta e Selinunte, con i tesori delle civiltà antiche che custodiscono; Mazara del Vallo, con il suo porto peschereccio; le Egadi, con i loro paesaggi sottomarini –, si scoprisse perno centripeto a vocazione turistica. Vedere turisti in costume con telo in mano e ciabatte ai piedi per le vie del centro all’inizio è stato uno shock, ma poi, si sa, lo sguardo si abitua e di necessità si fa virtù: b&b e negozi di souvenir si sono mimetizzati nel paesaggio urbano diventando routine.

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Sospeso tra queste contraddizioni si fa strada l’autunno, la stagione che non ti aspetti. Un tempo preludio alla malinconia invernale, oggi – complice il cambiamento climatico e la destagionalizzazione – felice coda estiva. I turisti ci sono, ma sembrano meno invadenti, e i trapanesi possono riappropriarsi di quelle strade che nei mesi precedenti avevano strategicamente scansato. Si può tornare a frequentare il porto peschereccio per acquistare il pesce fresco, certi a questo punto di non prendere abbagli da pescatori che, facendo la caricatura di loro stessi, declamano a gran voce la freschezza del loro pescato mentre teatralmente sistemano le reti. È tempo delle sfide: a chi fa l’ultimo bagno della stagione più tardi (ottobre? novembre?), a chi riesce ad andare in ferie fuori stagione per una vacanza intelligente in casa propria. È il tempo ideale per le passeggiate, magari in cui percorrere lungo l’asse est-ovest questa città, in una linea direttrice che scende ripida da Erice, taglia la commerciale via Fardella – sacra sede di vasche in automobile – e arriva verso il centro, attraversando questa striscia di terra che si assottiglia sempre più. Fino al suo punto estremo, Torre di Ligny, vertice di quella sagoma di falce da cui Trapani (Drepanum per i latini) trae il suo nome, incontro di due mari che proprio lì si incrociano. Qui, circondati dall’acqua e sguardo all’orizzonte, ci si ferma a contemplare le Egadi, finalmente svuotate: piccoli mondi di un piccolo mondo, sfondo rassicurante e pressoché costante di tutte le visioni cittadine. Qui il vento può mandare le prime avvisaglie: l’inverno sta per tornare.

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