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L'eterno ritorno della guerra di Troia

26 Maggio 2025

C’è un momento, spesso arbitrario, in cui il corso degli eventi sembra fermarsi, sembra cristallizzarsi in un qualcosa che possa porsi al di là del tempo. Degli uomini sappiamo molte cose, ma dell’uomo ne sappiamo poche. Tra le poche che sappiamo è che non può vivere senza questi momenti che vengono chiamati epici. Nel racconto epico comanda il destino e il destino dell’uomo è al di là del tempo, o meglio è un eterno ritorno a cui noi tutti sottostiamo. L’epica così fonda i miti e a loro volta i miti fondano i riti, senza i quali ci sentiremmo perduti. Siamo destinati a ripercorrere il già vissuto dagli eroi e dalle eroine, vivendo la loro storia ci spersonalizziamo, o meglio, come scriveva Arthur Schopenhauer, diventiamo un “io collettivo”. L’io collettivo occidentale è ancora radicato nelle vicende della guerra di Troia, dalla partenza degli Achei che sacrificano Ifigenia al ritorno di Odisseo a Itaca dove trucida i Proci. Simone Weil aveva compreso che l’Occidente non è spiegabile senza uno dei suoi miti fondativi, la Guerra di Troia, senza il “Poema della forza”. Da allora la storia, ovvero ciò di cui ci sono testimonianze scritte, altro non è che un susseguirsi di guerre. Senza le guerre il concetto stesso di storia evapora e la nostra utopia, viziata da ottant’anni di pace, è quella di debellare la guerra, di poter costruire una Gerusalemme di pace in terra. Ma l’essere umano è, come scriveva Kant, “legno storto” e guai a raddrizzarlo; se infatti tentassimo di raddrizzare il legno storto lo spezzeremmo, se tentassimo di debellare la guerra essa si vendicherebbe producendone infinite altre, forse più terribili. E legni storti, con le loro vanità e debolezze sono gli eroi che difendono e assediano Troia, come lo sono gli dei che li muovono senza mai dominarli del tutto e più che altro senza dominare le loro stesse passioni.

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L’eterno ritorno della Guerra di Troia è rivissuto in un libro intenso e poetico i cui disegni sono di Beniamino Servino e i testi di Eugenio Tescione, pubblicato da LetteraVentidue di Siracusa, dal titolo La guerra di Troia. Figure e testi per la messinscena di un mito. Servino e Tescione rivivono il mito, non lo interpretano, non ne cercano arcani significati, ma ce lo presentano in una veste del tutto particolare. Essi infatti non si riferiscono al mito consolidato, al mito ipostatizzato talmente tanto da aver perso significato, ma evocano il mito quando era giovane, ancora fragrante. L’Iliade, come per altro anche l’Odissea, erano poemi orali recitati per strada: erano, ed è questo il punto, racconti popolari. Unicamente la modernità ha pensato di poter fondare miti non popolari e il risultato sono stati miti monchi, spettrali, poco necessari persino a loro stessi. Il mito che i due autori ripercorrono non è antico, ma ancestrale e nell’ancestrale tutto è pubblico, tutto è scena per tutti. Lo aveva compreso Pier Paolo Pasolini. Le storie di Edipo re e di Medea, come anche quelle del Cristo, sono raccontate da Pasolini in modo del tutto ancestrale. I loro personaggi, popolari ed epici al tempo stesso, sembrano essere stati strappati alla loro umile quotidianità per raccontarci le loro impreviste sorti. Essi si muovono in ambienti nudi e rudi, ancestrali anch’essi, si muovono in un mondo settico. I personaggi che Beniamino Servino rappresenta sono diversi da quelli di Pasolini. 

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Si ha l’impressione vedendoli che Servino trasfiguri il dramma in una commedia drammatica. Sono gli dei e gli eroi di Servino vanitosi, appariscenti, perturbanti e ciarlieri; sono attori che impersonificano loro stessi e che per la recita si sono affidati a uno scenografo e a un costumista di indubbio valore, ovvero lo stesso Beniamino Servino. Servino innanzitutto gli ha insegnato che le loro sembianze non dovevano essere inventate, ma che sono già disponibili nelle immagini della cultura di massa, in quell’immenso archivio che noi moderni ci portiamo dietro da più di duecento anni. Servino insegna agli eroi e agli dei protagonisti della sua guerra di Troia ad essere generici, ad essere figurine ritagliate per ogni scena; lo fa sapendo che solo utilizzando ciò che già c’è, e che tutti bene o male conoscono, si può dare vita a un racconto epico, ovvero a un racconto condivisibile e popolare. Allo stesso tempo redime queste facce generiche con degli outfit stupefacenti, con strepitose parure e vestiti imponenti e trasognati, del tutto architettonici. Servino è un ottimo architetto. La sua ricerca è su quella che lui stesso definisce “forma vuota”, ovvero la pura forma che sa evocare senza essere didascalica. I suoi collage e disegni descrivono così sagre popolari di cui si è persa in parte traccia. Egli è un cantastorie che mostra solo le immagini che descrivono frammenti epici ambientandoli nelle rovine delle architetture che hanno accolto gli avvenimenti. Oppure, come nel caso di questo prezioso libro, fa in maniera che i suoi personaggi diventino maschere architettoniche, con vestiti che ricordano sontuosi o derelitti edifici.  Incantare di nuovo il mondo attraverso l’epica e farlo attraverso lo strumento più evocativo disponibile, ovvero l’architettura: è questo il programma di Servino, il fine a cui tendono le sue immagini di eroi e di architetture drammatiche, effimere, abbandoniche, ironiche e popolari al tempo stesso.

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Tra le immagini della Guerra di Troia prevalgono quelle femminili. Diversi disegni sono dedicati a Elena, Atena, Afrodite, Clitennestra, Andromeda, Giocasta, Pandora e persino a quelle donne che sono rimaste a casa, ad aspettare i mariti guerrieri ormai del tutto rapiti dal loro stesso destino. Sono le donne, sembrano dirci Tescione e Servino, le custodi di una verità altra, ferina e ineluttabile a cui loro stesse soccombono. Loro sanno, mentre gli uomini vivono, anzi vivono la guerra. Donne imbrigliate nel loro stesso ruolo, che non possono essere altro che il personaggio che il destino gli ha inflitto. Baudelaire inizia una sua poesia, “Il cigno”, con un’invocazione ad Andromaca, la moglie di Ettore che rapita dopo la caduta di Troia dal nemico Neottolemo, vive sconsolata in territorio acheo. Ella è chiusa nel suo dolore inestinguibile e il marito, che si è affezionato a questa donna regale, per consolarla le costruisce un duplicato di Troia. La Guerra di Troia ha prodotto una copia rabberciata della stessa città distrutta: la tragedia è diventata commedia e con la commedia si rinasce, o almeno ci si dimentica, per quanto è possibile, dell’ineluttabilità del destino. Immaginiamo allora Tescione e Servino come gli architetti incaricati di ricostruire in territorio acheo la città annientata. Immaginiamo anche Andromaca che guarda il risultato e poi si aggira per il passetto sopra le mura. La immaginiamo alleviata dal suo fardello; la immaginiamo grata ai due autori per avergli concesso un lampo di insospettata felicità.

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