L’architettura è la sua storia
Aveva scritto Aldo Rossi nella sua Autobiografia scientifica (il Saggiatore, 2023): “Mostrare l’architettura per i dati che le erano propri significa impostare il problema in maniera scientifica togliendo ogni sovrastruttura, enfasi o retorica”. Da questa frase è necessario partire per comprendere il messaggio e lo spirito di un agile e preciso libro di Vittorio Pizzigoni dal titolo Architettura come disciplina storica (LetteraVentidue, 2025). La tesi è chiara: l’architettura si fa con l’architettura, o meglio l’architettura deve rendere conto unicamente a se stessa, ovvero alla sua storia. È quella di Pizzigoni una presa di posizione contrastante con molte interpretazioni attuali in cui si cerca di legittimare il fare architettura con fini e mezzi non disciplinari.

Prendiamo ad esempio l’ecologismo, o meglio l’ideologia ecologista. Se si considera la stessa come fondamento del progetto di architettura avremo probabilmente (ma non è affatto garantito) edifici capaci di migliori risparmi energetici, ma questa prestazionalità ha poco a che vedere con l’architettura, o meglio il fenomeno architettonico non può essere ridotto ancora una volta a uno sterile funzionalismo. In altre parole incarnare l’ecologismo non è affatto garanzia per dar vita a un edificio significativo. Ciò è valido non solo per l’ecologia, ma anche per l’impegno sociale: se il fine di un’architettura è quello di risolvere le questioni sociali, fine per altro nobile, questa nobiltà non garantisce affatto di trovarci di fronte ad un edificio significativo. Per di più l’ecologismo, la redenzione sociale, l’esaltazione della tecnica e quant’altro spesso non rappresentano altro che quelle sovrastrutture di cui scriveva Aldo Rossi, ovvero delle retoriche apposte agli edifici per sedurre la massa il più delle volte al fine di occultare fini e intenti commerciali o speculativi.

Gli esempi di ciò non mancano e sono sotto gli occhi di tutti. Per Pizzigoni solo il rapporto con la storia protegge l’architettura dalle false illusioni, dalla sua mercificazione, e non ultimo dal kitsch. Non solo: il considerare l’architettura come una disciplina intransitiva, che rende conto a se stessa, ovvero alla sua storia, permette di perpetuare la storia stessa, permette di non spezzare il legame con ciò che ci ha preceduto, e se è vera (come lo è) la frase di Martin Amis per cui “il desiderio di non ereditare è tipico di ogni barbarie”, la professione di fede di Pizzigoni (e di molti altri, ovvero i più avveduti) è la testimonianza di chi è intenzionato a frenare la barbarie opponendosi ai populismi che come tali intendono l’architettura come mezzo e non come fine. L’illuminismo ci ha insegnato il valore dell’autonomia disciplinare e se si mette in crisi questo precetto si determina una pericolosa crepa nel già delicato castello di argomentazioni che ci ostiniamo a chiamare civiltà occidentale. Il mondo precedente la modernità, strutturato sul credo metafisico secondo il quale tutto raccontava di tutto per illuminazioni e analogie, si era infranto contro i successi dell’aver reso le discipline autonome. Ciò è stato valido sia nelle discipline scientifiche che in quelle umaniste.

Con il romanticismo il sogno della ragione fondato sulle autonomie disciplinari è entrato in crisi producendo una tensione che ha ingenerato un vero e proprio conflitto ancora attuale, ovvero quello tra chi ha continuato a credere nell’assunto dell’autonomia disciplinare e coloro i quali si sono opposti ad esso. Classico versus romantico ancora una volta, e dire classico vuol dire, per quel che riguarda la forma, il copiare i modelli del passato. D’altronde uno dei primi moderni dell’architettura, Palladio, aveva dedicato il quarto e ultimo dei suoi libri proprio ai modelli del passato da “copiare”. Pizzigoni è dalla parte non solo di Palladio, ma di tutti i trattatisti come l’Alberti e il Vignola, autori totalmente immersi nell’autonomia disciplinare e nello studio dei modelli antichi, totalmente immersi ma capaci di opere del tutto innovative, persino strabilianti per invenzione. Ma che tipo di invenzione? Come si fa ad inventare quando tendenzialmente si copiano i modelli? La risposta è tutta nell’etimologia latina del verbo inventare il cui significato è trovare, quindi avere a che fare con ciò che già c’è. Si copia inventando dunque: è questo l’auspicabile destino dell’architettura specialmente oggi nel mondo del predominio della tecnica e delle false retoriche populiste.

Copiare per riscriversi all’infinito, è questo il senso per Pizzigoni del fare architettura, il suo destino che le permette di perpetuarsi con una certa continuità proteggendola da quelle sovrastrutture che, oggi più di ieri, non solo l’appesantiscono, ma la banalizzano fino al punto di renderla irrilevante. Pizzigoni non cita Benedetto Croce (sebbene citi il crociano Bruno Zevi) ma le sue tesi appaiono riferirsi allo storicismo assoluto del filosofo italiano che si fondano su un duplice assunto: che “tutto è storia e null’altro che storia” e che “la storia è sempre attuale”. Il secondo assunto è stato fatto proprio da Fernand Braudel e dalla scuola degli Annales, per cui solo partendo dal presente è possibile tracciare delle storie, un importante emendamento questo allo storicismo di Croce, che implica un fatto sostanziale: la storia implica la teoria e la critica, anzi le tiene insieme, rendendole necessarie a loro stesse. Si studia quindi qualunque azione o forma umana attraverso la sua storia non tanto per predire il futuro, quanto per dare continuità al passato nutrendosi di esso. Il fare architettura non sfugge a ciò; esso, quando è tale, ha un’unica aspirazione, nobile, quasi irraggiungibile: testimoniare con la sua presenza la presenza stessa della storia.
