Chernobyl, l’eterno ritorno

22 Giugno 2019

Chissà se, come si legge in questi giorni, i russi realizzeranno davvero una contro-Chernobyl, la serie televisiva che sta andando in onda su Sky, nella quale racconteranno che l’incidente nucleare è colpa della CIA. Se lo faranno, non credo sarà peggio di questa produzione HBO, scritta e diretta da Craig Mazin, almeno a giudicare da quello che si è visto nelle prime due puntate. Personalmente, non condivido i peana di critici e pubblico. Chernobyl mi sembra un prodotto di assoluta medietà, più vicino all’ispirazione di certi film americani anni ’50 che non all’originalità a cui ci hanno abituato molte serie di questi anni. Un esempio per tutti: il tecnico che muore colpito dalle radiazioni la notte dell’incidente e che al collega che lo soccorre non trova di meglio che chiedere un’ultima sigaretta non sembra uscito dai film sui marines con John Wayne degli anni ’50? E la caratterizzazione dei personaggi appare veramente programmatica: ci sono i buoni, i cattivi, e quelli che abbiamo capito saranno l’“elemento umano” sballottato dalla furia degli eventi. Insomma, il tipico approccio degli americani quando si impadroniscono di una storia fuori dalla loro cultura: un metodo meravigliosamente descritto in Il simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, quando il protagonista, un vero profugo vietnamita (ma anche spia comunista), si trova catapultato a fare il consulente in un kolossal hollywoodiano sul Vietnam. Sarebbe interessante vedere un film su Chernobyl fatto dai russi anche solo per osservare il taglio culturale e antropologico che gli darebbero. Al momento (e a mia conoscenza) qualcosa di simile esiste solo in The Russian Woodpecker (distribuito in Italia col titolo Il complotto di Chernobyl), una singolare produzione anglo-ucraina in cui l’artista Fiodor Alexandrovic cerca di dimostrare che l’incidente fu in realtà provocato a bella posta dai russi per punire gli ucraini. Il documentario è un vortice di complottismo e sospetto degno di certi deliri staliniani.

 

Per il resto, a parte i numerosi documentari e reportage, nella fiction Chernobyl è dominio dell’immaginario americano. A lungo tema off-limits, dopo la caduta dell’URSS furono proprio quelli di Hollywood a lanciarsi sulla storia, declinandola subito all’occidentale. In rete si trova ancora Chernobyl – Un grido dal mondo (1991), un film di Anthony Page girato on location con protagonista Jon Voigt nei panni di un dottore americano mandato lì a studiare le conseguenze del disastro. Pian piano l’aspetto umanistico-umanitario è slittato verso una dimensione più fantastico-spettacolare. La serie HBO-Sky è stata preceduta, nell’ultimo decennio, da film come Chernobyl Diaries di Bradley Parker (2012) o dall’ultima temporanea puntata della saga di Die Hard con Bruce Willis, intitolata Un buon giorno per morire, nella quale tutta l’ultima sequenza di sparatorie ed esplosioni è ambientata tra le rovine di Prypiat, la città fantasma a poche decine di kilometri dalla centrale. Nel primo (prodotto da quelli di Paranormal Activity…) ci si immagina invece che sei giovani turisti americani in visita a Prypiat vi si perdano, come nel più classico degli horror, e siano fatti a pezzi uno alla volta da una popolazione di mutanti che vive tra le macerie.

 

Da questo punto di vista, la serie tv, benintenzionata e realistica, suona come una specie di compensazione allo sfruttamento di un immaginario che avrebbe richiesto ben altro rispetto. Quello che ha cercato La supplication del lussemburghese Pol Cruchten, adattamento di Preghiera per Chernobyl, il bellissimo libro di Svetlana Aleksievich: anche se il film, per volare troppo alto, finisce molto lontano dall’intensità delle parole della scrittrice. Però anche il mesto realismo stilistico della serie è una scelta a mezzo servizio. Rispetto alla verità, la fiction ha le sue esigenze. Vedi la sequenza dell’elicottero che cade, ascritta alle conseguenze della nuvola sul reattore, mentre si trattò di un tragico incidente causato dal contatto dell’elica con i cavi d’acciaio penzolanti dalle macerie. O il modo in cui si racconta la storia dei tre volontari che andarono manualmente ad aprire i serbatoi che evitarono una seconda ancor più tragica esplosione.

 

 

Uno di loro, Alexei Ananenko, ancora vivo e apparentemente in salute, ha dichiarato in un’intervista alla stampa occidentale che non si offrì volontario, con gesto eroico, come vediamo sul piccolo schermo, ma semplicemente eseguì un ordine senza che gli venisse detto che rischio correva. Ma d’altra parte c’è chi sostiene che l’uomo intervistato non sia il vero Ananenko, ma una controfigura pagata dal governo che lo impersona da anni. Quello vero sarebbe, con tutta probabilità, morto da tempo.
Tutto questo sembra indicare che Chernobyl non è più un fatto, è una storia. Qualcosa di cui ci si impossessa per trarne un piacere “estetico”. Leggo che a Prypiat, da quando ci andai 15 anni fa, è cresciuta in maniera esponenziale l’industria del turismo dell’orrore. Ormai, moltissimi gruppi di occidentali (e non solo) comprano tour guidati nella “zona” per sperimentare in diretta il frisson dell’apocalisse; e hanno dato vita a un indotto in cui è possibile incontrare dei sopravvissuti che raccontano la loro storia dietro pagamento, un po’ come farsi un selfie con i gladiatori del Colosseo. Forse oggi questo sarebbe il modo più crudamente realistico per raccontare cosa è diventata Chernobyl: ma ci vorrebbe la cattiveria di un Risi o di un Monicelli.

 

La domanda è: cosa ci interessa davvero in Chernobyl? Cosa ci spinge a dissotterrare periodicamente questa storia terribile? E, anche, e in modo molto personale, cosa mi convinse ad andarci due volte una quindicina di anni fa? E cosa pensai? Certo, ci dovevamo girare una sequenza importante di La strada di Levi, il film che io e Marco Belpoliti realizzammo ripercorrendo l’itinerario narrato in La tregua. Levi, più o meno quarant’anni prima del disastro, ci era passato vicinissimo e la coincidenza – in quel film che metteva in corto circuito programmatico passato e presente – non appariva casuale. Anzi, ci si vedeva la longa manus del destino. Ma nel profondo del cuore so che non andai là solo per necessità professionali e artistiche, ma per vedere con i miei, i nostri occhi la realtà della catastrofe nucleare. Una catastrofe che viene spesso evocata, minacciata e anche corteggiata: ma che solo in quel remoto angolo di pianura ucraina si è messa in mostra nella sua evidenza pratica. Tanto per cominciare: uno dice “Chernobyl”, ma dovrebbe dire “Prypiat”. Chernobyl, con i suoi reattori spenti e quello esploso coperto dal “sarcofago”, è ancora lì, piena di gente che ci lavora, occupata a tenere in qualche modo sotto controllo il dopo-incidente, a cominciare dalla gestione della cupola che ha bisogno di continuo monitoraggio. A Chernobyl non si respira aria da disastro nucleare, nemmeno sotto le ciminiere. Cogli semmai l’instancabile attività dell’uomo che reagisce ai peggiori disastri come le formiche quando gli si distrugge il formicaio. La cosa che mi colpì di più fu trovare, davanti agli edifici dei laboratori, una statua di Prometeo, in perfetto stile sovietico. Nemmeno l’incidente ne aveva consigliato la rimozione: anzi, restava lì come una silenziosa sfida al destino, surreale e insieme audace.


Il villaggio di Chernobyl, vicino alla centrale, non era granché. Non lo era mai stato. Nella pianificazione socialista, alla centrale nucleare venne affiancata una città modello, nuova di zecca: Prypiat, che prese il nome dal fiume omonimo che scorre lì vicino. L’ex-abitante che ci accompagnò nella visita (e che non volle essere pagato, perché suo figlio era stato adottato da una famiglia italiana…) ci raccontò di come tutto fosse bello e felice, lì. Quasi tutti, come lui, erano personale specializzato che lavorava alla centrale, ben pagati e inseriti in un sistema funzionante. Più tardi avrei trovato dello struggente materiale filmato d’archivio sulla vita quotidiana di Prypiat: in qualche maniera, lì il socialismo rappresentava non solo una promessa, ma una realtà. E sembra davvero una nemesi da tragedia greca che da lì sia cominciato il suo fallimento definitivo.


Per arrivare a Prypiat passammo paesaggi sempre più desolati: ma non perché quello che vedevo fosse triste o distrutto. Anzi, era proprio la portentosa riscossa della vegetazione sulla civiltà umana a marcare il disagio: sentivi di entrare in un luogo da cui l’umanità era stata bandita. E un sentimento conseguente provai entrando in città: non già il senso della storia che passa che si respira davanti alle rovine antiche, ma la folgorazione di un luogo in cui – di colpo – l’umanità non c’era più. Prypiat non fu abbandonata lentamente, ma in pochi giorni, e “temporaneamente”. Nessuno pensava che non avrebbe più rivisto casa sua. A Prypiat non sentivi la compassione per una tragedia, ma l’angoscia ancor più inquietante di una sospensione infinita. Il tempo, il tempo umano a Prypiat si era fermato per sempre. E se ci penso ora, forse capisco meglio cosa stavo vedendo: il selfie definitivo della Storia, quella che comincerà quando noi non ci saremo più.

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