Complex TV / L’ambigua lama della Storia

19 Settembre 2020

Durante il lockdown, per tirarmi su, ho cominciato a cercare “maratone/sbornia” che mi scuotessero il morale, che mi portassero in un altro tempo, e ho trovato The Marvelous Mrs Maisel (Amazon Prime): è una stand-up comedy ambientata nell’Upper East Side di New York a partire dal 1958. I colori della fotografia sono stupendi, i costumi meravigliosi, gli attori straordinari, e il ritmo che l’autrice e regista Amy Sherman-Paladino ha imposto alle sue quattro stagioni è quello frenetico, brillante, euforico di un musical. I Weissman sono una famiglia ebraica benestante e colta: il babbo insegna Matematica alla Columbia University, è domesticamente inetto e amabilmente burbero nel suo studio; la mamma è una bella donna, chic, amante del gusto parigino, altera e ironica, casalinga al comando della governante di origini est-europee. Midge nella prima stagione (2017) si è appena sposata con un giovanotto del suo ambiente ebraico interamente laicizzato nell’America opulenta e frizzante del secondo dopoguerra; Joel è figlio dei Maisel, una coppia di genitori un po’ grezzi ma pieni di mazzette di dollari nascoste sotto mattonelle e in fondo a cassetti, nel loro appartamento come nel loro magazzino di sartoria; saranno poco raffinati, ma loro i soldi li fanno.

 

Così Midge Weissman trasferisce il suo sterminato guardaroba nell’appartamento accanto a quello di papà e mamma, e diventa Mrs Maisel, e mamma di un primo tremendo figlioletto e poi di una bimba. Ma Joel è troppo giovane per capire che ha sposato la donna più intelligente e spiritosa di New York, e impiegatosi in un ufficio si monta la testa e finisce a letto con la segretaria; nel suo tempo libero ha anche l’ambizione di fare lo stand-up comedian, cioè il più difficile mestiere del mondo; quando sale a tarda sera su un piccolo palcoscenico nudo di un club, tutto solo con l’asta del microfono e un faretto seguipersona, non riesce a far ridere. Midge fa ridere tutti, di giorno: è irresistibile, simpatica, sfrontata, parla di ebrei e di sesso e al momento giusto piazza qualche battutaccia in yiddish. Comincia a dare qualche suggerimento al marito impacciato, comincia ad annotarsi battute nel suo taccuino finché… divorzia da Joel indignata per l’adulterio, torna da papà e mamma facendo impazzire con i bambinetti il flemmatico papà Abe, subisce la vergogna sociale della mamma Rose (che cercherà nei modi più buffi e grotteschi di rimaritarla) e comincia senza intento una faticosa e a tratti esaltante carriera di comica, prima nei club, poi in tournée con il celebre crooner afroamericano Shy Baldwin.

 


Passano così episodi esilaranti, Joel si pente di essere fuggito con l’oca, pur restando irremovibile sul divorzio Midge lo riaccoglie perché è un grande lavoratore e un bravo papà, e prova a flirtare prima con il collega comico Lenny Bruce (che la fa esordire in tv) e poi con l’inaccessibile ricchissimo e bellissimo scapolo chirurgo (sempre laico ebreo newyorchese) Benjamin Ettenberg: lo scapolone infine si innamora stupefatto della strambissima mammina-comica, ma lei lo pianta con l’anello di fidanzamento in arrivo, prima di partire in tour con il cantante, spezzandogli il cuore. La strepitosa attrice che interpreta Midge è Rachel Brosnahan, che la notte del 19 settembre 2020 (streaming live su fxnetworks.com) potrebbe ricevere una delle statuette degli Emmy Awards 2020 della Television Academy americana, nominata tra le migliori attrici protagoniste; The Marvelous Mrs Maisel si prepara a vendemmiare, agli Emmy, perché ha nomination anche per produzione e scene di un programma di fantasia in epoca storica, casting di commedia, cinematografia di single-camera, costumi d’epoca, regia di commedia, fotografia di single-camera di commedia, acconciature d’epoca e di singolo personaggio, make-up non prostetico d’epoca e di singolo personaggio, make-up prostetico, testo e musica di canzone originale, supervisione musicale; con Rachel Brosnahan, in nomination come migliori attrici non-protagoniste in commedia sono anche la sua agente sgangherata, tenace e grossolana, interpretata da Alex Borstein, e mamma Rose, l’attrice Marin Hinkle; migliore attore non protagonista di commedia il comedian Lenny Bruce recitato da Luke Kirby eccetera eccetera… non finisce qui il diluvio di nomination per questa serie spumeggiante.

 

 

Restando in famiglia, e in ambiente ebraico, torniamo ancora un po’ indietro, di 20 anni circa. Non siamo in un’epoca storica ricreata da una commedia, ma in una u-cronia, ovvero nella “storia-che sarebbe-potuta-accadere” di The Plot Against America di Philip Roth (2004): nel giugno del 1940 il movimento suprematista animato dall’eroe della transvolata oceanica Charles Lindbergh arrivò storicamente a coinvolgere quasi un milione di cittadini americani; “Lindy” saliva sul suo aeroplanino e percorreva in lungo e in largo gli States per affermare che il Paese non doveva curarsi del nuovo massacro in corso in Europa; non era affar loro, gli Stati Uniti erano prosperi e in pace, e nessun ragazzo americano avrebbe dovuto morire o tornare amputato per difendere gli inglesi e i francesi dai tedeschi: era già accaduto nella Prima Guerra Mondiale e non doveva accadere più; gli States sarebbero stati neutrali. Il movimento si chiamava “America First” e quel motto isolazionista e suprematista bianco lo sappiamo di nuovo in auge con la prima presidenza Trump e lo scontro elettorale in atto. Roth nel suo romanzo fa candidare Lindbergh contro Roosevelt nelle elezioni del 1940; la società americana si spacca in due, si radicalizzano razzismo e antisemitismo, il trust dei grandi capitalisti (Henry Ford in testa) finanzia Lindbergh e gonfia il rischio di una sua vittoria.

 

Roth narra con gli occhi del bambino Phillip come questa opzione di storia laceri una famiglia ebrea in un quartiere ebreo nel New Jersey: «Eravamo una famiglia felice, nel 1940. I miei genitori erano persone socievoli e ospitali, con amici scelti tra i colleghi d’ufficio di mio padre e tra le donne che insieme a mia madre avevano contribuito a organizzare l’Associazione genitori-insegnanti nella nuova scuola di Chancellor Avenue, dove andavamo mio fratello e io. Erano tutti ebrei» (traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi 2005). La ferita della Storia nel vissuto della famiglia Levin e di un quartiere passa dentro i personaggi di due sorelle protagoniste: una, Bess (interpretata da Zoe Kazan della miniserie HBO 2020 (su Sky Atlantic da noi), è modesta, intelligente, assertiva, madre di due ragazzini (Phillip e il più grande, fan di Lindy) e moglie di un assicuratore che annusa presto la puzza antisemita della discesa in campo di Lindy, l’altra (interpretata da Wynona Ryder) è Evelyn Finkel, isterica arrivista bella trentenne assillata dal rischio zitellaggine; il privato di un pacifico laico integrato quartiere ebraico viene dilaniato quando Evelyn e il nipotino Sandy credono sinceramente nel programma politico del leader della comunità ebraica, il rabbino Lionel Bengelsdorf (un grande John Turturro), che sinceramente crede che se la comunità ebraica andrà in guerra a soccorrere i fratelli ebrei perseguitati in Europa anche negli Usa si aprirà una piaga antisemita.

 

Rabbi Bengelsdorf viene cooptato nello staff presidenziale di Lindbergh ed è convinto che il suo programma di trasferimento di famiglie ebraiche dell’East Coast nella pancia agraria e reazionaria stelle e strisce sia il miglior modo per diventare definitivamente americani di confessione ebraica, e non ebrei alieni in una società cristiana bianca. I creatori della serie, Ed Burns e David Simon, hanno cominciato a lavorare al progetto prima che Roth morisse nel 2018. Simon, il geniale scrittore del prototipo perfetto di “complex tv”, ovvero delle cinque stagioni di The Wire (2002-2008), era però crucciato dal nuovo “America First” in atto, quello della violenta presidenza populista Trump; giustamente aveva annusato il peggio come il padre di famiglia Herman Levin (l’attore Morgan Spector); il “lieto fine” di Roth (i servizi segreti britannici fanno sparire il simpatizzante nazista Lindbergh e Franklin Delano Roosevelt riesce a vincere le elezioni in un Paese ormai dilaniato da linciaggi e roghi razzisti) viene forzato da Simon, che cambia il finale esprimendo l’angoscia attuale della democrazia Usa. In questa intervista del 20 aprile 2020 Simon racconta: «Ci lavorammo a lungo, ma quando fummo pronti a fissare qualcosa sulla carta, Roth era morto. Immagino che mi sia stato risparmiato il momento in cui avrei dovuto dirgli: "Ho cambiato questo, spero che ti stia bene". C'è una piccola parte di me che ha detto: "Okay, mi è stato risparmiato". Ma c'erano così tante altre cose che pensavo andassero bene con il progetto che, alla fine, avrei voluto che fosse nei paraggi per vedere cosa avevamo fatto. Penso che sarebbe stato d'accordo, in gran parte, forse». The Plot Against America, pur nella forma più breve della miniserie, gode della maestria complessa della mente di David Simon. Le due sorelle protagoniste portano nelle loro storie emotive e relazionali l’ambigua feroce lama della Storia, ma questa “complex tv” è stata umiliata nelle nomination 2020 Emmy: unica candidatura quella per la migliore cinematografia di una miniserie per il direttore della fotografia Martin Ahlgren!

 

 

 

Nell’anno sconvolto dal Covid-19, con uscite slittate e accavallate, Netflix ha pubblicato Unorthodox. New York diversa: dalll’Upper East Side anni Cinquanta eccoci invece nella Williamsburg anni Novanta. Dall’ebraismo laico benestante e integrato nella società americana alla comunità chassidica ortodossa di 300.000 anime migrate negli Usa da sopravvissute alla Shoah nell’Est Europa; cultura yiddish, canzoni e balli klezmer, le lancette del tempo portate indietro all’Ottocento. I maschi studiano da rabbini sin da bambini, le femmine diventano a diciotto anni mogli “pudiche” e sottomesse di matrimoni combinati dalle famiglie e dai rabbini, e madri di un numero più alto possibile di figli, perché da 300.000 i chassidim vogliono reintegrare i milioni sterminati tra il 1938 e il 1945. Unorthodox è una miniserie durissima, ispirata all’autobiografia del 2012 di Deborah Feldman che, neosposa e in attesa del primo figlio, non ce la fa più e decide di fuggire da Williamsburgh per cercare la sua vita nel mondo dei “gentili”; Feldman ha lavorato alla sceneggiatura con Anna Winger e Alexa Karolinski, che sono andate a documentarsi per molte settimane per le strade di Williamsburgh, facendo un casting particolarissimo: la maggior parte degli attori protagonisti, dovendo recitare per quattro lunghi episodi in yiddish, e non dovendo essere membri ortodossi della comunità, ovviamente ostile alla produzione, sono stati trovati in Germania e Israele. E a Berlino è stata girata quasi tutta la miniserie drammatica. Rivelazione per il pubblico mondiale è stata la giovanissima attrice israeliana Shira Haas (1995), che interpreta Esther Shapiro, con il suo musetto imbronciato e infantile, la sua andatura goffa e castigata, la sua recitazione dolorosa e rabbiosa, ostinata e coraggiosa. Ovviamente anche Unorthodox, produzione 2020, si prepara a una vendemmia agli Emmy: cast di miniserie, costumi contemporanei, regia per la tedesca Maria Schrader, colonna sonora di miniserie, Shira Haas tra le cinque nominate tra le migliori attrici protagoniste di un dramma.

 

 

Il successo probabilmente inaspettato di Unorthodox ha portato Netflix al ripescaggio di altri due titoli di ambientazione ortodossa ebraica: il primo tassello, in questo gioco del domino nella cultura ebraica è il ruolo protagonista di una ancora più piccola Shira Haas in Shtisel, di Ori Elon e Yehonatan Indursky, una produzione israeliana ambientata nei quartieri ortodossi di Gerusalemme: ovviamente anche qui tutti i maschi sono rabbini, e tutte le donne sono bambine in attesa di divenire mogli e madri; il contesto israeliano rende in qualche modo meno dura e violenta, più frustrata e buffa la segregazione dei membri, perché qui non si tratta di uscire da Williamsburgh e di precipitare tra le diaboliche braccia di internet e dei “gentili” americani; qui tutto intorno c’è Israele, con i suoi efficienti servizi, la sua società organizzata; in un certo senso i chilometri quadrati del “ghetto” newyorchese si allargano a un piccolo Paese assediato sì, ma comunque democratico e contemporaneo nei suoi stretti confini. La appena adolescente Ruhami (Shira Haas) è la primogenita di una delle prolifiche famiglie di una stirpe di rabbini, gli Shtisel; la madre è triste, bella e osservante, ma il marito rabbino è un vigliacco, e recandosi in Argentina per preparare le spedizioni di carne kosher si dà alla macchia. Essendo maschio, e fuggendo da un altro continente, il suo rientro sarà poi soft, tranne che nel cuore impietrito della sua sposa. Anche Ruhami disprezzerà il padre sino a che sarà un lui redento a proteggere il precocissimo fidanzamento della figlia con un orfano di madre che studia la Torah in una sinagoga abbandonata, che odia il padre perché ha sposato un’altra donna. Il talento di Shira Haas, con le lancette tirate indietro addirittura ai 24 episodi delle stagioni 2013 e 2015-2016, impressiona ancora di più, all’origine di una incredibile carriera-lampo di bambina/ragazza chassidica. Nel 2013 di Shtisel a Gerusalemme è la ragazzina più ortodossa di tutti, e sceglie per amore un marito-ragazzo con cui costruire al più presto una famiglia che risarcisca con amore e ortodossia la doppia carenza di amore e ortodossia della sua famiglia di nascita. La bella notizia è che qualche settimana fa Shira Haas ha postato sul suo profilo Instagram un selfie con il copione della terza serie di Shtisel, rilanciato da Unorthodox: non vediamo l’ora di rivederla, a questo punto ventunenne l’anno prossimo.

 

 

 

 

Secondo ripescaggio chassidico di Netflix è lo straziante documentario del 2017 One of Us, realizzato dalle autrici Heidi Ewing e Rachel Grady: è la storia di un ragazzo, di un giovane padre e di una giovane madre che realmente in questi ultimi anni hanno lasciato Williamsburgh. Le riprese delle autrici sono di una riservatezza eccezionale; si avvicinano in penombra ai tre addolorati protagonisti in tempo reale; la narrazione non è a posteriori, non si tratta di una ricostruzione dell’accaduto; scorrono lentamente per un’ora e mezza varie settimane mentre le cose accadono; la telecamera è lì quando Etty torna distrutta da una udienza in Tribunale dove si trova contro tutti i parenti, tutta la comunità e avvocati costosissimi che lavorano la legge dei “gentili” per toglierle i figli e lasciarglieli incontrare un’ora alla settimana in presenza di un assistente sociale; Luzer vive in una roulotte a Los Angeles, interpreta personaggi ortodossi nei teatri off di New York, piange frugando di notte tra le lettere della famiglia che ha perduto, e che è tornato a spiare; Ari esce da un centro di riabilitazione dove il padre lo ha affettuosamente voluto per superare due overdose di cocaina; torna a Williamsburgh e parla con un rabbino dolce e anziano, che piange mentre il ragazzo gli confessa di essere stato abusato da un rabbino “educatore”, nei suoi otto anni, in un campo estivo; porta di nuovo la kippah e impreca con l’addolorato rabbi: «Se Dio esiste, e ha permesso che un rabbino abusasse di un bambino, allora è un Dio crudele!».

Un consiglio? Non fate come me: guardate tutto al contrario! Non cominciate dalla travolgente euforia di Mrs Maisel per finire distrutti da One of Us: cominciate dal dolore del reale e finite nella gioia della commedia.

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