Quand la langue cherche son autre / Scrivere Disegnando. Incontri ravvicinati a Ginevra

3 Marzo 2020

È un momento topico, nella fantascienza immune da paranoie sovraniste, quello in cui alieni e umani devono trovare un linguaggio comune. Intendersi diventa una questione di vita o di morte: proprio come tra noi della stessa specie, in effetti. E spesso ci si riesce per via sinestetica. In un archetipo come Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg, 1977, era grazie alla musica (le cinque note di John Williams “tradotte” in gesti delle mani secondo il metodo didattico di Zoltán Kodály) che lo scienziato Claude Lacombe (François Truffaut) riusciva a stabilire il contatto (da noi «Il Male» parodiò l’episodio con una falsa prima pagina del «Corriere della Sera» nella quale si spiegava come gli alieni comunicassero, invece, tramite odori; la beffa cominciava a puzzare come tale, però, quando si riferiva l’odore impiegato per dire che ne pensassero del governo italiano…). Più di recente, in Arrival di Denis Villeneuve, viene chiamata a far parte della squadra di primo contatto la linguista Louise Banks (Amy Adams), la quale capisce che le forme gassose spruzzate dai tentacoli degli eptapodi sbarcati nel Montana sono in realtà ideogrammi che formano frasi palindrome: in quei messaggi antivede, oltre a quello delle due specie, il suo destino individuale

 

Amy Adams, In arrival, Denis Villeneuve, 2016.


Chissà se Ted Chiang, l’autore del racconto dal quale è tratto il film di Villeneuve, conosce la storia di Hélène Smith: nel 1933 André Breton, su «Minotaure», riporta dei frammenti di «scrittura marziana, ultramarziana e uraniana» che questa medium svizzera (al secolo Catherine-Élise Müller) asseriva di aver decifrato in stato di trance, offrendone una sua “stele di Rosetta”. Il suo “caso” era stato illustrato nel 1900, nel libro Des Indes à planète Mars, da un affascinato psicologo (e para-tale) suo conterraneo, Théodore Flournoy: che lo sottopose anche all’illustre linguista Ferdinand de Saussure, suo collega all’Università di Ginevra. È da questa couche sulle rive del Lemano che, con una strizzata d’occhio, Andrea Bellini fa cominciare l’avventura della mostra più singolare che si possa vedere di questi tempi, Scrivere Disegnando (titolo a sua volta un po’ medianico, che si potrebbe ben rovesciare a palindromo). 

 

Gastone Novelli, Scorcio del primo tema, 1958, courtesy Archivio Gastone Novelli, Roma.


Spesso si presenta, in un repertorio che (a parte i pittogrammi archetipi, acclusi da Laurence Sterne nelle pagine del suo Tristram Shandy) si estende appunto dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, la situazione di dover comunicare con chi usi una lingua ignota: Scritture illeggibili di un popolo sconosciuto compone con alfabeti di sua invenzione, negli anni Settanta, Bruno Munari; ma già una decina d’anni prima il perito elettrico Jean Perdrizet, ossessionato dall’assenza dei suoi morti, aveva messo a punto una macchina per rivolgersi a loro, l’«Oui-ja électrique» (non poteva certo conoscere, il mattocchio borgognone, il «defuntofono» e l’«avernese» del Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti che Giorgio Manganelli aveva pubblicato giusto nel ’65; ma qualcosa del genere c’era già nell’Ulisse di Joyce…), attraverso un «Esperanto siderale» di sua concezione.

 

Irma Blank, Eigenschriften, spazio 52, 1970, courtesy dell'artista e p 420 Bologna, ph Dario Lasagni.


Sino alla morte si ostinò a proporre i suoi disegni appunto alla NASA: prevedibilmente invano. Ed è proprio il senso di un’esclusione, dalla comunicazione, che spinge spesso a foggiarsi una lingua tutta per sé: la quale però sortisce, com’è ovvio, un effetto contrario a quello desiderato. Esemplare il caso di Justine Python, contadina svizzera che negli anni Trenta venne rinchiusa in ospizio, da dove prese a spedire interminabili lettere di protesta al «procureurgênêralmaitredesAvocats» di Friburgo: fogli coperti di una scrittura senza spazi né interpunzione, la cui illeggibilità confermava la follia che Justine disperatamente tentava di negare.

 

Bruno Munari, Scritture illeggibili di un popolo sconosciuto, 1975, courtesy Repetto Gallery London, ph Daniele De Lonti.


Ed è commovente (ma non sono pochi i lucciconi, confesso, a scorrere le vite di questi grafomani visionari) la storia di Emma Hauck: commessa in un negozio d’abbigliamento del Baden-Wurttemberg che dopo quattro anni di matrimonio, nel 1909, viene rinchiusa nel manicomio di Wiesloch con la diagnosi di «demenza precoce» (quella che di lì a poco, cioè, si prenderà a chiamare schizofrenia). Negli ultimi dieci anni di vita non farà altro che scrivere al marito lettere in cui ricorreva un’unica frase («herzensschatzi komm», “vieni amore mio” o, semplicemente, «komm komm komm») ripetuta migliaia di volte. Nessuno di questi messaggi sarà mai recapitato al suo destinatario.  

 

Justine Python, Lettera dell'8 dicembre 1932, Collection de l'Art brut Lausanne.


Tutti questi “casi” sono stati presentati, in mostra, dalla grande Collection de l’Art Brut di Losanna, dove nel 1948 – all’indomani della Grande Follia – aveva cominciato a raccoglierli, con l’appoggio fra gli altri di Breton, Jean Dubuffet. Ed è la prima volta che questa istituzione (nella persona dell’altra curatrice della mostra, Sarah Lombardi) ha accettato di esporre i propri lavori accanto a quelli di artisti “autorizzati” quale fu infatti Munari (o i pure presenti Gysin, Novelli, Boetti, Baruchello, Paolini, Patella o Griffa). E proprio questo è uno dei “confini” sui quali ci invita a riflettere Scrivere Disegnando: dove si collocano i «microgrammi» di Robert Walser, morto in manicomio ma scrittore oggi venerato? E dove i pittogrammi, convulsi e fantastici, di Henri Michaux? Si capisce allora come sia storicamente relativa, e non possa essere invece ideologizzata quale costitutiva, la definizione di “brut”: proprio come, dopo Foucault, non possiamo non considerare la “follia”.

 

François Truffaut, In close encounters of the third kind, Steven Spielberg, 1977.


Molte sono le artiste che, dal secondo Novecento sino a oggi, hanno scelto la scrittura d’invenzione, intesa come codice esclusivo, per esprimere icasticamente la discriminazione delle donne: da Irma Blank a Maria Lai, da Dadamaino e Tomaso Binga sino alla sventurata Chiara Fumai (che così “traduce”, programmaticamente, un testo di Carla Lonzi) e alle più giovani Mariangela Guatteri, Laura Cingolani e Martina Stella. La men che quarantenne californiana Steffani Jemison rievoca in questo modo, invece, le lingue segrete dei neri deportati dall’Africa in America (mentre un poeta come Marco Giovenale ricorre all’asemic writing per interrogarsi, in generale, sui limiti del proprio linguaggio).

 

Luigi Serafini dal codex seraphinianus, 2006, courtesy dell'artista.


Ma il “limite” più radicalmente messo in discussione a Ginevra, si capisce, è quello indicato dal suo titolo. Cos’è “scrivere”, e cosa “disegnare”? In una serie di scritti fiammeggianti, negli anni Settanta, Roland Barthes – che s’ispirava al “caso” fra tutti più problematico, e seducente: quello di Cy Twombly – la chiamava «scrizione», anziché «scrittura»: per distinguerne il gesto grafico (il ductus) dall’intenzione semantica (che, provocatorio, considerava «posteriore, derivata, secondaria»). Ma anche per suggerire come in questo terrain vague si nasconda qualcosa di più sfuggente, e forse più pregnante, del significato: quella che lui chiama «significanza». È in questa terra di nessuno che potremo incontrare, magari, l’assolutamente altro: e non è detto che avrà sette tentacoli.

 

Marco Giovenale, Untitled, 2019, courtesy dell'artista.


È stata inaugurata lo scorso 29 gennaio, e sarà aperta sino al 3 maggio al Centre d’Art Contemporain di Ginevra diretto da Andrea Bellini, la mostra Scrivere Disegnando. Quand la langue cherche son autre, curata dallo stesso Bellini insieme a Sarah Lombardi, direttrice della Collection de l’Art Brut di Losanna, e con la collaborazione di Sara De Chiara: 93 sono gli artisti esposti, con più di trecento opere in mostra. 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore» il 23 febbraio-

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