Michel de Certeau: l'invenzione del contemporaneo
Figura seducente e originale della cultura francese, Michel de Certeau era nato il 17 maggio 1925 a Chambéry, in Savoia. Il suo primo campo di studi è la storia delle religioni, in particolare i primi decenni di vita della Compagnia di Gesù a cui apparteneva. Ricerche filologicamente accurate gli consentono di riproporre nel 1960 il Diario di Pierre Favre (1506-1546), tra i fondatori della Compagnia al fianco di Ignazio da Loyola, e poi di recuperare l’opera dispersa del gesuita e mistico Jean-Joseph Surin (1600-1665). Lo sguardo storico di De Certeau è arricchito dalla frequentazione delle scienze umane, sociologia, antropologia, psicoanalisi; aderisce all’École freudienne e segue i seminari di Lacan, come faranno altri gesuiti. Quando giungono gli “eventi” del ’68, De Certeau è redattore delle riviste “Études” (mensile della Compagnia di Gesù) ed “Esprit”; intanto comincia la docenza universitaria a Parigi, per poi spostarsi all’Ecole des Hautes Etudes e a San Diego. Segue “dal vivo” i conflitti che scuotono la vita politica e sociale francese, li analizza in articoli – raccolti in La presa della parola (ottobre 1968, Meltemi, 2007) – che brillano per acume e apertura intellettuale; diventa un interlocutore privilegiato al di là della cerchia del mondo cattolico, sia negli ambienti studenteschi che nelle istituzioni culturali. Nel ’68 de Certeau scorge i segni di una “rottura rifondatrice”, come per altri versi era stata l’apertura del Vaticano II. Si andavano sfaldando i criteri su cui si era edificata la convivenza fra le generazioni: insieme all’eredità cristiana veniva meno l’identità politica, prendeva voce l’inquietudine di una generazione insoddisfatta delle mediocri prospettive che la società poteva offrire e che chiamava i padri alla responsabilità di promuovere speranze di miglioramento spirituale. Nei giorni gioiosi e violenti del Maggio “voci mai sentite ci hanno trasformato […], riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno, avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate”.
Certo, la presa della parola si è espressa quasi solo in forma di protesta, come rifiuto delle autorità, ma essa ha significato fare “esperienza diretta della democrazia”, legittimare una partecipazione creatrice e responsabile di tutti, e anche “la festa della libertà – potere dell’immaginazione e festività poetica …”. Era l’esperienza stessa della cultura a cambiare, più che la sua concezione: gli spettatori si trasformavano in attori, l’apprendimento di conoscenze apriva discussioni appassionate riguardanti l’esistenza e la felicità. La grande novità concerneva “la relazione pedagogica”, non solo quella scolastica, ma ogni situazione in cui la relazione con altri (allievi, dipendenti, governati, ecc.) rovescia le tradizionali posizioni di forza. “Il luogo del sapere passava nelle mani dei suoi ‘oggetti’ […]; il teatro (ogni società lo è in qualche modo) trasformava gli spettatori in attori e lo spettacolo in creazione collettiva”. Si trattò per De Certeau di una rivoluzione simbolica, che si traduceva nel prendere il sapere a rovescio, come attesta quanto accaduto nelle “scienze umane”, luogo originario della contestazione: un sapere al servizio di una società del consumo si è visto “ripreso” secondo modalità differenti, “occupato” da coloro che volevano far sentire la propria voce.

Delle frequentazioni di quegli anni, nei circoli operai e studenteschi come nella cerchia dei ministeri, si trova traccia in una serie di articoli pubblicati fra il 1968 e il 1973, poi riuniti nella Cultura al plurale (1974, ora tradotto per Vita e Pensiero). De Certeau si schierava contro la celebrazione della “cultura al singolare”, che “impone sempre la legge di un potere”, contro l’idea della cultura come un tesoro da proteggere dalle ingiurie del tempo o un insieme di “valori” da difendere. Nella prefazione, Luce Giard, segretaria, collaboratrice e fedele custode del suo lascito, rileva che De Certeau diffidava della visione diffusa per cui l’azione culturale è una pioggia benefica che fornisce alla classe popolare le briciole cadute dalla tavola dei sapienti. Convinto che la creatività non sia appannaggio dei professionisti, De Certeau prestava attenzione alle mille reti informali che fanno circolare quei flussi d’informazione senza i quali una società soffoca: la “cultura al plurale” è l’insieme di pratiche significanti che percorrono l’intera vita sociale, una cultura non subita ma resa viva dagli atti grazie ai quali “ognuno marca quel che altri gli danno da vivere e da pensare”. La nozione di “cultura popolare” non è che il frutto di una costruzione deliberata ad opera del potere: nel XIX secolo, la “cultura colta” lodava la fresca innocenza e l’ingenua spontaneità del popolo, i riti e le credenze diffuse dai dialetti, pronta però a sorvegliarne l’anima protestataria, come attestano le censure che colpivano il commercio ambulante (colportage). Il culto reso al popolo mirava a preservarne lo spirito infantile e, al contempo, a reprimerne gli slanci anti-sociali e anti-religiosi, fino ad affrettarne la scomparsa: nella memoria dei celebranti, niente può cancellare “la bellezza del morto”. De Certeau esortava l’università a farsi “laboratorio” che adeguasse i suoi metodi alle domande e ai bisogni delle masse, in grado di produrre cultura in una lingua che non sia estranea a gran parte delle persone; lo diceva contro i custodi dell’ortografia, “ortodossia del passato”, pronti ad arruolare battaglioni per difendere “il tesoro della lingua francese”.
È proprio il “potere di creare delle culture” il segno della dignità dell’uomo; la stanchezza dell’Europa si misura dalla “perdita del diritto più fondamentale, il diritto di un gruppo sociale a formulare da sé i propri quadri di riferimento e i propri modelli di comportamento”. De Certeau pensa la cultura come “proliferazione d’invenzioni in spazi vincolati”, il cui modello ridotto è il vecchio gioco dell’oca: “una sorta di mappa dove, su di una serie di posti e secondo un insieme di regole, si dispiega un’arte sociale di giocarsela, di creare degli itinerari e di volgere a proprio vantaggio le sorprese della sorte”. Di qui le ricerche dedicate a L’invenzione del quotidiano (1980); il primo tomo, tradotto dalle Edizioni Lavoro nel 2001, è stato ristampato nel 2010; non il secondo, rivolto all’abitare e al cucinare, scritto in collaborazione con Luce Giard e Pierre Mayol, rimasto incompiuto per la morte di De Certeau nel 1986. L’attenzione si focalizza sull’operatività e virtuosità delle pratiche ordinarie, sulla dinamica molteplice delle figure sociali che si attivano sul suolo mobile della quotidianità. La fiaba e il racconto popolare, il lavoro di straforo e l’economia del dono, la riappropriazione degli spazi urbani attraverso il camminare, la formazione spuria delle credenze, la ricezione dei messaggi diffusi dai media: “arti del fare” in cui l’uomo comune realizza una scienza tattica, trucchi e astuzie giornaliere, cioè forme di resistenza alle “strategie” messe in atto dalle istituzioni per imporre percorsi predefiniti e controllabili, per disciplinare, sul modello degli ordinamenti militari, organizzazioni quali le chiese, le scuole e le aziende (qui gioca la lezione di Michel Foucault, su cui de Certeau si sofferma in varie occasioni, in particolare nei saggi raccolti in Storia e psicoanalisi. Tra scienza e finzione, 1987, Bollati Boringhieri, 2006).

Come rileva Luce Giard, fu questo il desiderio che animò Michel de Certeau per tutta la sua vita: aprire dei possibili, allestire uno spazio di movimento in cui possa sorgere una libertà. Con sorprendente chiaroveggenza, La Cultura al plurale lavora nei cantieri aperti dalla crisi di un’antropologia della credibilità, dalla delegittimazione crescente nei confronti delle autorità: le rappresentanze politiche e sindacali diventano marginali, malattie della fiducia e del sospetto gettano il discredito sull’operato degli insegnanti e degli esperti in genere. De Certeau giudicava una “scandalosa leggerezza” condannare al macello i sistemi di autorità senza prepararne il rimpiazzo, esortava al senso politico di una responsabilità condivisa: in polemica con l’incoscienza di certi intellettuali esultanti, forieri di un terrorismo ideologico elitario, si sentiva solidale con quanti vogliono “fare la verità” e “reinserire nei suoi fondamenti democratici un’organizzazione sociale dell’autorità”. Da storico delle religioni, aveva scorto già nel Seicento una “rivoluzione del credibile” che aveva sottilmente incrinato l’adesione alla fede cristiana, per la frammentazione in Chiese rivali diventate focolai di conflitti, per l’avvento di un nuovo portavoce della Verità, il Soggetto di scienza. I progetti che, sul finire degli anni Sessanta, mirano a “dar parola” al rimosso e al represso trovano nella mistica il loro “correlativo storico”. In Fabula mistica (1982, tradotto nel 1987 dal Mulino, introduzione di Carlo Ossola, ristampato da Jaca Book nel 2016, insieme al secondo volume), De Certeau si pone all’ascolto di quella “musica di parole” che, da Meister Eckart a Teresa d’Avila, da Giovanni della Croce a Surin, esprime il dolore per l’assenza dell’Altro e insegue nel segreto dell’avventura interiore la certezza dell’incontro con il divino. Alla fine del XVII secolo la mistica si disperde, se ne ritrovano le tracce nella filosofia romantica tedesca, nel Tractatus di Wittgenstein, si ripresenta come l’Altro in Lévinas o nell’incontro con Dio in Simone Weil. La mistica è una “pratica di scrittura”, costretta a forzare i limiti del linguaggio, a percorrere lo spettro delle metafore fino a toccare il silenzio; ma il Verbo parla sempre di meno, si limita a lasciare tracce di impervia lettura su un corpo inciso dal patire amoroso. La scena religiosa si è trasformata in scena erotica, l’esperienza dell’ineffabile dà carne al desiderio dell’incontro con l’Altro perduto per sempre e che non rientra più nel dicibile.
Se la mistica è “una maniera di parlare”, la parola dal XVI secolo, rileva De Certeau, diviene Fabula, ad indicare nel medesimo tempo l’oralità e la finzione: se la fabula parla (fari), non sa però quel che dice, il mistico si apparenta così al bambino o al folle. “Non sono colui che parla in me”, dice il mistico, in forma simmetrica e rovesciata a quanto accade alle suore indemoniate di Loudun (1635-1637), dove Surin è incaricato della direzione spirituale di Jeanne des Anges, priora del convento: un “non so che” parla, un “altro” altera il discorso del sapere teologico. Appartiene alla formazione del gesuita De Certeau, e non solo al clima culturale dell’epoca dominato dalla semiotica e segnato dalla svolta linguistica del Novecento, l’attenzione preminente alla “parola”; degli Esercizi di sant’Ignazio, Roland Barthes diceva che il loro oggetto era “l’invenzione di una lingua”, la ricerca di tecniche retoriche con cui parlare a Dio. La possessione di Loudun (1970, Cueb, 2012, prefazione di Rossana Lista) interpreta la vicenda nei termini di una “tragedia del linguaggio”: “Prendo Loudun un po’ come Freud prende il lapsus in un discorso”, dirà de Certeau. La parola si è fatta ambigua: come per il don Chisciotte commentato da Foucault in Le parole e le cose, le cui gesta eroiche narrate nei libri non trovano più corrispondenza nella realtà, nel “teatro barocco” di Loudun il discorso religioso degli inquisitori appare ormai privo di potenza guaritrice e la sede del soprannaturale sta in quella che un diavolo chiama la “carne-Dio” delle possedute. Nei sintomi manifestati è il Diavolo (diabolos, il maldicente, il calunniatore) a parlare: al genio maligno, su cui la Ratio cartesiana negli stessi anni indicava la menzogna sconfitta, gli esorcisti chiedono conferma della verità di fede. Cercando testimonianza del soprannaturale nella topografia delle regioni del corpo, ripartito in funzioni ed organi dal sapere medico, essi ammettono implicitamente di dover cedere il passo a un nuovo sapere-potere, dietro al quale si staglia un’altra razionalità, la ragion di Stato che impone il suo verdetto e dirime le controversie religiose.

Le “diavolerie” mettono in scena la trasformazione delle strutture dell’episteme dell’età classica, il farsi incerto dello statuto della verità, non più garantito dal riferimento all’ordine divino del cosmo: le procedure che inseguono la verità sulla superficie visibile dei corpi non sanno distinguere la testimonianza affidabile dall’illusione, l’esperienza si è fatta ingannevole e il miracoloso appartiene ormai al campo dell’immaginario, se non della finzione. Tornando nel ’75 sull’affaire Loudun – “Il linguaggio alterato. La parola della posseduta” (in La scrittura della storia, Il Pensiero scientifico, poi Jaca Book, 2006; il saggio è incluso anche in La scrittura dell’altro, Cortina, 2005, introduzione di Silvana Borutti e Ugo Fabietti) –, de Certeau si chiede se esiste nella possessione un “discorso dell’altro”. Nelle procedure dell’esorcismo catartico le orsoline sono vittime più che attrici: possedute due volte, dal diavolo che le costringe a pose oscene e smorfie villane, dagli esorcisti che le alienano cercando di far corrispondere ai loro gesti e fremiti la griglia demonologica di una secolare tradizione. Il lavoro di esorcisti e medici consiste nel trovare il luogo corporeo da cui il demone parla e nel dargli un nome: la parola femminile della posseduta è detta nel logos maschile, così come quella dell’isterica sarà detta nell’ordine del discorso del sapere psichiatrico. Si annuncia un altro spettacolo, quello che due secoli dopo l’alienista Charcot metterà in scena alla Salpêtrière facendo “recitare” le isteriche di fronte a un pubblico di studiosi e curiosi. Già a Loudun s’insinua il sospetto che in gioco vi sia “la forza dell’immaginazione delle donne”, acuita dalla condizione di reclusione e dal contagio; alcuni libelli ipotizzano che la possessione vada spiegata in termini di “isteromania”, ovvero l’“erotomania” che si scatena fra giovani donne tormentate dal pungolo della carne.
Sono l’esorcista, il medico, il giudice a padroneggiare l’oralità dell’altro: in tal senso non c’è “discorso dell’altro”, c’è semmai “discorso sull’altro”, la parola torna alterata nel “presunto sapere” di chi, tramite la scrittura, può affermare “so meglio di te quello che dici”, di chi illumina il non-sapere che l’altro manifesta inconsciamente. È questa, rileva de Certeau, la modalità fondamentale su cui il sapere dell’Occidente ha edificato le scienze che diciamo “umane”: il gesto di comprensione articolato dall’etnografia sul selvaggio, dalla psichiatria sul pazzo, dalla storiografia stessa su chi è ormai consegnato alla morte, organizza il rapporto con l’Altro grazie alla mediazione della scrittura conquistatrice. La prefazione all’edizione italiana della Scrittura della Storia commenta un’immagine a stampa (1619) che illustra l’incontro di Amerigo Vespucci con l’America: lo scopritore, giunto dal mare, in piedi e vestito, sta di fronte a un’Indiana distesa e nuda, corpo che si risveglia tra vegetazione ed animali esotici. È una scena inaugurale: il conquistatore si appresta a scrivere sulla pagina bianca del corpo dell’altro, a tracciarvi la propria storia, fino a darle il proprio nome. Le scienze umane articolano “un saper dire su ciò che l’altro tace”; il possesso della scrittura coincide con il potere di “prendere la parola” al posto dell’altro, anche di quell’alterità assente che è l’inconscio.
È qui che si rintraccia il nucleo del pensare di de Certeau: come dar voce all’altro senza assimilarlo a se stesso, senza compiere la violenza di ridurlo alla grana della propria voce. L’originalità dell’eterologia di de Certeau rispetto ad altri autori (Derrida, Lévinas, Ricoeur) sta nella saldatura fra riflessione ecclesiologica e scienze umane; è anche per questo motivo che un altro gesuita, papa Francesco, ha definito de Certeau “il più grande teologo per il giorno d’oggi”. E si comprende il moltiplicarsi recente di saggi a lui dedicati: Modernità e alterità. Un percorso sulle tracce di Michel de Certeau di Davide Lampugnani (Vita e Pensiero, 2024), Michel de Certeau di Luigi Maria Epicoco, Feltrinelli, 2025, Michel de Certeau. Prospettive antropologiche di Alberto Sobrero (postumo), Morcelliana, 2025. La consapevolezza che “il cristianesimo è in frantumi” (titolo di un’opera scritta con Jean-Marie Domenach, a lungo direttore di “Esprit”, edita da Effatà nel 2010) non deve indurre a un’apologetica del cristianesimo quale religione assoluta. La credenza cristiana costituisce ormai una delle forme di alterità da cui la modernità si è separata: al cielo fisso delle verità si è sostituita una serie di costellazioni, tema che emerge con forza nei saggi raccolti in La pratica del credere (Medusa, 2007, introduzione di Giovanni Leghissa), e nella Debolezza di credere. Fratture e transiti del cristianesimo (Città aperta, 2006, Vita e Pensiero, 2020). Ma proprio perché marginale e consapevole di essere un’opzione storica singolare e non più universale, tale credenza può assumersi la cura di farsi esperienza di ospitalità nei confronti dell’altro. “Sono soltanto un viaggiatore”, ha detto di sé de Certeau e la studiosa statunitense di storia delle donne, Natalie Zemon Davis, lo ha definito “girovago della fede (rivista “Vita e Pensiero”, n° 6, 2016). Aver viaggiato fra letteratura mistica, studi storici e ricerche antropologiche gli ha insegnato che “in mezzo a tante voci, la mia poteva essere soltanto una fra le altre” nel tracciare gli itinerari dell’esperienza spirituale (Lo straniero o l’unione nella differenza, 1969, Vita e pensiero, 2010). È questa la scoperta compiuta dal missionario: fuggite le città cristiane dove la fede si regge sulla comodità delle tradizioni, lascia tutto per annunciare la Parola di Dio a coloro che la ignorano. Ma è dagli stranieri che il missionario impara chi è e da dove viene: “Fiori chiusi, da tempo presenti nel suo giardino cristiano, certe espressioni del Vangelo – quelle che dicono la fecondità della vita divina o la misteriosa connivenza dell’Altissimo con i poveri – si schiudono nel mattino di una fraternità nuova e gli mostrano un segreto che finora non aveva percepito. E mentre viene accolto dai suoi fratelli, nello stesso tempo viene introdotto nella sua ‘anima’, cioè nel paese del suo Dio”. Dio resta lo straniero per noi, lo sconosciuto, anche quando crediamo in lui; partito per far conoscere la sua verità, il missionario scopre infine, non solo la verità degli altri, ma che sono questi ultimi a rendergli comprensibile la verità della parola che lo aveva indotto a partire.
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