Se l'Italia è senza casa
La casa è il grande rimosso del nostro tempo. Non perché manchi, ma perché ha smarrito il suo senso originario: essere luogo dell’abitare, del progetto di vita, del radicamento, delle relazioni calde e di prossimità. Nel silenzio del dibattito pubblico, la questione abitativa resta relegata a problema privato, da affrontare in solitudine, a seconda delle proprie reti sociali, o da cui restare esclusi del tutto. Eppure, la crisi della casa è il sintomo più evidente di una distorsione sistemica, viviamo in un’economia che trasforma ogni bisogno in merce. La casa sta diventando tutto fuorché casa: è investimento, asset economico, contenitore turistico, promessa di rendita.
Per questo serve uno sguardo unitario, capace di legare ciò che il mercato disgiunge. Casa, turismo, finanza, lavoro e città non sono dimensioni distinte, ma manifestazioni di uno stesso modello capitalistico estrattivo che trasforma tutto – spazi, relazioni, tempo, affetti, corpi e vite – in termini di consumo. La casa è il nostro specchio. Racconta come viviamo, come pensiamo le relazioni e i luoghi, come riusciamo a immaginare il futuro.

L’Italia è senza casa, suona come un monito e un lucido grido d’allarme il titolo del nuovo libro di Sarah Gainsforth (L’Italia senza casa, Laterza, 2025), che raccoglie e sistematizza temi già affrontati dall’autrice in precedenti contributi (Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019; Abitare stanca, Effequ, 2022). Il volume ricuce in modo certosino processi solo all’apparenza distanti, dalla costruzione di un Paese di proprietari, al valore dei suoli, dalla gestione urbanistica del territorio fino alla finanziarizzazione del mercato abitativo, inquadrando con precisione le tappe che hanno trasformato le politiche abitative italiane da “strumento di redistribuzione per molti (l’abitazione come diritto)” in “dispositivi di accumulazione per pochi (l’abitazione come merce e patrimonio)”.
In questa lunga storia di profonda mutazione antropologica, non ce ne voglia Pasolini, ci siamo dentro tutti. Ciascuno può liberamente collocarsi nelle trame di questa commedia umana: dal piccolo proprietario che alza i prezzi nelle città universitarie, al nipote che mette a reddito la casa del nonno scomparso e prova a inventarsi un lavoro; dal viaggiatore del weekend che cerca un alloggio last minute su una piattaforma digitale, all’infermiere che ha in mano un contratto ma non trova casa a una distanza ragionevole dal luogo di lavoro; dal politico che elogia la “città dei 15 minuti” senza coglierne le intrinseche contraddizioni, al precario della scuola costretto a ore di viaggio per tenere insieme casa e lavoro. L’uscita da questo pelago richiede una mobilitazione collettiva, di pensiero e di azione.
Quello che siamo oggi è frutto della nostra storia. Siamo il Paese dei Tre porcellini, sempre impauriti dal lupo. Il Paese che ha avuto nella casa in muratura – nella casa solida, come la chiama Luca Molinari nel suo Le case che siamo – e soprattutto nella casa di proprietà il centro di una struttura economica e familiare molto forte. La casa-fabbrica è stata la struttura portante dei distretti industriali, le cascine-azienda quella di molti contesti contadini, molti sistemi turistici sono stati costruiti su seconde case e su paesi fatti di case-senza-abitanti che si aprono ai turisti per tre mesi all’anno. La storia delle case, persino la loro tipologia edilizia (villette, edifici, grattacieli, case a corte, co-housing) rivela moltissimo della cultura civile di un territorio e del modo in cui vive la relazione dentro-fuori, privato-pubblico, casa-ambiente.
Una struttura sociale fatta di legami familiari ispirati a un certo mutuo soccorso e di case di proprietà, è stata il paracadute che ha salvato dall’abisso delle varie crisi molte famiglie italiane. Siamo il paese della seconda e talvolta della terza casa, della casa da affittare o da comprare come investimento (Granata, Lanzani, Esperienze e paesaggi dell’abitare, 2006).
Questa struttura abitativa è la proiezione di un modello sociale tendenzialmente statico, poco incline alla mobilità sociale, più propenso a generare rendita che lavoro. Un modello che da tempo ha rivelato i suoi aspetti di fragilità. A un’immobilità fisica degli immobili rischia di corrispondere un’immobilità sociale. Costruiamo case a ritmo crescente, senza che questa iper-produzione edilizia risponda a quella domanda di case che viene dalle fasce più dinamiche della popolazione, famiglie, giovani, studenti e lavoratori fuori sede. Cresce la domanda di case e allo stesso tempo cresce l’offerta, entro un disaccoppiamento che ha le sue radici in un modello edilizio fondato su un uso distorto degli oneri di urbanizzazione, per cui costruire case nuove risponde più a una domanda finanziaria dei comuni che a una domanda reale di alloggi.

La mancanza di case non nasce dalla scarsità. Nel 2023, secondo i dati dell’Agenzia delle Entrate, le abitazioni vuote hanno superato quelle locate, quasi dieci milioni, pari al 27% dell’intero stock residenziale. D’altro canto, nelle società moderne, la scarsità – di case, servizi, beni o cibo – non è mai un dato naturale, ma il risultato di scelte collettive e politiche assenti o inadeguate.
Ma le distorsioni del mercato immobiliare sono anche l’effetto diretto, non accidentale ma strutturale, delle scelte politiche e urbanistiche degli ultimi decenni. Il soggetto pubblico ha progressivamente rinunciato al suo ruolo di guida e contrattazione, non ponendo condizioni agli investitori privati né pretendendo ricadute collettive: una quota di edilizia accessibile, spazi verdi, servizi. Tutto è stato affidato alla volontà del mercato. Mancano regole pubbliche capaci di orientare il mercato, tutelare i proprietari, scoraggiare comportamenti speculativi e sostenere chi decide di mettere a disposizione il proprio immobile in affitto. E in un mercato completamente deregolamentato, è difficile arginare le aspettative di massimo guadagno. Farlo richiederebbe un lavoro culturale profondo e di lungo periodo, volto a promuovere un’idea civile dell’abitare che, purtroppo, fatica ad affermarsi anche tra le fasce più sensibili alla coesione sociale.
Il messaggio passa di bocca in bocca, tra privati cittadini, circola sui media e i quotidiani, è sulle labbra del giovanissimo agente immobiliare galvanizzato dal fatto che per un piccolo appartamento a Milano o a Bologna oggi si possa chiedere qualunque cifra. Quel termine “qualunque cifra” è il più grande eccitante in circolazione. La cocaina del tempo che corre.
L’assetto neoliberale – osserva ancora Sarah Gainsforth – ridefinisce il rapporto tra Stato, finanza e società e la relazione tra pubblico e privato. Lo Stato non scompare ma muta la natura, da garante di uno scopo sociale e redistributivo, diventa promotore di logiche economiche orientate al profitto e alla rendita. Questo cambiamento si è tradotto nel passaggio da politiche basate sull’offerta, come la produzione di edilizia pubblica e la regolazione degli affitti, a politiche orientate alla domanda, come i sussidi individuali per rendere i cittadini “solvibili” sul mercato.
Stiamo diventando un Paese-albergo? Parrebbe proprio di sì. Rischiamo di diventare tutti abitanti scontenti delle città dove abitiamo e turisti felici nelle città degli altri (e spesso letteralmente, nei letti degli altri). L’ultimo colpo all’abitare, infatti, è stato dato dalla diffusione degli affitti brevi anche in contesti non turistici. Anche qui nessuno può chiamarsi fuori del tutto. Consiglio a questo proposito la lettura della ricerca di Francesco Chiodelli e Mara Ferreri, Chi gestisce davvero il mercato airbnb? Gli affitti brevi in Italia dal 2017 al 2024 (Politecnico di Torino, 2025).
Come ha osservato Massimo Cirri, in molte città oggi è più facile trovare un bar aperto a tarda sera che un servizio per un’emergenza sanitaria o un supporto per la salute mentale dei giovani. Chiudono i presidi medici, aprono birrerie, come se la città fosse pensata solo per vivere di aperitivi e tempo libero.
L’attenzione pubblica si concentra su temi come il decoro urbano, la sicurezza e il degrado, ma si disinteressa dei beni comuni, degli spazi pubblici e dei servizi territoriali essenziali, in particolare quelli legati alla salute e alla cura. Il fatto che il turismo impatti in modo significativo su città d’arte come Venezia, Roma e Firenze è noto da tempo ma ciò che oggi preoccupa è la diffusione di questo modello anche in città di medie dimensioni, che fino a poco fa avevano saputo mantenere un equilibrio tra funzioni diverse e tra residenza stabile e fruizione temporanea.
Gli effetti sono evidenti. La turistificazione dello spazio urbano avanza rapidamente e non risparmia nemmeno città a vocazione più articolata come Milano, Padova, Treviso, Bologna, Verona, Lecce, Napoli o persino Rimini, dove l’accoglienza alberghiera strutturata convive ora con la dinamica degli affitti brevi gestiti da privati. Il risultato è la progressiva espulsione della domanda abitativa locale, in favore di un’offerta più redditizia.
Ancora una volta le scelte individuali sono determinate esclusivamente dal profitto economico anche a scapito di un impoverimento dei beni comuni. Esiste “un enorme differenziale di redditività (un rent-gap) tra un affitto breve e uno di lungo periodo, ordinario, residenziale. In Italia sono in media sufficienti soltanto 150 giorni, meno di cinque mesi l’anno, di affitto breve per ottenere la stessa redditività di un affitto ordinario annuale”, osserva Gainsforth. Quanti di noi potrebbero sottrarsi a questa attesa economica? Possiamo immaginare altri tipi di vantaggi (fiscali, sociali, relazionali)?
L’equazione va da sé. I turisti rendono più degli studenti, che rendono più delle famiglie senza figli, che rendono più delle famiglie con i figli e le città diventano inospitali per chi ha un progetto di famiglia. Solo nell’ultimo anno Milano ha perso 50.000 residenti e a lasciare la città sono proprio giovani e famiglie con figli. Tra questi anche infermieri, precari della scuola, tranvieri, camerieri e tutte quelle categorie di lavoratori che tengono viva e vivibile una città.

La metamorfosi urbana è silenziosa ma profonda. Riguarda i negozi, che si adattano a una clientela di passaggio; riguarda gli spazi abitativi, che si piegano alle logiche del turismo mordi-e-fuggi; riguarda infine i diritti urbani che si dissolvono insieme agli abitanti stabili.
Lo vediamo anche nella trasformazione estetica degli “interni”: gli alloggi Airbnb tendono a uniformarsi a uno stile globalizzato, minimalista, neutro, pensato per piacere a tutti e appartenere a nessuno. Appartamenti storici vengono ristrutturati rimuovendo elementi architettonici originali, sostituiti da arredi standardizzati e materiali di bassa qualità, cancellando così la memoria e l’identità dei luoghi, in Liguria come in Puglia. Quello che avviene nelle “nostre case” ha ormai assunto proporzioni grottesche: togliere le marmette storiche per mettere listoni in legno dozzinale, inserire bagni passanti o docce a vista nelle camere, sopraelevare letti per aumentarne la capienza sono scelte progettuali che snaturano completamente l’autenticità dei luoghi. Gli architetti dovrebbero fare obiezione di coscienza di fronte a questi interventi che banalizzano e impoveriscono il patrimonio edilizio storico. Ribellarsi con un po' di ironia alla airbnb-izzazione delle nostre esistenze.
Stiamo svendendo case e città, che hanno resistito per secoli, per un piatto di lenticchie.
Servirebbe un insperato sussulto di giovanile dignità e indignazione, come in Spagna. Occorre smontare la macchina e provare a immaginare un abitare post-capitalista. Servono visioni alternative capaci di rimettere al centro un’ecologia dell’abitare, la cura dei legami, il diritto a restare nei luoghi dove si è nati o si studia.
Una riflessione matura sulla casa, oggi, dovrebbe ripartire da almeno tre direzioni: primo, restituiamo alla casa la sua dimensione pubblica e civile. È necessario rafforzare il ruolo del soggetto pubblico come promotore edilizio, quando serve, e come arbitro e regolatore del mercato. Per farlo, occorre ricostruire dal basso un nuovo protagonismo pubblico, fondato su alleanze, sinergie, sperimentazioni. Esistono già esperienze virtuose sul tema degli affitti brevi e della produzione di edilizia pubblica che indicano la strada, a Barcellona, come a Vienna o a Bruxelles.
Secondo, dobbiamo riconoscere la casa come un diritto e promuovere azioni concrete a sostegno del buon abitare. Significa uscire dalle scorciatoie e dalle semplificazioni: a una domanda complessa non si può rispondere con soluzioni lineari come “costruiamo più case” o “più studentati”, alibi ambiguo per continuare a costruire residenze per target alto-spendenti. Serve una visione sistemica, capace di affrontare l’emergenza abitativa leggendola insieme alle politiche urbanistiche, agli interventi di rigenerazione, ad un pensiero evoluto intorno alla crisi climatica.
È urgente, infine, ripensare l’intero sistema produttivo edilizio, optando finalmente per modelli flessibili, a basso impatto ambientale, poco energivori.
Costruire meno, costruire meglio: è questa la sfida più difficile, convertire un mercato dominato dal ciclo del cemento – spesso di scarsa qualità, gestito da imprese informali o addirittura criminali – in soluzioni edilizie a secco, controllabili nella posa e nei costi, meno soggette all’obsolescenza del calcestruzzo e più sostenibili. Servono politiche che promuovano la casa passiva, capace non solo di non consumare energia, ma di produrla, diventando essa stessa dispositivo di mitigazione climatica.
Solo un pensiero che non disgiunge, che non separa attenzione all’ambiente e rigenerazione, cura dei beni comuni e innovazione, lavoro e abitare potrà indicarci possibili vie di uscita.
Sorrentinianamente: non ci disuniamo.
