Un cane filosofo
All’inizio stanno due domande, all’apparenza senza un nesso. La prima (anche se potrebbe suggerire l’idea di essere la seconda in ordine di importanza): perché non ci siamo liberati dei cani, come abbiamo fatto con quasi tutti gli altri animali? La seconda (di dimensioni spropositate): qual è il senso della vita? La risposta è “per statuto” ingenua e ha a che fare con la felicità. Spiegandoci meglio: i cani ci hanno indicato, ci indicano e forse continueranno ad indicarci come essere felici, suggerendoci quale sia il significato della vita. Altrettanto evidente è quanto sta a monte. Se, perlopiù senza esserne consapevoli, al cane attribuiamo questo ruolo è perché scopriamo in lui qualcosa che noi non abbiamo. Alla felicità del cane corrisponde la nostra infelicità. Il contemporaneo proliferare dei cani – tutti hanno il cane, anzi i cani – soltanto secondo un’ottica superficiale sarebbe allora legato alle abitudini di una società che, immersa nello status borghese, si appropria di uno dei suoi simboli più riconoscibili e, percorsa dall’individualismo edonistico e nichilista, non fa figli ma si dota di un “oggetto” che sceglie, che è più facile da trattare ed è facilmente sostituibile. Tutto questo c’è, è indubbio. Come c’è, sul piano evolutivo, la strategia vincente di una specie che è arrivata ad avere un miliardo di esemplari. Ma nelle paludi del nostro inconscio cerchiamo nel cane quello che non riusciamo a trovare in noi stessi. Gli chiediamo di offrirci soluzioni. È sulla base di questa urgenza che il cane diventa filosofo. Ovvero si fa portatore – involontario – di un altro modo di stare al mondo da cui noi sapiens siamo scissi per via della nostra natura o dal quale, secondo un’altra prospettiva, dopo averlo in parte condiviso, tendiamo sempre più evidentemente a divergere, complici le pressioni della contemporaneità. Quel cane che ci vive a fianco ci indicherebbe quindi altri tracciati rispetto a quelli su cui noi umani ci muoviamo abitualmente.
Prima di addentarci nell’analisi dell’ultimo libro uscito sull’argomento, ovvero la Filosofia del cane dello scrittore e filosofo gallese Mark Rowlands (edito da Einaudi con la traduzione di Gianni Pannofino), è necessaria una ulteriore premessa. Di chi parlano i libri che ci descrivono come la vita del cane abbia uno stile tutto suo, che in parte diverge dal nostro, ma di cui potremmo appropriarci? Chi è insomma il cane? La risposta sta nello snodo della domesticazione. Coloro che attribuiscono al cane il ruolo di esempio utile per rivelare itinerari alternativi alla nostra esperienza, sono convinti che la domesticazione sia uno scambio tra due soggetti alla pari (e non la manipolazione di una specie compiuta da chi si vede superiore), cioè ritengono che le modifiche indotte dall’uomo nel comportamento del cane corrispondono a mutati atteggiamenti umani provocati dal cane; l’ipotesi arriva all’estremo – è la linea del post-umanesimo sostenuta da Roberto Marchesini e dai suoi allievi, tra cui Manuela Macelloni (rimando a quanto scritto in Il cane come guida esistenziale) – quando si sostiene l’idea di una “domesticazione di sapiens”: una modificazione radicale delle nostre abitudini determinata dalla convivenza con e dall’osservazione di un’altra specie. Chi ha questa convinzione pone nella relazione il nucleo fondativo del rapporto uomo-cane. Vivendo fianco a fianco, ci siamo arricchiti entrambi. Ma l’effetto non si è esaurito: i suggerimenti del cane potrebbero ancora essere utili. Non a caso questa posizione continua ad attribuire al cane caratteri propri che la domesticazione ha solo attenuato. Caratteri che noi umani – nonostante le distanze dei rispettivi Umwelt, le bolle sensoriali in cui come ha spiegato Jakob Von Uexküll siamo imprigionati – saremmo in grado di intuire e di proporre come esempi.
Non si può però trascurare quanto affermano le neuroscienze. Come ricorda Giorgio Vallortigara in A spasso con il cane Luna (appena pubblicato da Adelphi), la domesticazione è selezione di geni operata dall’uomo probabilmente a partire dai lupi grigi che presentavano un ritardo o un difetto ereditabile. I cani sarebbero discendenti da esemplari in cui il mancato o parziale trasferimento delle cellule staminali della cresta neurale ad altre parti del corpo durante la fase embrionale ne avrebbe attenuato l’aggressività e modificato la fisionomia, enfatizzando quei caratteri neotenici (gli aspetti infantili: occhi più grandi, orecchie pendule, pelo a chiazze, cranio più piccolo) capaci di attivare la nostra naturale predisposizione alla cura (caratteri epimeletici). La domesticazione, in altre parole, è una sindrome. Per cui se il cane è un filosofo, non si può dimenticare che siamo stati noi umani a crearlo così, lasciando ben poche tracce della sua natura originaria. Né va dimenticata la predisposizione che conduce i nostri cervelli ad attribuire gli stati mentali di animatezza e intenzionalità ad altri viventi e perfino a oggetti. Visto sotto questa luce, il cane-filosofo diventa un ideale vivente, una proiezione in carne e ossa di quello che vorremmo essere ma non siamo o siamo in parte.

Mark Rowlands, studioso di Camus e Sartre, appartiene a chi ritiene la domesticazione un processo aperto, di mutuo scambio, destinato a non avere una vera e propria conclusione. Il suo ragionamento si muove dal “puzzo di dubbio” che ammorba la vita di noi umani. E lì che si verifica la “grande divaricazione” tra i sapiens e gli altri animali, quella che, usando l’immagine biblica, corrisponde alla cacciata dall’Eden. Rowlands osserva il suo cane, il pastore tedesco Shadow. È un cane aggressivo – non può cancellare la sua antica funzione di guardiano del gregge – che è bene non perdere di vista. Appena può lo accompagna in passeggiata in prossimità di un canale, dove, lasciato finalmente libero, il cane lupo si dà alla sua attività preferita, la caccia alle iguane. Le prede alla sua vista scappano, ma a Shadow sembra non interessare. Ogni volta compie lo stesso gesto. Rowlands pensa al mito di Sisifo (perno della filosofia di Camus): come lui il cane ripete lo stesso gesto senza possibilità di variazione. Il problema è che, mentre Sisifo vive nel sofferente nonsenso, Shadow è felice. Come mai? Il cane lupo fa quello a cui lo chiama la sua natura: la caccia alle iguane è l’espressione della sua aggressività attiva, del suo istinto predatorio. La risposta è davanti agli occhi: si è felici “quando ciò che si è coincide con ciò che si fa”. I cani possono vivere momenti simili, mentre agli umani sembrano negati. Perché? La soglia che separa le specie si situa nel territorio della riflessione. È lì che comincia l’umanità con la sua convinzione che, secondo una tradizione risalente a Socrate, la “vita non esaminata” sia indegna di essere vissuta. Il problema è che, secondo Rowlands, “la riflessione ci distoglie dal mondo e ci mette di fronte a noi stessi”, ponendoci in una condizione unheimlich, perturbante, che ci trasforma in “creature senza dimora… mai davvero a casa nostra nel mondo”.
La riflessione è “una ferita incurabile che divide in due ognuno di noi e ci rende creature piene di disagi e di inquietudini”. Non è un caso che le più sublimi forme d’arte si realizzino proprio quando la riflessione è assente. Qual è la conclusione dunque? Che il cane – in cui la riflessione “si riduce a una minima traccia nella sabbia” – vive meglio di noi. Ma è davvero così? I cani non riflettono? Rowlands riconosce loro uno stadio di riflessione primordiale, la definisce preriflessione, abbinato alla capacità di auto-riconoscimento fisico – ma non attraverso il test dello specchio inventato da Gallup, piuttosto per mezzo di prove fondate sul senso primario della specie, l’olfatto. Quanto manca ai cani è invece la meta-cognizione, cioè l’essere coscienti della propria mente, che, a sua volta, si incorpora nell’assenza di una “teoria della mente”, nella consapevolezza che l’altro ha un pensiero che si può immaginare empaticamente. Senza questa possibilità di sdoppiarsi diventando gli spettatori della propria vita, senza il pirandelliano “vedersi vivere”, i cani però evitano le nostre derive: non sono “creature problematiche” che possono distruggere le proprie convinzioni e non sanno cosa sia “la morte di ogni impegno incondizionato”.
Quanto ci ha reso unici ci distrugge insomma (è la tesi sostenuta anche dal biologo americano Justin Gregg, si veda Se Nietzsche fosse un narvalo; vedi la recensione qui). Tutto per sapiens si trasforma in dilemma, tutto si destituisce di senso. Seguendo Sartre, Rowlands afferma che per gli uomini essere liberi significa avere la possibilità di non mettere in pratica qualsiasi “decisione, risoluzione o scelta”. La libertà – che si configura come interpretazione degli oggetti della coscienza – priva di fondamento qualsiasi nostra azione, costringendoci all’autoinganno e creando angoscia. All’opposto la “libertà canina è un sentirsi a casa, è manifestazione della solida base su cui i cani poggiano”, è rispondere alla propria natura. Il doppio binario sembra inizialmente presentarsi anche in ambito morale. Una convinzione che risale all’Etica Nicomachea di Aristotele ribadisce che, per essere “autenticamente morale”, un comportamento necessita della riflessione, di un esame critico delle motivazioni. Ma, nella prassi, facciamo davvero così? Rowlands ne dubita. Ad entrare in gioco è l’antropofabulazione, cioè la tendenza a dare “spiegazioni ipercomplicate sul modo in cui riusciamo a fare le cose e dobbiamo farle”. E quindi? La moralità – come nel Settecento aveva intuito Hume riferendosi ai sentiments – si fonda più sulle emozioni che sulla razionalità. E tra le emozioni spicca la simpatia, quella proiettiva (mettersi nei panni degli altri) e quella ricettiva (provare qualcosa per qualcuno). Proprio quest’ultima è l’emozione che i cani sono in grado di sperimentare insieme alla capacità di frenare il proprio istinto.

Rimane evidente un fatto: alla moralità fondata sullo “scrutinio critico”, che si appoggia sulle instabili fondamenta del dubbio, si oppone una moralità fondata sulla simpatia e sull’inibizione (cioè la capacità di conformare il proprio comportamento ai propri valori), ovvero su amore e disciplina. Se la prima è la moralità di una creatura priva di forti convinzioni, la seconda è adatta a chi invece ne ha di solide. Non è detto che gli esseri umani appartengano tutti alla prima categoria, certamente però i cani stanno tutti nel secondo gruppo. Dal cane filosofo, in questo caso, riceviamo un insegnamento che potrebbe essere messo in pratica. Essere empatici è anche alla nostra portata. Così come lo sarebbe, per i cani, la capacità di ragionamento. Messi alla prova, i cani hanno infatti dimostrato di saper cogliere i rapporti di causa-effetto e di poter compiere inferenze logiche. Solo che, se possono evitarli, ne fanno volentieri a meno. Perché? Vivendo assieme a noi, i cani si sono sbarazzati del pensare. Siamo noi umani a pensare per loro, diventando “parte della mente estesa dei cani”. Sull’intelletto dei cani, quindi, la domesticazione avrebbe avuto l’effetto che sulla mente umana hanno avuto l’uso di carta e penna. Come dire, il cane ha tenuto per sé la componente emotiva, affidandoci il fardello della fredda logica. Il risultato appare evidente. I cani amano la vita più di noi. E se è lecito pensare che possano essere felici è perché hanno “una sola vita”, mentre gli esseri umani ne hanno due, una vista dall’interno e una dall’esterno. Noi abbiamo un corpo-oggetto e un corpo-vissuto, o anche, una vita-oggetto e una vita- vissuta. Ed è la “tormentosa prospettiva” della vita-oggetto che ci impedisce di amarla come la ama un cane. Solo noi umani soffriamo di yips, di blocchi psicologici per eccesso di concentrazione. L’abuso di “autoriflessione… estirpa l’amore dalla nostra vita”. Invece i cani, afferma Rowlands, “non se ne sono mai andati dall’Eden”. Il senso della vita in definitiva dove si trova?
Là dove le attività che ci coinvolgono esprimono la natura del soggetto. Non sono le cose in sé a dare senso, ma la disposizione ad amarle. E mentre noi abbiamo bisogno di un duro lavoro per arrivare a tanto, e raramente proviamo una grande soddisfazione, il cane invece ci arriva senza sforzo. Per cui la sua vita ha più senso di quella umana. È la stessa conclusione a cui giunge il racconto dello scrittore svedese Håkan Nesser, La filosofia del cane Norton (edito da Guanda con la traduzione di Carmen Giorgetti Cima). Talvolta quello che la filosofia raggiunge attraverso percorsi sinuosi, la letteratura lo coglie in poche pagine. Il Rhodesian Ridgeback che in prima persona racconta la sua vita si chiama Norton Kierkegaard. Si definisce un filosofo, ma l’unica idea che dichiara è quella di essere pacifista. La sua filosofia sta nella sua vita. Ama passeggiare, giocare con gli altri cani che gli vanno a genio, dedicare lunghe ore al sonno, ma soprattutto stare con i suoi padroni (i tutori). E accettare la morte quando arriva, consapevole che “ogni cosa ha il suo tempo”. C’è una frase che ama ripetere e che serve a compendio di tutto quanto abbiamo detto: “A dog’s gotta do, what a dog’s gotta do” (“Un cane deve fare quello che un cane deve fare”). Non c’è altro per capire la filosofia del cane, il cui messaggio è semplice: aderire alla vita senza imprigionarsi in schemi e progetti. Se entrassimo davvero in sintonia con i nostri cani, se smettessimo di avere tante cattive abitudini nei loro confronti (il cane giocattolo, il cane figlio, il cane protesi dell’io) sarebbe questo l’obiettivo da raggiungere. Forse lo intuiamo, inconsciamente. E in qualche modo lo cerchiamo. O forse aveva ragione Giorgio Manganelli. I cani sono il sintomo delle nostre nevrosi.
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