Marthaler, un disordine ordinato
Lo chalet-bunker disegnato da Duri Bischoff per Il Vertice del regista svizzero Christoph Marthaler (coproduzione internazionale con Théâtre Vidy-Lausanne e MC93 – Maison de la culture de Seine-Saint-Denis, in prima mondiale presso il Teatro Strehler di Milano dal 6 all’11 maggio 2025) è uno spazio fisico e metaforico. Ha la compattezza e la multifunzionalità di un coltellino svizzero, sì, di quelli rossi con la croce bianca in dotazione all’esercito del paese d’oltralpe. È perfettamente autosufficiente. Chiuso su sé stesso è inoffensivo. Tuttavia, ogni volta che una delle sue feritoie (sportelli, montacarichi, lucernario) si apre, ecco che si crea una voragine di possibilità infauste e calamitose. All’interno tutto è a vista e tutto può sparire in una frazione di secondo: basta aprire un cassetto, una cassapanca, una ribaltina nella parete e voilà, ciò che non serve più viene risucchiato non si sa dove, in un imprecisato esterno di minor valore, un po’ come accade nei bagni dei treni e degli aerei o nello spazio interstellare degli astronauti.

Lo chalet-bunker ha tre pareti, un soffitto a capanna e potenti lampade al neon. Tutt’intorno, il buio. La quarta parete siamo noi, il pubblico, collocato in un dentro/fuori che implica molto più di quanto non escluda. Il perimetro, se così si può dire, è filosofico anziché spaziale. Lo spettatore, alla lettera colui/colei che guarda, è libero di osservare da fuori, con distacco, oppure di condividere quantomeno mentalmente la situazione apparecchiata da Marthaler e dal suo dramaturg Malte Ubenauf e agita dai sei formidabili performer totali (Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer, Graham F. Valentine) rinchiusi al ‘vertice’ di una montagna e, verosimilmente, di un Potere sempre più impotente e incomunicante. La scena li accoglie a poco a poco, estraendoli da un montacarichi che fa pensare a quei congegni da ristorante studiati per ridurre i tempi di movimento del personale di servizio. Il piatto va servito caldo e in fretta. Il tempo è denaro. Sul tempo bisogna risparmiare. E, a colpo d’occhio, si direbbe che i sei personaggi del per niente pirandelliano vertice propostoci da Marthaler siano lì riuniti per discutere le sorti del mondo.

A unirli (o separarli) è qualcosa che li trascende: non parlano la stessa lingua – anzi ne parlano ben quattro, ciascuno la propria e con accenti discretamente marcati – ma il loro primo, collettivo atto ufficiale è la lettura ad alta voce di un dossier su cui si intuisce debbano giungere a una qualche condivisa decisione. Poiché è evidente che le lingue, ma più probabilmente proprio il linguaggio verbale in sé, sono per Marthaler un ostacolo alla comunicazione, la lettura consiste in un primo, canoro atto di svelamento. Seguendo una partitura metronomica, i performer allacciano le loro voci in una polifonia che annuncia la vacuità delle parole. Ridotta a unità monosillabiche – no, non, oui, mais, yes, nein… – l’enunciazione non genera scambio, non intesse relazioni, ma produce incantate sonorità fini a sé stesse, vuote come frutti disseccati. Invece di produrre senso, il loro intreccio lo disfà. Non è così che opera il potere burocratico degli Stati e dei loro più o meno blindati, più o meno plurimi summit?
Chi avrà modo di vedere Il Vertice presti attenzione a un fenomeno solo all’apparenza strano: durante i primi ‘moduli’ dello spettacolo il pubblico ride molto, rumorosamente, come se fosse predisposto a farlo, come se dallo svizzero Marthaler si aspettasse le gag esilaranti che permettono di vedere quanto sono trasparenti i vestiti dell’imperatore. Poi, a poco a poco, sembra quietarsi, farsi più attento, come se nel quadro/specchio che ha davanti agli occhi ci fosse ben poco da ridere. Gli elvetici cliché con cui il regista sembra giocare affidandosi alla pirotecnica maestria dei suoi performer – l’escursionismo in alta quota, la sauna, lo sci, una certa sazietà – fanno spazio a un doppio discorso, quello dei corpi e delle loro non sempre innocue divergenze e quello della tessitura testuale. Adesso le parole e le frasi compiute si infittiscono, senza mai farsi dialogo e stentando a prendere la via del canto. Gli interrogativi si affollano e così le contraddizioni, il latente conflitto.
Mentre il ‘vertice’ è in corso d’opera, là fuori nel mondo è successo qualcosa di grave – catastrofe naturale? pandemia? – che impedirà ai convenuti di uscire dal loro rifugio per i prossimi ‘quindici/diciotto anni’. Un sequestro di persona che pare la copia conforme di vari eventi odierni, un piccolo conclave. Che cosa sia accaduto è e resta un mistero. Ciò che si sa è che la nuova realtà ha la superficie dello chalet-bunker, non un centimetro di più. Ed è lì che la parola esplode, come ne L’angelo sterminatore, un film di Luis Buñuel evidentemente molto caro a Marthaler. Uno spazio privo di uscite e di vie di fuga comporta una temporalità inedita: il tempo non si ferma, si svuota. E poiché, come afferma il regista, è lo spazio a creare il proprio racconto, a questo punto la narrazione si blocca, si addensa, si aggruma, si contorce, non avanza, non spiega. Se sulla pagina di un libro è lo spazio bianco tra le parole a renderle intellegibili e significanti, qui a compiere quella funzione sono la cesura e il taglio. Non il silenzio, bensì la spezzatura e il ritmo.

Marthaler, amante del pastiche, della tecnica del collage, nonché acuto osservatore delle idiosincrasie altrui, attinge scherzosamente a un intero paesaggio letterario e musicale. Oltre ai suoi testi e a quelli di Malte Ubenauf e degli interpreti, suoi collaboratori e co-cospiratori, compaiono estratti e citazioni di Elisa Biagini, Louise Bourgeois, Olivier Cadiot, Patrizia Cavalli, Álvaro de Campos, Bodo Hell, Norbert Hinterberger, Gert Jonke, Antonio Moresco, Aldo Nove, Pier Paolo Pasolini, Werner Schwab, William Shakespeare, Christophe Tarkos, Dylan Thomas, Giuseppe Ungaretti e Patrizia Valduga, nonché musiche ispirate ai Beatles, all’Abbé Bovet, ad Adriano Celentano, Wolfgang Amadeus Mozart, Franz Schubert, così come a melodie popolari svizzere e austriache.
Dopo due ore di godimento puro – perché forse solo così si possono mettere non retoricamente in scena l’angoscia e la paura contemporanee – Marthaler conclude il suo teorema dimostrandoci anche visivamente che il vertice può rivelarsi abisso e l’alto sprofondare nell’infimo.
Come non ricordare che nel 2015, quando fu insignito del Leone d’oro alla Biennale di Venezia, disse senza giri di parole che il suo lavoro di quell’anno, Das Weisse vom Ei / Une île flottante, liberamente ispirato alle commedie tardo ottocentesche di Eugène Marin Labiche, parlava dell’abisso in cui erano cadute la società francese ed elvetica, dello sprofondamento dell’umanità? Ma la caduta non è forse, da sempre, anche un portentoso dispositivo comico? Difficile trattenere la risata quando qualcuno inciampa sotto i nostri occhi. L’atto di porgergli una mano e di aiutarlo a risollevarsi viene subito dopo. Subito, ma dopo.
L’ultima fotografia, un ritratto del regista svizzero, è di Björn Jensen.
