Dress code 13. Il red carpet come codice

17 Maggio 2025

Calpestare un tappeto rosso non è solo un gesto elegante. È un’adesione a una liturgia visiva, un atto di obbedienza ben coreografato. Si marcia in fila, con disciplina, per ricevere gli onori riservati a una grandezza quasi divina, calpestando un tratto di suolo adornato di rosso e sorvegliato da dispositivi di controllo umani e non (leggi: transenne). È scritto, nero su bianco, al punto 3.4 della Charte du festivalier di Cannes, aggiornata il 14 maggio 2025, il giorno dopo l’inizio del Festival. Il red carpet, in ogni manifestazione, è quel tratto che si percorre per raggiungere uno “spazio utopico”, dove si raccoglieranno – o meno – i frutti di un’impresa cinematografica o di una carriera nell’entertainment. È il momento in cui l’esclusività si apre verso l’esterno, dove la visibilità raggiunge il suo picco, esaltata dagli obiettivi delle fotocamere pronte a immortalare chi sfila. Già, sfilare: è il verbo giusto, proprio come nel sistema moda. Perché, in fondo, quei pochi metri servono a fare il punto sulle tendenze, in un evento reale e non costruito ad arte da una maison.

È per questo che il traffico sul tappeto deve essere regolato: scorrevole, privo di intoppi, per evitare che il programma venga rallentato da sensazionalismi o teatrini dell’ultima ora. Si tira dritto fino alle scale, dove ci si concede un’ultima inquadratura, e guai a tornare indietro o a invertire il senso di marcia.

Da un lato, è vero: un tappeto rosso irrompe nella quiete di una città – o dello spazio antistante un teatro – per mettere in scena l’apice del successo mediatico, contrapposto a chi può solo assistere adorante, chiedere un selfie, e tentare di assorbire qualche goccia di celebrità per riflesso. Dall’altro, red carpet, passerelle, festival e rassegne esaltano la forza espressiva del cinema e del suo Olimpo. Marciare al contrario, dunque, è un gesto di rottura: significa sfidare le regole dello star system e della società, che sono, per l’appunto, normate da codici.

E così arriviamo al cuore della “Magna Carta” di Cannes: il Dress Code previsto per le proiezioni di gala al Grand Théâtre Lumière, in programma intorno alle 19:00 e alle 22:00.
Considerata l’occasione e l’orario, è naturale che si richieda una “tenuta da sera” – abito lungo o smoking – senza alcuna distinzione di genere (evviva!).

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Vale la pena notare che, tanto in francese quanto in inglese, si evita ogni riferimento esplicito all’abbigliamento maschile o femminile: nel primo caso si adotta l’impersonale, nel secondo una seconda persona singolare informale, quel you che riecheggia lo stile diretto, da manuale, di Hollywood.

Il Dress Code si articola in una lista precisa di opzioni accettate:

  • un little black dress (il classico tubino nero che da decenni fonde americanità e francesità grazie all’alleanza simbolica tra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy),
  • un abito da cocktail,un tailleur pantalone di colore scuro,
  • un top elegante con pantaloni neri,
  • scarpe o sandali eleganti, con o senza tacco,un completo nero o blu navy,
  • con papillon o cravatta scura.

I tacchi alti, rifiutati da attrici come Kristen Stewart – che nel 2018 si tolse le scarpe scalza, camminando a piedi nudi sul red carpet come gesto di protesta contro l’obbligo dei tacchi – non sono più un requisito formale: basta evitare flip flop o piedi nudi programmati. La questione “tacco” mette in scena due visioni opposte: da un lato, è il dover essere dell’eleganza, un segno di rispetto per l’evento; dall’altro, è il non poter fare, una tortura ortopedica che – come da tradizione patriarcale – impone lentezza, piccoli passi, e valorizza le parti del corpo oggetto dello sguardo maschile. D’altronde, oggi fa quasi sorridere associare i tacchi solo al femminile, se pensiamo che storicamente li portavano uomini bianchi, etero, cis, a tratti un filo tossici, tipo Silvio Berlusconi, per via del complesso d’altezza. Lo stesso vale per cravatte e papillon: fluidi come dovrebbe essere il traffico sul tappeto rosso di Cannes (penso a Monica Bellucci, Andie MacDowell, o a me con le cravatte di mio padre).

Restando in tema di viabilità da tappeto, anche gli indumenti – non solo i comportamenti – possono intralciare la marcia. Sono vietati gli abiti troppo voluminosi o con strascichi eccessivi: rallentano il ritmo della sfilata, monopolizzano lo spazio e, una volta in sala, ostacolano la visione, l’unica azione effettivamente necessaria allo svolgimento del Festival.

Persino la dimensione delle borse è codificata, sono ammesse solo clutch e pochette, mentre tote-bag e zaini sono banditi: appartengono al negotium, non all’otium divino. La miniaturizzazione della borsa è l’acme dell’ornamento: si addice a chi non deve fare lavori pesanti, ma fluttua nel mondo fatato dell’inazione performativa.

Stringere una pochette equivale a emanciparsi dalla schiavitù del quotidiano, del dover essere operativa: si delega il peso della vita al guardaroba (aperto fino alle 00:30 presso la Gare Maritime) o a una guardia del corpo autorizzata, come specificato nella Charte.

Piccolo è elegante, decoroso — ma attenzione a ciò che resta scoperto: a Cannes, la nudità è indecente. Il nude look promette una liberazione del proibito, una trasgressione socialmente tollerata, che il Festival – dopo anni di trasparenze e provocazioni estetiche – ha deciso di arginare nel 2025, in sintonia con un clima globale sempre più attratto da forme patinate di conservatorismo.

Eppure, anche la nudità può essere stilizzata, scolpita, irrigidita. Come ha dimostrato la maestra della trasparenza Bella Hadid, che, nel 2021, si è presentata a Cannes con un abito Schiaparelli in crêpe nero, il seno lasciato nudo e coperto solo da una collana dorata a forma di albero bronchiale, firmata Daniel Roseberry. Un'immagine potente: il corpo esposto eppure blindato, vulnerabile ma decorosamente articolato in un’architettura simbolica. Non un gesto liberatorio, ma una sofisticata negoziazione tra visibilità e censura.

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Negli anni Settanta, le narrazioni sul seno avevano già perso la carica scandalosa del passato. In medicina e antropologia si faceva strada l’idea che la trasparenza potesse neutralizzare l’aura seduttiva del petto femminile, come nelle culture in cui il seno nudo è la norma e non l’eccezione. Il problema sta nell’immaginazione: l’assenza di lingerie, pensare un corpo “nudo vestito”, guardare una pelle non contenuta, ma lasciata parlare da sola genera tanto rumore, troppo. Non è la nudità a essere indecente, ma lo sguardo che pretende di possederla.

All’estremo opposto del nude look, il red carpet si lega all’indumento più castigatore della lingerie contemporanea: la guaina modellante. Una corazza invisibile che doma le forme, comprime, ridefinisce. Serve per “apparire al meglio”, soprattutto in fotografia. Ma in quell’“al meglio” c’è un corpo che smette di muoversi liberamente e si sacrifica alla macchina da presa.

Ed eccoci ad altre raccomandazioni del vademecum, incentrate su una priorità logistica e simbolica: “garantire la fluidità della salita”. Tradotto: niente fotografie personali, no ai selfie sul tappeto rosso. Il pensiero corre subito agli stunt pubblicitari – spesso costruiti su nudità, provocazioni, gesti eclatanti – che sono diventati la ragion d’essere di personaggi senza particolare talento, se non quello di avere un’ottima agenzia PR. Zompettano sul red carpet con l’arroganza di chi confonde la visibilità con il valore, occupando uno spazio che, come ricorda l’Agamennone di Eschilo, dovrebbe spettare solo a chi ha sfiorato l’immortalità. Nel nostro caso: le stelle del cinema. Non creator in cerca di firma autoriale.

Le immagini del red carpet producono illusioni di realtà, identificazione, emozione. A volte sono documenti, quando registrano un momento. Altre volte sono simboli, quando interpretano le tendenze, mitizzano un personaggio, riscrivono il senso di un capo d’abbigliamento, o instaurano dialoghi visivi con il film proiettato.

Dalla metà degli anni Novanta, il tappeto rosso è diventato un set permanente per il product placement dell’alta moda. Ma anche un dispositivo retorico: giudizi, voti, critiche, ammirazione, una coreografia del gusto che distrae, occulta, disinnesca. Mentre si guarda l’abito, si evita il dibattito.

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Per questo, Halle Berry è apparsa visibilmente in difficoltà: sapeva di dover “sfilare” con un dress code modificato, dopo aver fatto il fitting per un abito di Gaurav Gupta, poi giudicato troppo voluminoso. Alla fine, ha optato per un Jacquemus a righe verticali bianche e nere, a mio avviso più da settore autorità dello Juventus Stadium che da Grand Théâtre Lumière.

Gli abiti si preparano con mesi d’anticipo, costruiti per incarnare un’identità coerente con il codice. Perché il corpo celebre non si limita a indossare: assorbe, diventa, performa; non mostra l’abito, lo enuncia.

Si legge con gli occhi, si scrive con il corpo: il red carpet è un testo estetico, una passerella coreografata dalla moda, ma governata da una grammatica del potere in alta definizione.

Nessun passo è neutro, nessun abito è solo abito.

E nessun corpo è mai davvero libero, finché è in scena.

In copertina, fotografia di Christophe Bouillon.

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