Recalcati: le istituzioni sul lettino
“Il presupposto teorico che orienta la mia riflessione sulle istituzioni è che l’istituzione debba essere considerata come un soggetto collettivo”. Così Massimo Recalcati sintetizza (a Federico Leoni che lo interroga in appendice al volume) l’idea guida del suo ultimo lavoro teorico Il vuoto e il fuoco. Per una clinica psicoanalitica delle organizzazioni (Feltrinelli, Milano 2024, pp. 206). Se l’istituzione è un soggetto, l’istituzione ha un inconscio, ha dei sintomi nevrotici, dei fantasmi ossessivi, può ammalarsi e può anche precipitare nella follia, ma ha anche un orizzonte di cura. Dunque è non solo possibile ma doveroso farla sdraiare sul lettino dello psicoanalista e prestare orecchio ai suoi sogni, alle sue libere associazioni e ai suoi lapsus. l’inconscio delle istituzioni si mette a parlare quando la crisi le attanaglia. Finché funzionano la loro natura di soggetto collettivo resta confinata al solo ambito giuridico, sono “persone” nel senso della fictio legis, ma se la critica le investe, se, ad esempio, la fiducia nella loro legittimità viene incrinata, allora diventano effettivamente “persone” in un senso quasi animistico. Non più meri apparati governati da una logica impersonale, ma soggetti fragili e sofferenti costretti dalla crisi a guardarsi in uno specchio nel quale faticano a riconoscersi. La domanda “chi sono?” le concerne alla prima persona con la stessa urgenza con cui assilla il soggetto individuale alla ricerca di una salute mentale compromessa.
La crisi ha investito le istituzioni negli anni 60 e 70 del secolo scorso: Don Milani sulla scuola, Ivan Illich sull’ospedale e sulla scuola, Foucault su tutti i sistemi panottici di controllo, dalla prigione al manicomio, Basaglia sull’istituzione psichiatrica, l’operaismo sulla fabbrica, il femminismo e il movimento gay sull’ordine patriarcale e la famiglia ecc. Ad accomunare tutte queste posizioni teoriche, tra loro diversissime e tutte finemente articolate, era un sospetto che aleggiava nell’aria del tempo, il cui “fondo” era rosso come recita il titolo del bellissimo documentario di Chris Marker (Le fond de l’air est rouge, 1977), il cui sottotitolo esplicativo era “Scene della Terza Guerra Mondiale, 1967-1977”. Il sospetto dava all’epoca il suo specifico sapore: l’istituzione era criticata perché intrinsecamente ”repressiva”. L’istituzione era insomma interpretata come ciò che in quegli stessi anni Jacques Lacan, costretto a confrontarsi, anche per ragioni famigliari, con la contestazione montante nella società francese, aveva chiamato il “discorso del padrone”. Di esso, con una unilateralità dogmatica, si evidenziavano però solo le conseguenze mortifere per il desiderio. La liberazione della “vita”, del “desiderio”, della “soggettività”, dalle pastoie del sistema era infatti il fronte in cui si combatteva quella guerra. La psicoanalisi freudiana era chiamata in causa dai militanti rivoluzionari perché aveva colto il nesso inscindibile che lega la “civiltà”, cioè il mondo delle istituzioni, alla repressione della pulsione. Se però per Freud, uomo di altri tempi, questa era una necessità strutturale – niente società senza repressione – per “compagni di strada” come Wilhelm Reich o Herbert Marcuse era invece la prova dell’alleanza stipulata tra ordine capitalistico e ordine istituzionale (Eros e civiltà, 1966). Bisognava abbatterle per liberare la vita, a costo anche di rischiare di precipitare nell’abisso, altrettanto mortifero, dell’informe.
Ma per una singolare eterogenesi dei fini la crisi delle istituzioni tocca il suo apice quando quella guerra finisce con la sconfitta del movimento operaio e studentesco e il fondo dell’aria comincia a colorarsi di nero. Non sono state infatti le istituzioni a prevalere sulla loro critica sistematica, come si sarebbe indotti a credere. Non c’è stata infatti nessuna “restaurazione” dell’ordine simbolico dopo la crisi degli anni 60 e 70. Il neoliberismo trionfante è effettivamente quello che il suo nome dice: è una nuova e questa volta definitiva affermazione della libertà del soggetto (bisognerà tuttavia chiarire di quale soggetto), una liberazione del singolo dai vincoli dell’hegeliano “Spirito oggettivo” (è il nome che Hegel dà al mondo delle istituzioni). Con una battuta buona per i filosofi: è Kierkegaard che trionfa su Hegel, Stirner che si prende la rivincita su Marx, il singolo invece dell’universale, l’anarca invece del citoyen borghese e dell’“uomo nuovo” del socialismo. Con una battuta buona invece per gli psicoanalisti lacaniani, è il “discorso dell’isterica” che diventa senso comune.
David Golumbia, studioso del fenomeno tecnodestre, nel libro licenziato dopo la sua prematura scomparsa (Cyberlibertarianism. The Right-Wing Politics of Digital Technology, 2024), ha indagato con spirito da giornalista di inchiesta le radici del discorso di quei predicatori del nuovo ordine tecnocratico che oggi affiancano impettiti il loro messia Trump. Li chiama tech evangelists o tech libertarians. Ne ha sconfessato la pretesa origine di sinistra, vale a dire quella immagine della Silicon Valley abitata da giovani hippies che sognano di abbattere ogni ordine gerarchico attraverso la realizzazione dell’open source e la generalizzazione, via rete, del free speech. Il loro era uno pseudo-anarchismo perché fin dall’inizio non si coniugava con la richiesta della giustizia sociale ma con la legge della giungla, "fra le leggi di questo mondo senz'altro la più antica", come scrive Kipling, "il codice pressoché perfetto che ha provveduto a quasi ogni evenienza che possa presentarsi al Popolo della Giungla".
Recalcati, già ai tempi dell’Uomo senza inconscio. Nuove figure della clinica psicoanalitica (2010), aveva fornito di questo libertarianism una interpretazione assai più raffinata e, in un certo senso, meno rassicurante. Dopotutto è rassicurante sapere che i libertarians non sono affatto libertari ma sono solo i vecchi fascisti travestiti da hippies… Stando alle sue analisi, le radici anarchiche del fenomeno non sono affatto un mero vezzo retorico. C’è veramente qualcosa di “stirneriano” (aggettivo che uso io e che non è utilizzato da Recalcati) in quel soggetto generato dall’ “evaporazione del Padre” e rimesso a una libertà di godere che rasenta l’assurdo (Recalcati, ricordiamolo, in quel libro affrontava la clinica psicoanalitica dei nuovi sintomi: anoressia, bulimia, dipendenze ecc.). Sottratto alla tutela del Simbolico (la Legge del Padre), quello che resta come protagonista della nuova scena mondiale è un Ego la cui sola proprietà consiste nella potenza sempre presupposta di poter deporre ogni proprietà. Stirner, nel 1844, ne ha schizzato il profetico ritratto. “Proprietà” per il filosofo Stirner significa “categoria”, vale a dire quanto è imputabile a un ente qualsiasi come suo predicato. L’imputazione categoriale suppone una pubblica piazza, una agorà dialettica sulla quale una comunità si raccoglie per definire, mediante una libera e razionale discussione, il reale, ad esempio “chi” sono “io” in quanto cittadino ateniese, cosa “devo” fare per corrispondere alla mia essenza, ecc. La categoria è il frutto del legame sociale.

Der Einzige è allora chi rifiuta sistematicamente ogni classificazione, avvertendola come violenta e mistificante la sua vera natura, proprio come l’anoressica rifiuta il cibo che l’Altro le offre: scioglimento del legame sociale. Ciò che resta all’Unico come suo proprio più proprio, come suo atto esclusivo e come principio della sua soggettivazione, è solo il nulla, la negazione infinita di ogni definizione, una sorta di “I would prefer not to” rivolto ad ogni istituzione che lo voglia recludere e includere. “Io ho impiantato la mia causa sul nulla”, concluderà infatti Stirner. Ecco allora il “soggetto” che il cyberlibertarianism, in perfetta buona fede e con somma coerenza logica, vuole liberare dalle catene repressive dell’istituzione. Non è nient’altro che il principio di un libero volere che rasenta il capriccio e che costeggia il crimine – “Chi sei tu?”, chiede ad un certo punto Stirner rivolgendosi al suo Einzige e risponde “Tu sei un delinquente!”. Non è, forse, questo, un ritratto fedele del nuovo leader del mondo libero? Non c’è allora da stupirsi se la realizzazione di questo libero volere impegnerà il singolo in una lotta mortale con quanto rappresenta per lui l’ostacolo più grande: la verità scientifica con la sua pretesa di oggettività e di necessità. Non c’è dunque da stupirsi se le tecnodestre saranno negazioniste sul clima, revisioniste sul piano storico, se avverseranno i vaccini e se, una volta giunte al potere, demoliranno il sistema universitario. Non c’è infine da stupirsi se la Verità, da criterio regolativo del dibattito razionale, diventerà nelle loro mani un’arma da usare nella guerra della comunicazione. In ossequio al primato della libertà, la verità, diceva ancora Stirner e, con lui, lo ripetono tutti i libertarians, deve diventare una “creatura” della volontà tirannica del singolo (le fake news).
Massimo Recalcati nutre per le istituzioni lo stesso “commovente” amore che il poeta Pasolini aveva per le organizzazioni dei lavoratori ideate dal Partito Comunista e assiste con sgomento alla sistematica denigrazione di cui sono vittime ad opera delle varie ondate populiste. Recalcati, del resto, è stato ed è un instancabile fondatore di soggetti collettivi, da Jonas, centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, fino all’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Per questo, come psicoanalista, si sente in dovere di proporre la sua ricetta per preservarle dal rischio della sclerotizzazione. Lo fa, naturalmente, ispirandosi all’insegnamento di Lacan (alla teoria dei quattro discorsi che Lacan espone nella prima parte del Seminario XVII) e dialogando con il “pensiero istituente” di Roberto Esposito, a cui, non a caso, è dedicato il libro. La domanda intorno alla quale ruota tutta la sua proposta di una clinica psicoanalitica delle organizzazioni è: come tenere insieme il fatto della istituzione, la sua impersonalità, i suoi ingranaggi, i suoi automatismi, con il suo atto istituente, vale a dire il “fuoco”, con l’intensità del desiderio che l’attraversa, che la anima e che la costituisce all’origine? Per Recalcati, discepolo in questo di Hegel, le istituzioni umanizzano la vita dandole quella forma senza la quale l’esistenza precipiterebbe nell’indeterminato. Sono neg-entropiche. Per guarirle occorre perciò impedire che quel movimento generativo si arresti, militarizzandosi (Esercito e Chiesa), fissandosi in uno dei “discorsi” a scapito degli altri. L’acqua che ristagna imputridisce, ma il movimento, che sempre la rinnova, ha bisogno di un alveo, di un letto dove scorrere, quindi di limiti e di Legge. In una istituzione “sana” il Codice del Padre soccorre il desiderio invece di reprimerlo.
Ma il Padre qui chiamato in causa non ha nulla a che fare con il Padre contestato dai militanti e dalle militanti rivoluzionarie degli anni 60 e 70. Recalcati non è un restauratore della Legge, anche se tale è sembrato ad alcuni. Per mostrarne la funzione in una sana istituzione, prende a prestito dallo strutturalismo lacaniano e dal Tao Te Ching la celebre immagine del “vuoto centrale”. Ogni articolazione lo presuppone. Ogni struttura prevede una casella vuota. Senza “il mozzo vuoto della ruota”, senza “il punto perno”, infatti, nessuno scorrimento della ruota. Senza la casella vuota non ci sarebbero margini di gioco per le pedine. Perché il fuoco non si spenga e perché l’istituzione continui ad alimentare il desiderio umano, bisogna quindi che il vuoto centrale non sia mai riempito, non sia mai otturato da una identificazione immaginaria. Bisogna insomma che il Codice del Padre preveda la possibilità della sua regolata sospensione, un po’ come accade nelle culture tradizionali dove la permanenza e il rinnovamento dell’ordine istituito passa attraverso la sua momentanea e regolata sospensione festiva (tale mi pare il ruolo giocato nella clinica delle istituzioni di Recalcati dal Codice materno e dal discorso dell’analista).
Esposito per rendere ragione di questa dialettica vitale tra l’atto istituente e il fatto istituito deve far rientrare in gioco la potenza della negazione, quella potenza-di-non che l’anarca stirneriano aveva portato alle sue estreme conseguenze. In questo modo alla categoria di soggetto subentrerebbe quella di “soggettivazione, coincidente con il movimento, sempre collettivo, dell’istituire”. Con un gioco di prestigio dialettico, la negazione dell’anarca diventa così, in Esposito, il motore dell’affermazione, cioè del buon funzionamento dell’istituzione che da quella negazione immanente viene riportata alla sua origine, all’atto istituente e, in tal modo, viene confermata mel suo valore pedagogico e umanizzante. Recalcati per dare consistenza a quel vuoto istituente, ai quattro discorsi di Lacan ne aggiunge un quinto: il “discorso della testimonianza”. La testimonianza è la caratteristica della buona leadership perché non trae godimento dal potere che esercita, non si lascia sedurre dal fantasma della padronanza, ma si espone all’altro, si scioglie nella relazione, svuotandosi della sua identità e generando una tradizione vivente, cioè una reale ripetizione dell’atto istituente (come in un amore che si rinnova nella durata istituzionale di un matrimonio). La negazione, insomma, tanto nella ipotesi di Recalcati quanto in quella di Esposito, viene ricalcolata come momento immanente e generativo della istituzione. Un po’ come accade per quella grande “istituzione” che è il creato tutto nel pensiero teologico di Simone Weil. Dio è per lei un buon leader perché testimonia la propria generosità attraverso un atto decreativo, svuotandosi della sua onnipotenza e morendo miseramente in croce come l’ultimo dei peccatori.
Ma con questa operazione teologico-dialettica, dall’indiscutibile sapore hegeliano, abbiamo veramente salvato le istituzioni umane e umanizzanti dalla dirompente critica dell’anarca stirneriano? Ad assicurare al discorso neoliberale la sua straordinaria potenza era la sua ferrea coerenza logica: data la finitezza della condizione umana, dato lo stato di eccezione dell’uomo rispetto alla natura, data la sua trascendenza, data la contingenza come suo orizzonte ontologico e la libertà come suo orizzonte pratico, a costituire l’essenza dell’uomo non potrà che essere la negazione, il potere di dire no, un no illimitato che, proprio come l’“I would prefer not to” di Bartleby, non ha bisogno di determinarsi, essendo rivolto a tutto, che può, anzi, che deve collidere con tutto, perfino con la scienza e con il “così fu” del passato. Non si può non notare che tutte quelle premesse metafisiche sono condivise anche da Recalcati, da Esposito come dalla riflessione sulla “comunità inoperosa” di Jean-Luc Nancy, alla quale entrambi si riferiscono come ad un modello positivo di resistenza al neoliberalismo (lo stesso vale per l’etica levinassiana della responsabilità, anch’essa presente in filigrana in queste pagine). Il che ci porta a chiederci e a chiedere agli amici se non sia invece attraverso una loro problematizzazione radicale, se non addirittura congedandole come superstizioni, che si può realmente corrispondere all’invito formulato da Recalcati clinico delle istituzioni, ovvero far respirare bene una organizzazione, incentivarne la generatività, liberarla dal suo fantasma identitario.
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