Leone XIV in sette punti
Che fosse lui lo aveva previsto solo un programma di intelligenza artificiale; che avrebbe scelto il nome di Leone XIV, invece, lo aveva vaticinato una lettera di poche righe apparsa nei giorni scorsi sul «Foglio». Per il resto, l’elezione del cardinale Robert Francis Prevost a 267mo Papa della Chiesa cattolica ha colto di sorpresa quasi tutti, compresi i commentatori che si ritenevano talmente bene informati da commentare anche quello che ancora non era accaduto. Per evitare di cadere nello stesso errore, cerchiamo di concentrarci su quello che sappiamo, riducendo al minimo le congetture relative agli sviluppi di un pontificato che si annuncia comunque complesso e che, di conseguenza, potrebbe rivelarsi non meno sorprendere del Conclave appena concluso.
1. Dagli Stati Uniti (che non sono l’America). Leone XIV è il primo Papa statunitense, non il primo Papa americano. A stabilire il primato – se tale vogliamo considerarlo – è stato il suo predecessore, l’argentino Jorge Mario Bergoglio. Nato a Chicago nel 1955, Prevost è un agostiniano che è stato a lungo missionario in Perù, fino a diventare vescovo della piccola diocesi di Chiclayo. Non per niente, nel saluto che l’8 maggio ha fatto seguito all’annuncio dell’Habemus Papam, Leone XIV ha parlato come di consuetudine in italiano, ma con un breve inserto in spagnolo. È passato all’inglese solo il giorno successivo, nell’introduzione dell’omelia pronunciata durante la Messa pro Ecclesia. Il messaggio è chiaro: come l’universalità del Papa deriva dal suo essere vescovo di Roma, così l’appartenenza a una nazione non esclude e anzi favorisce il dialogo con le altre. Per la cronaca, Prevost è anche cittadino peruviano.
2. La stanza delle lacrime. Nel suo primo incontro con i fedeli, Leone XIV si è commosso e non ha fatto nulla per nasconderlo. Anche a discorso iniziato, quando sul suo volto non erano più visibili le lacrime, era evidente il tentativo di tenere a bada un’emozione impetuosa, che qualcuno ha voluto interpretare come indizio di debolezza. Si tratta, al contrario, di un segno di profonda umanità che potrà essere molto apprezzato dalle generazioni più giovani, tendenzialmente più sincere nell’ammettere l’importanza dei moti interiori. Del resto, il rituale dell’elezione papale comprende la sosta nella cosiddetta “Stanza delle lacrime”, luogo finora inteso in senso prevalentemente simbolico, al quale Leone XIV ha attribuito un’improvvisa e liberatoria concretezza.
3. Al seguito di Francesco. Leone come il Papa della Rerum Novarum, l’enciclica che nel 1891 inaugurò la moderna dottrina sociale della Chiesa, ma anche come il Papa la cui autorità fu sufficiente a fermare nel 452 l’avanzata di Attila e dei suoi unni. Fin qui, la scelta del nome ha ragioni evidenti. Sulla prima, in particolare, il pontefice ha già avuto modo di soffermarsi, per ribadire l’urgenza di ristabilire la giustizia sociale. C’è però un terzo Leone che, come è stato osservato, va tenuto nella dovuta considerazione. È uno dei compagni di Francesco d’Assisi, il suo confessore e segretario. A lui, affettuosamente chiamato «pecorella di Dio», il Poverello espone nei Fioretti la parabola della perfetta letizia. Anche nel caso di Prevost, dunque, il nome del Papa assume valore programmatico: la continuità con Bergoglio, la sollecitudine per le questioni sociali, la volontà di interrompere il conflitto.
4. Shantih, shantih, shantih. La terra desolata di T.S. Eliot si conclude così, con la triplice invocazione della pace secondo l’Upanishad. Giustamente considerato come il manifesto dell’inquietudine novecentesca, il poemetto del 1921 è una tra le opere maggiori di un altro statunitense trasmigrato in Europa. La suggestione, labile finché si vuole, serve a valorizzare ulteriormente la centralità che il tema della pace ha già assunto nel magistero di Leone XIV. Non solo è stata la sua prima parola, nella puntuale citazione del saluto che il Risorto rivolge ai discepoli, ma è stata poi ripetuta per dieci volte nell’arco di quei pochi minuti. Come nel caso della Terra desolata, la ridondanza è intenzionale e lascia presagire la portata della mediazione che la Santa Sede intende svolgere nei conflitti in atto, a partire da quelli in Ucraina e Palestina.

5. Se è armato, non è un profeta. Della continuità tra Francesco e Leone XIV è garante un aggettivo che è in effetti un participio passato: disarmato. Si riferisce a chi non porta un’arma perché non ne ha mai portate, ma anche a chi armi non ne porta più perché è stato indotto a lasciarle cadere. Prevost, infatti, lo ha inizialmente usato in coppia con il participio presente disarmante, a indicare la possibilità di un’azione positiva, destinata appunto a conseguire la pace. Ancora una volta, gli zelatori della Realpolitik saranno pronti a storcere il naso, magari richiamando il celebre passaggio del Principe nel quale Machiavelli sostiene che nella storia «tutt’i profeti armati vinsono, e i disarmati ruinorono». Il punto però è un altro, e Leone XIV lo ha ricordato con fermezza: un profeta è sempre disarmato. Se è armato, semplicemente non è un profeta.
6. Una Curia da riformare. All’occupazione degli spazi Papa Francesco preferiva, com’è noto, l’avvio dei processi, e dei processi ancora in corso fa parte anche la riforma della Curia romana. Snodo delicatissimo, che Leone XIV conosce bene per aver ricoperto, fino a pochi giorni fa, la carica di prefetto del Dicastero per i vescovi. Incarico relativamente recente (la nomina risale agli inizi del 2023), ma nel quale il cardinale Prevost ha dimostrato competenza, accortezza e intuito. La posta in gioco non sta tanto nella riorganizzazione di una struttura che si dimostri più efficiente secondo una logica aziendale, ma nella riconfigurazione di un organismo chiamato a recepire lo spirito sinodale tenacemente perseguito da Francesco e immediatamente fatto proprio dal suo successore. La riforma della Curia, in questo senso, è una componente essenziale per la riforma di una Chiesa che del resto, come insegna la tradizione, è per sua natura semper reformanda.
7. Lo Spirito nella macchina. La riflessione sull’Intelligenza Artificiale è un’altra delle impegnative eredità lasciate da Francesco, che sul tema era autorevolmente intervenuto durante il G7 del giugno 2024. Finora Leone XIV si è limitato a un paio di accenni, ma c’è da aspettarsi che su questo fronte il suo pontificato possa essere particolarmente incisivo. Fra i tanti titoli di studio del Pontefice figura anche una laurea in matematica, che lo abilita a esprimere un parere informato. Se parliamo di ghost in the machine, insomma, il Papa ha argomenti da spendere sull’assetto della macchina, oltre che sull’eventuale presenza di uno “spirito” che nel caso specifico meriterebbe di essere scritto con la maiuscola.
Per il momento, fermiamoci qui. Sono sette punti: sette come le opere di misericordia (da moltiplicare per due, essendo sia corporali sia spirituali), sette come la somma delle virtù teologali e cardinali, sette come i doni dispensati dallo Spirito Santo. Per un Papa che comprende il linguaggio dei numeri, è un buon numero da cui cominciare.
