Teatro Valle: il bacio di Giuda?

30 Luglio 2014

Proviamo a vedere la questione del Teatro Valle da lontano. Da una città del Nord. O forse, meglio, da Marte. Una sala storica, che faticosamente si affranca dal teatro di tradizione e cerca nuove strade di sperimentazione, improvvisamente si vede privata di proprietà e di direzione.

 

Gli umani usano strane sigle seppellite dalla polvere dei secoli per narrare questi fatti: Eti, Comune (chi si ricorda più chi, quando: balugina solo un vago nome famoso per aver rinverdito i fasti del basso impero: Almanno, o qualcosa del genere). Insomma un bel giorno un gruppo di attori, lavoratori dello spettacolo, gente che qualcuno definisce precari senza arte né parte, dimenticando come si tratti di loro creature, forgiate da una cultura che esaltava la terziarizzazione, i lavori creativi, che ha fondato una decina e più di Dams sparsi per l’Italia, che ha moltiplicato scuole e scuolette di teatro: questo gruppo occupa il teatro che voci incontrollate dichiaravano destinato a essere abbandonato o trasformato in qualcosa di indicibile.

 


La faccio breve: molti dubbi all’inizio. La casta dei teatranti sembra insorgere: lo spazio sottratto alla programmazione (di chi, se nessuno lo vuole?), l’occupazione fornisce un alibi al potere pubblico per lavarsene le mani, e comunque è illegale… Intanto gli occupanti iniziano a riempire il luogo di iniziative, non solo teatrali (e comunque si tratta di un teatro aperto al presente, ai laboratori, alla sperimentazione, alle altre arti e alla società). Immaginano una gestione partecipata. Dimostrano che un sito così, anche all’antica, può diventare un eccezionale centro di propulsione culturale contemporaneo. Si inventano perfino una fondazione, avallata da giuristi insigni e rigettata da prefetti miopi, decretando quel luogo, e le attività che vi si possono svolgere, bene comune, di tutti. Attraversano molte contraddizioni, ma sempre di più convincono anche tanti che erano diffidenti all’inizio. Con le opere. E ottengono riconoscimenti internazionali.

Il quadro politico, come spesso avviene, cambia (perché un lavoro lento come quello della cultura deve sottoporsi agli ondeggiamenti della politica, di un consenso maggioritario determinato da una pubblica opinione sempre più manipolata? Questa è una delle contraddizioni che viviamo). Lentamente, molto lentamente, la nuova giunta, che mostra vari sintomi di insipienza, dopo aver ignorato la questione, dopo aver tenuto in frigorifero oltre ogni liceità il problema delle nomine per il governo del teatro principale della città (chiamiamolo Teatro di Roma, per capirci), e averlo infine risolto chiamando stimati professionisti pronti al dialogo, dopo una guerra tra sindaco e assessore alla cultura arriva, dopo tempo, a un nuovo assessore, che è una navigata personalità che ha diretto sia l’ormai fantasmatico Eti che lo stesso teatro di Roma, in altri anni.

 


In tutto questo l’attività della Fondazione Teatro Valle Bene Comune va avanti. La nuova giunta va finalmente a un incontro molto aperto con la Fondazione, ne riconosce il valore, vuole aprire un dialogo che porti a un processo condiviso “che ne salvaguardi i migliori risultati e le esperienze realizzate nella logica di un teatro partecipato anche dalle associazioni e dagli artisti attivi nella città di Roma”. E le dà lo sfratto: intima alla Fondazione di lasciare il teatro entro il 31 luglio, per riconsegnarlo alla Sovrindenteza per non meglio precisati “lavori”. In cambio un ipotetico altro spazio. (Christian Raimo su “Minimaetmoralia” insinua perché sente sul collo il fiato della Corte dei Conti, perché i soldi non ci sono e nessuno vuole spendere in cultura.)
Ultimatum. Rastrellamento. Sgombero con la polizia? Chi resiste sarà messo al muro?


Un antico scrittore italiano avrebbe intitolato questa commedia Il giuoco delle parti, proprio così, ci sta bene quella arcaica u: gi-u-oco. Si finge di avvicinarsi per rimanere lontani; si è qualcosa e qualcos’altro; la verità nasconde la finzione e viceversa.


Andare, sgommare. Ma no: sembra aperta una strada al dialogo, non c’è niente di ultimativo, ribadisce nell’assemblea pubblica in teatro del 29 pomeriggio (si può seguire sulla pagina facebook del Valle) una delle parti di qua dal tavolo, il presidente del Teatro di Roma, Marino Sinibaldi, illuminato come tutte le altre voci di questa commedia leggera senza veri scellerati, giocata con la rassegnazione di interpretare un copione che sembra già scritto fuori dalle stanze delle necessità culturali. Dovete mettere a disposizione la sala, e poi trattiamo, fa un’altra voce, quella di Giovanna Marinelli, neoassessore, già direttore Eti e Teatro di Roma, non si sa come, sicura di (non) essere ascoltata (il comunicato del teatro di Roma e quello del Teatro Valle, integrali, si leggono in vari siti, come sempre tempestivi a dare le notizie, per esempio sul blog “Post teatro” di Anna Bandettini e sul nuovissimo blog di Rete Critica, che pubblica anche un dossier storico sulla questione).


Voglia di dialogo e chiusura. Stima e cazzotti, minaccia di sgombero. Ennio Flaiano scrisse un bel racconto, che divenne una commedia: Un marziano a Roma. Narrava dell’ammirazione, la venerazione per un extraterrestre piombato nella capitale, visto all’inizio come un segno, un messia, e poi il disinteresse, lo spregio, le parolacce, la marginalizzazione sempre più pesante. Il bacio di Giuda.

 


Vi somiglia molto questa volontà di dialogo delle istituzioni che impone un frettoloso sgombero. Non si tratta qui di difendere “l’illegalità” (quanti di questi termini intimorenti, criminalizzanti, senza effettiva sostanza sono stati propinati nel ventennio berlusconiano e nelle sue recenti propaggini). Si tratta di non distruggere un modo di fare cultura che tesse legami sociali, che mette in moto forze che vanno aldilà di quelle pur importanti degli attori, dei tecnici, dei teatranti; che porta il teatro nei gangli della società contemporanea, lo “sporca”, lo apre, lo mette alla prova, lo reinventa. Teatro bene comune. Perseguire il bene comune attraverso il teatro, la cultura, l’arte.

Quante sale soffrono in Italia, quanti cinema, come il romano Metropolitan, corrono il rischio di diventare parcheggi, megastore, bingo o, peggio, punti Eataly (Carmelo Bene diceva: voglio sposare la figlia del farmacista del paese; almeno quella lasciatecela, con la sua banalità gozzaniana, non trasformate tutto, anche il “naturale”, il “territoriale”, “il genuino” in un business pretenzioso, smorfioso, caricaturale, al confronto della quale il mulino bianco è commoventemente naif). Quanti giornali, giornalisti, gente che lavora nella cultura sono già passati ad altra occupazione o ad altra vita, sono stati chiusi, uccisi, mentre si celebrano (nuovamente) i funerali dell’“Unità”? Quanto i poteri, gli amministratori pubblici sono incapaci di esercitare la loro funzione di promozione, di sostegno della cultura?


Ci hanno bombardato per anni sul fatto che dobbiamo smettere di aspettare la manna di papà Pantalone pubblico (Stato, Regione, Comune ecc.) e darci da fare, e chi riesce a costruire un’impresa collettiva impensabile come quella del Valle, a ottenere riconoscimenti internazionali, a mobilitare intorno al teatro un appello internazionale con firme che vanno da Settis a Rodotà a Žižek, si sente dire che deve restituire il maltolto, che è arrivata l’ora dei lavori di manutenzione.

 



Scendendo da Marte, qui sulla terra la situazione è chiara, semplice: bisogna pagare la Siae, cioè farsi derubare da un ente inutile che spreme gli autori e poco li tutela, tenere sempre a libro paga schiere di inutili pompieri, sperperare denaro pubblico in programmazioni decise da vertici spesso poco credibili, nominati con criteri discutibili, oscuri, privatistici, in molti casi attaccati alla sedia da decenni.


La Fondazione Teatro Valle Bene Comune nel suo documento di risposta a quello interlocutorio, dialogante (ma minaccioso) del Comune di Roma sottolinea alcuni principi che scavano ere geologiche tra una vecchia gestione della cosa teatrale e inedite possibilità:
    
Principi artistici:
direzione artistica a chiamata pubblica su progetto
salvaguardia dei principi che animano la vocazione artistica di questa esperienza basati su: formazione, drammaturgia contemporanea, relazioni nazionali e internazionali, interdisciplinarietà, teatro aperto alla cittadinanza.

 

Principi di natura gestionale-economica:
tutela dei diritti dei lavoratori

rapporti di lavoro basati su un equilibrio tra paghe minime e massime e ispirati a un principio di equità
una politica dei prezzi che garantisca l’accesso a tutti


Principi di governo del teatro:
cariche esecutive turnarie
partecipazione democratica nei processi decisionali

Sono idee velleitarie? Da far spezzare i tacchetti alle signore, come scrisse un’illustre critica dei sassi della strada di accesso al teatro India, quando si buttò fuori dal Teatro di Roma Martone? Sono il sentiero per una nuova, faticosa, tutta da costruire, concezione partecipata, aperta, della cultura e del teatro, non come isole separate ma come campi di esplorazione di tensioni culturali tra memoria, presente e futuro?

 



Intanto il Valle (altra notizia) con una conferenza stampa e con un’assemblea ha deciso di non accettare l’ultimatum, ma di esplorare le strade della trattativa (ogni sviluppo è aperto). Di continuare la sua residenza creativa, chiamando centinaia di persone a partecipare per scongiurare lo sgombero, paventato (minacciato, nell’ultimatum) per il 31 luglio. Nell’assemblea qualcuno ha ricordato come la strada per resistere sia allargare l’uditorio, il consenso della cittadinanza. Rendersi necessari, indispensabili.


Gli occupanti hanno messo a disposizione la sala per quei sopralluoghi per quei lavori di restauro che paiono improrogabili e che fanno dire alla controparte che bisogna abbandonarla senza indugi, garantendo la consulenza di una propria commissione tecnica di prestigio, composta da Tomaso Montanari, Salvatore Settis, Paolo Maddalena, Massimo Bray, Ugo Mattei, Paolo Berdini.

 


La situazione sotto il cielo è confusa, e per niente eccellente. La certezza è solo una: non si può chiudere un’esperienza così con la promessa di un dialogo futuro, invocando uno sgombero immediato. È folle, contraddice la stessa dichiarata volontà di dialogo, mostra la debolezza di dipendere da settori di pressione che da sempre non sopportano un esperimento così fuori dai ranghi.


Io, personalmente dico, dal Nord, o forse da Marte: tutta l’Italia deve difendere il Teatro Valle Occupato, perché è diventato il bene comune della speranza di una battaglia per il rinnovamento del modo di fare, di intendere la cultura. Seguendo certamente altri modelli, multipli, adeguati a ogni luogo, ma inventivi, diversi, fuori dalle regole che diventano leggi inviolabili del conformismo. Come ha fatto, con qualche demerito e molti meriti, rischiando, il Valle.
 

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