Torino, le rovine

10 Aprile 2013

L’Architettura non è un’Arte facile

 

L’Architettura non è un’Arte facile, sostiene Daniel Libeskind, architetto fra i più influenti al mondo, ebreo polacco, newyorkese di adozione, stimolato sulle recenti battute di arresto del suo controverso cantiere milanese Citylife. Certo è che il tormentato passaggio della nostra epoca nel giovane millennio ha segnato il manifestarsi conclamato di uno stato di crisi permanente e disatteso le speranze verso un futuro di nuovi paradigmi. A pagarne le spese più di altre discipline, è stata l’Architettura per la sua natura così compromessa alla capacità della società di esprimere i valori della giustizia e della bellezza.

 

Se il primato dell’Architettura è la complessità del suo linguaggio, saper ascoltare ed entrare in dialogo con i contesti, interpretare nel profondo la natura dei luoghi,  rendere espressivi e confortevoli gli spazi, nei suoi pieni e soprattutto nei vuoti, stiamo vivendo un’epoca infelice dove la pratica del costruire e disegnare gli spazi sembra aver smarrito il rapporto con l’elaborazione dei significati. I tratti di forza del linguaggio universale dell’Architettura, in continuità dialogica con il passato, nella totale assenza di argomenti maturi di dibattito e delle sue regole di gioco fatte anche di ironia e contraddizioni, sono impoveriti a tal punto da sembrare svaniti, perduti in una frantumazione di idiomi a volte non traducibili. Ovvia risultante di un simile scenario, il progressivo affermarsi di un grave equivoco di fondo, al dibattito sui significati, dei valori sociali della disciplina, della responsabilità del ruolo dell’architetto, si è sostituita la logica di un mercato dell’apparenza, dove  a vincere è sempre più spesso la matrice genetica di individualismi, ardite e incomprensibili geometrie plastiche, che in nome del bisogno di colmare i vuoti di un abisso dialettico hanno gradualmente sostituito la significazione del disegno,  rifugiando il progetto nelle complicazioni aberranti della modellazione 3D, tristezza.

 

Il Parco Dora nel nuovo quartiere di Spina 3, Torino. Fotografia di Stefano Rogliatti.

 


 

L’indifferenza verso i valori della Cultura

 

Tra le regioni in stato di criticità nell’Europa mediterranea, l’Italia forse può ancora avere il margine per trovare le condizioni sulle quali rilanciare positivamente il proprio futuro su di una sua crescita economica sostenibile, misurandosi intorno alla sfida di restituire dignità al valore imprescindibile della Cultura. Eppure, salvo alcune rare eccezioni, nessuno dei leader politici in gioco per questa permanente campagna elettorale, ha saputo restituire visione del paese intorno all’unicità preziosa del nostro patrimonio culturale. Primo valore, incommensurabile, del nostro paese, un fragile territorio di infinita ricchezza, storia, tradizioni, conoscenza. Di questa grave lacuna di proiezione verso il domani soffrono l’Urbanistica e l’Architettura, vittime dell’incapacità del paese di relazionarsi in modo organico con la propria Storia, riconoscendo alla difesa della Cultura e alla sua necessaria defiscalizzazione precise politiche quali decisive condizioni per un volano di crescita intelligente.

 

È così che la conservazione e la difesa di ogni metro quadro del Territorio, delle sue ricchezze ambientali e artistiche, la cura della forma delle città e delle sue architetture nella totale indifferenza della politica hanno perso il loro ruolo fondativo di rinascita. La Cultura alimenta se stessa proprio se incontra luoghi con vocazioni precise.

Per quanto ancora dovremo avere la percezione che esista un contro-stato che ignora complessivamente queste istanze?

Quando saremo in grado di riconsiderare tutti questi valori?

Quando capiremo quanto sia decisivo proprio per la Cultura rapportarsi con i luoghi?

 

SINISTRA: 25 maggio 1996, retro del flyer dell’azione “Abitare le OGR2” di "città svelata ricerche e battaglie per la qualità dello spazio pubblico” con la quale si prefigurava la riconversione dell’edificio ad “H “ dell OGR, Officine Grandi Riparazioni per ospitare attività culturali; quel giorno visitarono la fabbrica diecimila cittadini sancendone pubblicamente la salvaguardia.

DESTRA: 13 settembre 1997, retro del flyer dell’azione “FIUMI” di “città svelata ricerche e battaglie per la qualità dello spazio pubblico” con la quale si prefigurava il Parco Dora: stombatura della Dora, trattamento naturale delle sponde scoscese, salvaguardia organica delle preesistenze industriali, un bosco naturale a 500 metri da piazza Statuto, un futuro possibile in cui credevamo in tantissimi. 

 

Marzo 2013: ciò che resta delle Officine Grandi Motori. Le demolizioni hanno risparmiato, le officine di Fenoglio in Via Damiano, una porzione della capriata fra via Damiano e corso Vigevano e il “lingottino” di Mattè Trucco in corso Vercelli. Si tratta di una delle ultime grandi cittadelle industriali torinese non ancora cancellate del tutto. Cominceranno a breve i lavori di completamento e feroce densificazione edilizia, un'operazione immobiliare che ruota intorno ad un investimento Esselunga. Montaggi fotografici di Maurizio Cilli.

 


 

Il caso di Torino, della salvaguardia delle architetture industriali e delle procedure urbanistiche 

 

Non vivo più felicemente nella mia città e non ho condiviso gli entusiasmi con quanti hanno creduto in una sua veloce rinascita. In questo senso le considerazioni precedenti appaiono secondo il mio modo di guardare alle cose, ancora più urgenti e preoccupanti. Torino ha dovuto misurare la propria trasformazione sfidando una realtà molto complessa. Dalla città capitale disegnata per recinti, carceri, manicomi, mercati, ospedali, che popolavano con le loro mura la forma urbis della città otto e novecentesca, si è passati alla città industriale, per funzioni specializzate all’origine dello zooning del qui si lavora e qui si dorme, una semplificazione che ha minato in modo permanente tutti i significati sociali e i valori spaziali della polis. Un’eredità difficile con la quale fare i conti, eppure Torino è stata fra le prime città italiane capaci di dotarsi di strumenti di pianificazione territoriale e strategica di ultima generazione. A partire dai primi anni ’90 e in modo più sistematico dopo l’approvazione del piano regolatore nel ’95 circa 1/7 del territorio urbano della città è stato oggetto di mercato e trasformazione. Si tratta di un’estensione imponente, un metro ogni sette, sulla quale con accelerazioni crescenti si è compiuta una trasformazione epocale. Il Barocco torinese incise quantitativamente sul territorio in modo molto più marginale, eppure compare su tutti i libri di Storia dell’Urbanistica e dell’Architettura. Le cruciali trasformazioni operate nella città negli ultimi vent’anni non hanno ricevuto, salvo rarissimi casi, alcun tipo di attenzione della critica, dato inconfutabile che avrebbe dovuto far riflettere gli amministratori.

 

Questo dato appare ancor più impressionante, se consideriamo che di questo settimo di città, la metà della superficie, circa 8 milioni di metri quadri, sono stati in passato grandi distretti industriali, complessi produttivi, vere e proprie cittadelle murate, fabbriche piccole e grandi interne al tessuto della città: un patrimonio abbandonato per vent’anni, le fabbriche dei nostri padri.Per vent’anni sono rimaste lì, sole, vuote, un’intera generazione cresciuta rifiutando tutto ciò che il mondo della fabbrica rappresentava improvvisamente si ritrovava sedotta dal loro fascino, quel senso di dolore evocato da quei luoghi sospesi nell’abbandono ai nostri occhi appariva come un paesaggio ricco di promesse. Di quelle periferie interne della città subivamo il fascino di una nuova città di frontiera, un inesauribile campo di sperimentazione, e in molti speravamo che almeno in alcune, un giorno, sarebbe stato possibile abitarci e lavorare.
Oggi che cosa è rimasto di quella città fatta di sogni, di grandi spazi, di luce, di libertà creativa, di lavoro felice senza fatica, di lavoro senza padroni, di quella città per le idee fatta di spazi di libertà, che cosa è rimasto?
Molto poco, quasi nulla.

 

Torino a partire dal 1995 ha rimesso in gioco tutta se stessa, la storia e la sua forma del Novecento, stabilendo delle regole con le quali il patrimonio di spazi ed edifici del lavoro in fabbrica sono stati completamente cancellati per immaginare nuovi modelli di città possibile.

È così partito un percorso di bonifica e ricostruzione che ha restituito al tessuto urbano grandi aree verdi e servizi, pochi veri e propri Parchi naturali. Tanti nuovi brani di città interni ai quartieri esistenti, tante nuove case, uffici, rarissimi gli ambiti su cui si è cercato di favorire il commercio al dettaglio con piani di riqualificazione dello spazio pubblico di centri commerciali naturali diffusi. Ogni trasformazione è decollata spesso grazie esclusivamente alle facili lusinghe degli operatori del commercio di media e soprattutto grande distribuzione.Questo improvviso, a tratti cieco, processo di ricostruzione della città è stato il solo motore di sviluppo dell’economia della città alimentato dalla propulsione di investitori privati e del mercato delle costruzioni. È stata una scelta coraggiosa, a mio modo di vedere del tutto avventata, ad appannaggio esclusivo di un’economia del profitto veloce, capace di generare unicamente cospicui volumi di credito, per altri l’unica via possibile di ricrescita economica. Credo sia arrivato il momento di discutere di questi modelli di città, per chiedersi: queste nuove parti di Torino con le quali stiamo cominciando a prendere confidenza che cosa ci raccontano?

 

Dobbiamo ripartire, riprendere distanza dalle cose per riuscire a guardarle con obbiettività, senza la paura di riconoscere di aver commesso, in un cammino così veloce e difficile, anche molti errori. Purtroppo questi inserti nella città non sempre ci raccontano di una società progredita: ciò che questi brani di città trasformata ci trasmettono sono, molto spesso, modelli ambientali che nel loro complesso sono già stati messi in discussione dalla storia.

Spesso ci troviamo di fronte a modelli insediativi incerti, incapaci di stabilire connessioni virtuose con i quartieri preesistenti, tipologie edilizie non sempre all’altezza dei reali bisogni dei cittadini, sistemi di pertinenze chiusi e aperti verso spazi pubblici troppo spesso disegnati esclusivamente intorno alle necessità del traffico veicolare e che spesso risultano incapaci di affermarsi come nuove centralità proprio per un certo grado di ostilità che non invita ad attraversarli camminando.

 

Questi nuovi inserti urbani ci raccontano storie che ogni grande città come la nostra conosce molto bene, ci raccontano le storie di tanti quartieri in cui tutti noi abbiamo abitato, ci raccontano dell’incapacità della nostra società di produrre ambienti organici a se stessa in continuità con i valori della tradizione e della storia. Il risultato è un ambiente ancora inespressivo, contraddistinto da una certa genericità dei segni, privo di quei connotati di seduzione e di fascino che sappiamo riconoscere e apprezzare nei quartieri storici.

 

Via Vinadio a Torino, dopo un bombardamento, nel 1944. Sullo sfondo si vede il muro della Diatto, in quegli anni ormai SNIA Viscosa, e al di sopra del muro svetta, integra, la cisterna sulla quale è in corso la battaglia per evitare la demolizione della fabbrica da parte di Sniarischiosa un comitato di cittadini congiunto al coordinamento di Associazioni ambientaliste Italia Nostra, Legambiente Ecopolis e Pro Natura Torino.

 


 

A sfavore di una ottusa salvaguardia

 

A disegnare le trasformazioni della nostra città non sono stati i Progetti, quelli veri, fatti di apertura al confronto, dibattito, procedure trasparenti, concorsi a più fasi, dove ad affermarsi è il migliore dei progetti, il migliore degli architetti. No, le nostre trasformazioni sono state affrontate su tavoli privati sui quali spesso ad affermarsi erano le ragioni del negozio, della cantierabilità immediata, della cieca sostituzione edilizia. Poche regole incapaci di stabilire nessun altro valore se non quello fondiario, scritte su striminzite schede di attuazione: qui mettiamo un’area verde, qui i parcheggi, qui i nuovi edifici, alla sola condizione di allinearsi diligentemente alla via, nessuna attenzione alla reale qualità dell’architettura e del suo necessario rinnovamento tecnologico.

Abbiamo ricostruito la città utilizzando le stesse tecnologie del secondo dopoguerra. 

Poi in alcuni casi l’intoppo, una fabbrica più significativa di un’altra, una facciata più disegnata di altre, più anonime, oppure toh! una ciminiera, una torre di raffreddamento, una capriata in cemento armato meno brutale di altre. E adesso che facciamo? Desolati ma siamo obbligati a chiedere il parere del sovrintendente, che dall’alto della sua dotta visione, tutta rivolta alla classificazione ministeriale, viene invitato a non stravolgere troppo le agilità di un progetto che non prevede rallentamenti. E così vince la logica dell’ottusa salvaguardia: si preservano moncherini di campate di edifici monumentali, teniamo in piedi le facciate decò, come pagine ingiallite di un triste archivio bidimensionale, come se le sue partiture di pieni e di vuoti non corrispondessero anche alla dignità degli spazi di un’architettura. Poi certo salviamo tutte le ciminiere, in un caso una di queste è persino diventata il campanile di una nuova chiesa, bestemmia! E poi se la torre non rompe troppo le scatole, ma sì teniamo su pure lei. Tutto deciso allo stesso tavolo, fra le solite quattro, cinque persone e due, tre, quattro studi professionali, sempre gli stessi da vent’anni, una routine viziata come l’aria che si respira durante il poker del giovedì sera.  

 

E questi dovremmo accettarli come gli strumenti attraverso i quali perseguire un modello sociale e ambientale realmente condiviso che sia espressione di una reale qualità dell’abitare?

Questo significa costruire cittadinanza intorno alla consapevolezza di modelli ambientali di qualità dello spazio pubblico realmente condivisi, elementi di un corpo sociale integrato da cui non può prescindere nessun paesaggio urbano ricomposto?

La qualità di un tessuto urbano si costruisce attraverso un processo che individua le sedi di confronto sul progetto prima, durante e dopo. Obiettivo non è tanto quello di rispondere a problemi di natura estetico-formale, quanto piuttosto di individuare per ciascuno dei casi, vocazioni, qualità e opportunità offerte dal costruito esistente e di stabilire quali siano le migliori tipologie e la più efficace distribuzione degli spazi aperti. Per fare questo è necessario ripensare tutti gli strumenti a disposizione delle procedure, capaci di innescare processi nei quali le immagini della trasformazione possano diventare supporto al governo del territorio, oltre che base per il confronto, anche conflittuale, tra gli attori coinvolti.

 

In questo paesaggio difficile il sistema culturale della città può e deve assumersi la responsabilità di prendere voce. Torino può rilanciare se stessa sul piano culturale soprattutto se nei prossimi anni saprà presentarsi con un’idea di città evoluta, difendere i propri luoghi, a partire da un’altissima qualità del disegno dello spazio pubblico, campo reale sul quale far crescere il dibattito culturale.  

Pagheremo cara questa stagione di indifferenza. La città non ha saputo rinnovare le proprie tecnologie costruttive, non ha saputo interpretare i reali bisogni dei cittadini rinnovando le proprie tipologie abitative, abbiamo perso tutti gli spazi di flessibilità e reversibilità per il lavoro tradizionale e le piccole imprese, autentica risorsa storica della nostra cultura tecnologica, scientifica e creativa.

 

6 settembre 2012, Cantiere Barca, portico di Via Anglesio. Assemblea Pubblica dei cittadini con l’Assessore Ilda Curti, la Presidente della VI° Circ. Nadia Conticelli, la Direttrice del Goethe Institute Jessika Krantz Magri, le mediatrici del progetto giulia Majolino e Alessandra Giannandrea, i curatori a.titolo e Maurizio Cilli e il collettivo berlinese Raumlabor. Foto Aurora Meccanica.

 


 

Mipim

 

Le recenti direzioni della pubblica amministrazione non fanno sperare che vi sia per i programmi futuri una reale revisione delle direzioni di rotta. A testimonianza proprio della volontà opposta la scelta di costituire un Fondo immobiliare Città di Torino cui il Comune ha conferito le sorti future di riconversione dei suoi edifici più pregiati e la recente partecipazione al Mipim di Cannes, Le marché international des professionnels de l’immobilier, la fiera più accreditata del real estate, dove con discutibili e avventate forme di marketing si è cercato di attirare le attenzioni degli investitori internazionali sulla vaghezza di intenti degli esiti del concorso di appalto che ha programmato la trasformazione un milione di metri quadrati di superficie territoriale di tutto il comparto nord est della variante 200. 

 

Non guardo al futuro nutrendo la speranza che le cose possano cambiare facilmente, il mio vuole essere un semplice augurio, andare ai resti con giudizio e politiche urbanistiche di buon senso e più coraggiose nell’individuare procedure che sappiano riprogrammarsi intorno alla necessità di avviare processi attuativi aperti al confronto, al dibattito pubblico, a partire dall’ascolto delle istanze che provengono dal basso, che attraversino orizzontalmente il corpo sociale, rilancino la qualità urbana attraverso la cultura del progetto e i valori ambientali. Lo dobbiamo tutti alla bellezza della nostra città, lo dobbiamo tutti per rispetto delle fabbriche dei nostri padri.

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