Alla corte di Roberto d’Angiò

21 Settembre 2014

Napoli, 15 dicembre, Anno Domini 1316

 

La delegazione inglese aveva appena lasciato la sala delle udienze e stava per essere segretamente accompagnata fuori da Castelnuovo – dagli Angioini tenacemente denominato mastio – che già un’altra si presentava al cospetto di re Roberto. La situazione politica si stava complicando, se non si fossero subito messe a tacere le malelingue sarebbe di sicuro scoppiato un incidente internazionale e – perché no? – magari anche una guerra. Gli Aragonesi non aspettavano altro.

 

 

Sebbene Roberto d’Angiò, terzogenito di Carlo II, regnasse su Napoli da ormai sette anni, erano ancora in molti ad accusarlo di aver fatto avvelenare il proprio fratello maggiore, Carlo Martello, legittimo erede al trono per usurparne il titolo e di aver indotto il secondogenito Ludovico ad abbracciare la vita religiosa per spianarsi la via alla successione. I suoi più accaniti detrattori si annoveravano, ovviamente, tra i ghibellini. E non bastavano i giuristi, ora ci si erano messi anche rimatori e menestrelli a contestarlo dipingendolo come un re illegittimo e fraudolento. Circolava persino contro di lui nelle corti italiane il verso di un noto poeta fiorentino:

 

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,

m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni

che ricever dovea la sua semenza

(Dante Alighieri, Paradiso, IX 1-3)

 

Conscientia ductus, Roberto non poteva tergiversare oltre. Doveva agire. Rispondere colpo su colpo. Non già di spingarda ma di penna, magari con uno dei suoi famosi sermoni, che tanta ammirazione riscuotevano tra gli intellettuali del tempo, o meglio, forse, di pennello. Sì, ci voleva un dipinto. Una bella pala d’altare da mettere nella chiesa che stava facendo costruire, dedicata al Corpus Domini. Lo avrebbe commissionato al più grande artista vivente di parte guelfa.

 

Presa questa decisione, abbandonò la sala Major e si diresse a passo spedito verso la biblioteca. Voleva chieder lumi al protonotaro Bartolomeo da Capua, suo logoteta e preziosissimo consigliere.

 

La biblioteca era il luogo che Roberto prediligeva al castello. A ragione era stato soprannominato il “re letterato”, poiché amava scrivere e sapeva farlo piuttosto bene. Nel tempo aveva arricchito la collezione reale di sempre nuovi volumi, dotandola persino di uno scriptorium, in cui si copiavano e si miniavano codici e si traducevano opere dal greco, dall'arabo e dall'ebraico. Era tra le sue pareti che cercava rifugio quando doveva prendere decisioni importanti ed era lì che avrebbe di certo trovato Bartolomeo; probabilmente chino a scriver glosse alle costituzioni federiciane, ma comunque pronto a fornirgli illuminanti pareri.

 

“Un quadro, maestà?” chiese il logoteta poggiando lo stilo sul tavolo. Si grattò la testa. Appariva perplesso.

“Un quadro” ripeté il re. “Di cui dovremo concepire insieme il contenuto per renderlo più eloquente di un trattato e più efficace di qualunque documento scritto, insomma dovrà essere un vero e proprio atto di diplomazia. Il pittore, poi, farà il resto. Ne ho in mente uno che non ci deluderà.”

 

Assisi, 30 dicembre, Anno Domini 1316

“Che non si badi a spese” aveva dichiarato l’emissario del re angioino quando gli aveva commissionato il dipinto. A riprova gli aveva consegnato due pesanti sacchetti. In uno erano contenute dieci once d’oro zecchino da impiegare per il fondo della pala d’altare che doveva eseguire; nell’altro, più piccolo, una manciata di lapislazzuli, da triturare per ottenere il pigmento blu.

“Sulla cornice, i gigli di Francia dovranno campeggiare sopra un fondo di un blu brillante: il colore reale” aveva infatti soggiunto l’uomo. “Il vostro compenso lo ritirerete personalmente a Napoli quando consegnerete il lavoro finito. Ma, mi raccomando, entro e non oltre il luglio prossimo venturo. Le sacre celebrazioni per la canonizzazione del defunto fratello vescovo del re sono previste per il di 7 del mese di aprile e il giorno dedicato al suo culto sarà il 26 d’agosto. Per quella data l’ancona dovrà essere al suo posto nella cappella che le stanno costruendo. Dunque calcolate bene il tempo del viaggio e quello necessario per la sua allocazione. Sarete lautamente ricompensato, non dubitatene. Sua maestà è molto generosa. In occasione della vostra venuta, vi sarà concesso anche un ricco appannaggio insieme al cavalierato della Ginestra. Si tratta di un titolo onorifico piuttosto prestigioso, che non viene conferito a molti ed è anche parecchio antico. Ad istituirlo, infatti, fu l’avo del mio re, Goffredo il Bello, detto il Plantageneto per via del ramo di ginestra che recava sul proprio stemma, detta in francese plante de genêt, appunto. Rallegratevi, maestro, presto sarete cavaliere tal quale al santo di cui andate affrescando le storie” aveva concluso indicando il dipinto parietale a cui il pittore stava lavorando. Quindi, consegnatagli una pergamena dove erano esplicitate le richieste del regale committente, si era congedato, lasciandogli a disposizione un carro per il trasporto della pala e alcuni militi quale scorta armata per il viaggio.

 

Simone Martini si trovava ad Assisi ormai da tre anni, impegnato ad affrescare la cappella di san Martino nella Basilica inferiore del Santo, su legato testamentario del defunto cardinale francescano Gentile Portino da Montefiore, dal cui legatario si recò immediatamente per domandargli licenza di sospendere i lavori a fresco onde potersi dedicare alla commessa reale.

Ubi major, minor cessat”, pensava mentre camminava spedito, certo che questi non si sarebbe opposto al volere angioino, della cui dinastia era un fedele seguace, ma mai si sarebbe aspettato che gli suggerisse addirittura di partire immediatamente alla volta della città partenopea, per realizzare la pala in loco, così da evitare i danneggiamenti che il viaggio avrebbe potuto recarle, nonché il rischio che malintenzionati potessero rubarla durante il trasporto.

 

Napoli, 23 marzo, Anno Domini 1317

L’artista raggiunse la città partenopea in una fredda ma luminosa mattina d’inizio primavera. La tavola su cui avrebbe eseguito il dipinto se l’era portata con sé. L’aveva fatta costruire a Siena, suo luogo natale, dai carpentieri locali – ignorava se a Napoli ve ne fossero di così abili. Forti raffiche di Libeccio sferzavano le torri di Castelnuovo, le cui fondamenta erano, per la parte immersa nel mare, flagellate dai marosi. Ammesso, insieme ad altri postulanti, alla presenza del sovrano, volle tracciarne subito un fedele ritratto sul suo inseparabile taccuino, quindi si pose discretamente in un angolo in attesa di essere ricevuto. Ma le sue aspettative andarono deluse. Roberto, troppo impegnato per dargli udienza, si limitò a farlo accompagnare nello studio che gli era stato riservato, allestito in un angolo della biblioteca, ai piani alti del maniero.

 

L’ambiente che ospitava la collezione reale di libri era austero ma inondato di sole. Dalle ampie finestre entravano scintillii di luce radiosa che lampeggiavano per un attimo sugli scaffali di legno che ne rivestivano le pareti, lambivano i tomi e i rotoli che vi erano contenuti per poi svanire, inghiottiti dall’ombra. Sillibi coloratissimi fuoriuscivano, penduli, dai dorsi dei volumi rilegati in pergamena bruna conferendo una nota di vivacità alla monocromia dell’insieme.

Simone non poté fare a meno di guardarsi attorno, ammirato. Con un rapido calcolo stimò che i libri ammontassero all’incirca a qualche migliaio di esemplari. Accanto alle opere poetiche e filosofiche, ve ne erano di teologia, di diritto e di medicina. Si trattava di una biblioteca ricca e all’altezza della cultura del sovrano angioino, che gli aveva meritato fama fra i letterati del tempo, guadagnandogli l’appellativo ‘re filosofo’. Era proprio l’ambiente ideale per concepire il dipinto ‘intellettuale’ che lui aveva in mente. Senza por tempo in mezzo si mise all’opera.

 

Come gli era stato esplicitamente richiesto dal suo augusto committente, avrebbe dovuto dipingere una doppia incoronazione, celeste e terrena, per confermare la legittimità dell’ascesa al trono di Roberto d’Angiò, ma il modo in cui rendere il soggetto sarebbe stata tutta opera del suo ingegno. Il re lo aveva lasciato libero, accordandogli piena fiducia. Non lo avrebbe deluso. Aveva in mente di tradurre in immagine un passo dell’Ecclesiastico: “Corona aurea super mitram eius expressa signo sanctitatis, et gloria honoris: opus virtutis, et desideria oculorum ornata.” (Eccl. 45, 14) in una scena che fosse religiosa e profana al tempo stesso, devozionale e mondana, in più voleva inserirvi un ritratto. Di ritratti se ne erano già visti alcuni eseguiti da Arnolfo di Cambio in scultura ma mai da nessuno in pittura. Neppure Giotto aveva ancora osato tanto. Il rapido schizzo tracciato al volto del sovrano nella sala delle udienze gli sarebbe bastato.  

 

 

 

 

Ritrasse Roberto di profilo – com’era d’uso in antico sulle monete romane per gli imperatori – il naso aristocratico leggermente adunco e la bocca breve dalla piega amara, lo sguardo, distante e quasi distaccato, rivolto verso un punto indefinito. Lo raffigurò a mani giunte, inginocchiato ai piedi del fratello, in attesa che questi gli ponesse sul capo la corona regale, come un cavaliere che, ligio al rituale cavalleresco, attendesse l’investitura dal proprio signore.

  

Dipinse l’ascetica figura di Ludovico, dall’esile corpo svettante verso l’alto – come la guglia di una cattedrale gotica, con la quale aveva avuto in comune la spiritualità in vita – seduta in trono con sovrana noncuranza e dignitosa compostezza. Sovradimensionata rispetto a quella del fratello, in una sorta di prospettiva gerarchica di stampo remoto, nella sua frontalità perfetta si sosteneva con la sola forza del panneggio, per effetto delle sinuose linee curve generate dall’elegante disporsi del prezioso piviale di broccato che l’avvolgeva e che lasciava appena intravvedere il severo saio francescano che Ludovico, “usus pauper”, amava indossare. Un drappo di damasco purpureo gettato sul trono, un sontuoso copricapo episcopale, guanti fioriti ed aureo scettro completavano l’aulica pompa, mentre due angeli lo proclamavano santo ponendogli sopra la mitra una corona rifulgente di gemme. Il fondo oro, i colori brillanti che vi aveva profuso, le rosette in mistura d’argento (oggi purtroppo alterate) che tempestavano il piviale, unitamente alle decine e decine di pietre preziose e rare contribuivano a conferire all’opera un’aristocratica, opulenta raffinatezza. (Le gemme sono scomparse ma, nel restauro del 1960, a luce radente se ne sono riconosciuti i punti di fissaggio sulle gale del paramento, sui guanti e sull’anello episcopale.)

 

Napoli, 20 agosto, Anno Domini 1317

Simone uscì di casa presto quella mattina. Tra poche ora sarebbe stato creato cavaliere. Aveva trovato alloggio alle Corregge, ad est di Castelnuovo, poco distante dalla zona destinata alle giostre e ai tornei, presso un funzionario regio che svolgeva la propria attività a corte. Parte delle cinquanta once d’oro ricevute dal sovrano a titolo di pagamento per l’esecuzione della pala le aveva spese per il proprio addobbamento. Oltre ad un cavallo si era, infatti, comprato abito, armi, armatura e speroni d’oro. Con il resto della somma, prudentemente messa da parte, intendeva rilevare una casa ad Avignone dove avrebbe dovuto recarsi di lì a breve per assolvere a una commessa papale. Il giovane artista – trentatré anni da poco compiuti – era un tipo schivo per natura e non ambiva ad assurgere alla dignità cavalleresca. Si poteva anzi dire che la nomina e la fastosa cerimonia con cui gli sarebbe stata conferita lo infastidissero. Era riuscito ad evitare la veglia d’armi che la precedeva col pretesto della salute cagionevole, ma era consapevole di dover sottostare alle usanze del luogo. A Napoli era d’obbligo. Fra sei giorni, infatti, avrebbe dovuto presenziare alla solennità dell’allocazione della sua pala nella splendida Santa Chiara, la chiesa reale angioina che, se pure ancora incompiuta, era già teatro delle cerimonie pubbliche di quella sfarzosa corte. Era lì che il sovrano amava mostrarsi in tutta la propria magnificenza e potenza e, in base alla raffinata deontologia cavalleresca cui si atteneva, a nessuno era concesso comparire alla sua augusta presenza se non dotato almeno del primo grado di nobiltà, cui corrispondeva il titolo di cavaliere, appunto.

Perciò Simone accelerò il passo; se non voleva arrivare tardi alla propria investitura, lo doveva affrettare.

 

 

Quando, ventiquattro anni dopo, prima di essere incoronato poeta in Campidoglio, il Petrarca giunse a Napoli per sottoporsi all'esame di Roberto d'Angiò – ritenuto allora il più dotato dei sovrani e il più insigne uomo di lettere – e vide l’ancona che Simone Martini aveva dedicato a San Ludovico di Tolosa, ne rimase profondamente colpito. In quella pittura colta e nobiliare, squisitamente araldica, mistica e profana al contempo ma, soprattutto, arditamente nuova, gli parve di riconoscere l’intima sostanza dell’arte sua e nell’autore la sua stessa attitudine a conferire concretezza a ciò che per sua natura è alieno dalla percezione sensoriale.

Aveva incontrato l’artista senese cinque anni prima, ad Avignone e tra loro si era subito stabilita una forte sintonia, trasformatasi, ben presto, in solida amicizia, tanto da indurlo a dedicargli dei versi, quando questi gli aveva eseguito su pergamena il bel ritratto dell’amata Laura:

 

Ma certo il mio Simon fu in Paradiso

(onde questa gentil donna si parte),

ivi la vide, et la ritrasse in carte

per far fede qua giù del suo bel viso.

L’opra fu ben di quelle che nel cielo

si ponno immaginar, non qui tra noi,

ove membra fanno a l’alma velo.”

(Petrarca, Canzoniere, Sonetto LXXVII)

 

Così il più delicato dei poeti aveva reso omaggio al pittore della delicatezza.

 

 

Nota: Le 50 once ricevute da Simone Martini, documentate nelle carte angioine al 23 luglio 1317, sono una somma piuttosto rilevante per una sola pala, se si pensa che, qualche anno dopo, Giotto, al colmo della propria fama, ne riceverà in totale 35 per l’intero ciclo di affreschi della sterminata cappella reale in Castelnuovo; affreschi che, ricoperti in età aragonese, sono andati purtroppo perduti.

 

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