ADI: gioiosa alchimia
Da dove trae origine la parola alchimia? Il Battisti-Alessio ci svela che la sua etimologia è complessa, vi riscontra infatti una commistione di lingue, dall’arabo, al greco bizantino, prima di arrivare all’italiano, tuttavia in ognuna di esse è presente il significato di mescolamento.
Alchimia è il nome scelto dai fratelli Guerriero, Alessandro (1943) e Adriana (1949 – 1999), per il movimento di arte, design ed altro da loro fondato a Milano nel 1976: una scelta perfetta per il titolo di una realtà culturale che ha ‘mescolato’ linguaggi diversi. Dall’architettura, alle arti visive, dal product design al fashion, dal teatro alle performance, dalla produzione di video e suoni sperimentali fino alla realizzazione di seminari, libri e persino di una rivista, Alchimia ha ‘mescolato’ forme, colori, voci, suoni, concetti, apporti al progetto e addirittura i destini dei progetti medesimi, in nome della creatività più pura ed assoluta, scevra da ogni soggezione alle leggi del mercato. Alchimia è stato a tutti gli effetti un movimento che ha promosso e praticato l’elogio della leggerezza, dell’ironia, del banale e dell’imprevisto, della contro realtà, della decorazione e dell’ornamento, gioiosamente, in contrapposizione al pondus della seriosità, del minimalismo, del funzionalismo e della concretezza predicati dal Modernismo, che a quella data era anche sì giunto ai propri estenuati epigoni. E allora bisognava uscirne. Trovare e praticare strade diverse. “Meditare a lungo. Dimenticare subito. Abbandonarsi al ritmo dell'inconsistenza”, esorta Alessandro Guerriero nel suo Vademecum.
L’obiettivo era: “la ricerca di un principio unificante, il progetto di un universo che contiene tutte le cose”, come scrive ancora lui in una delle pagine del catalogo che accompagna la mostra Alchimia. La rivoluzione del design italiano, visitabile fino al 22 gennaio all’ADI Design Museum.
“Il titolo della mostra” spiegano i curatori “suggerisce che Alchimia non solo ha innescato una rivoluzione nel design italiano, ma piuttosto che la scintilla partita da Alchimia ha consentito al design italiano di rivoluzionare il design in generale, anche oltre i confini dell’Italia”.
La pensava così anche Gillo Dorfles: “Alchimia segna l’inizio della grande stagione del nuovo design italiano ed effettivamente ha precorso e ha aperto la strada a un nuovo modo di pensare che sarà poi seguito anche da designer di altri Paesi europei. Il suo grande merito è stato quello di liberare il mondo del design da quel razionalismo bauhausiano che aveva dominato in tutti gli anni precedenti, introducendo nuovi elementi e nuovi stimoli”.
Questa all’ADI è la prima retrospettiva italiana completa dedicata al movimento. Si tratta di una coproduzione internazionale, che dopo un’anteprima di grande successo, allestita presso il Bröhan-Museum di Berlino (aprile-settembre 2025, con il titolo Alchimia – die Revolution des italienischen Designs), curata da François Burkhardt e Tobias Hoffmann, è approdata a Milano, la patria dell’esperienza artistica, in una versione rivisitata ed ampliata dai medesimi curatori, ma qui con l'allestimento concepito personalmente da Alessandro Guerriero.
La rassegna, in cui sono esposte al pubblico più di centocinquanta opere tra oggetti, arredi, schizzi, fotografie, tele e video, è realizzata sotto il patronato congiunto del Presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier e del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.
Sono stati oltre un centinaio gli artisti, i designer e gli intellettuali che hanno gravitato nell’area di Alchimia, la cui avventura si è conclusa nel 1992 per decisione dello stesso Guerriero, anche se molti dei protagonisti si erano allontanati già prima.
“Eravamo un gruppo orizzontale, senza capo, senza gerarchia” ha dichiarato Guerriero, “anche per questo non abbiamo venduto niente: l’acquirente vuole la firma di un designer, mentre noi eravamo almeno in sette. Tanti uomini quante donne. Un lavoro antieroico, eravamo tutti allo stesso livello, quello è stato il nostro vero progetto”.
In un tempo, l’attuale, in cui vige l’individualismo più sfegatato, il culto della personalità, il mito dell’archistar, ripensare a questo gruppo di progettisti/produttori che creavano e realizzavano insieme, confrontandosi, sperimentando, che non erano concorrenti ma collaboratori alla pari fa bene al cuore.
Ecco, in proposito uno stralcio del Manifesto del Movimento, pubblicato a Milano nel 1984, a firma di Alessandro Mendini, “padre spirituale” del gruppo e alter ego di Guerriero, che si unì ad Alchimia a partire dal 1978.
“Per Alchimia il suo compito di gruppo che disegna è quello di consegnare agli altri una testimonianza del "pensiero sentimentale". La motivazione del lavoro non sta nella sua efficienza pratica, la "bellezza" dell'oggetto consiste nell'amore e nella magia con cui esso viene proposto, nell'anima che esso contiene.”
E ancora:
“Per il gruppo Alchimia oggi è importante l’atto del “disegnare”. Disegnare, ovvero emettere segni, non è “design” e non è “progetto”: è invece un libero e continuo movimento del pensiero, quando si esprime visivamente. Un movimento “motivato”.”
A proposito poi di un nuovo modo di intendere gli oggetti, così si legge nel Vademecum di Alessandro Guerriero: “Gli oggetti devono esaudire e allo stesso tempo oltrepassare i confini strumentali, per trasformarsi in piccoli e discreti sacerdoti dei molti riti quotidiani di cui l’esperienza contemporanea ha sempre più bisogno. Ed è per questo che alla frase di Adolf Loos il decoro è un delitto io rispondo dicendo che il decoro è un diletto”.
È lo stesso Guerriero, fondatore di Alchimia e curatore dell’allestimento della rassegna milanese, ad accogliere i visitatori con queste parole: “Benvenuti su questo “tappetozattera” che fa viaggiare nel tempo e nello spazio quelle particolari realizzazioni tridimensionali dei decori, note con il nome di mobili. Benvenuti tra questi mobili, qui un po’ accatastati quasi fossero di ritorno da una delle centoventisette mostre che Alchimia ha realizzato in giro per il mondo”.
Ma è solamente un tappetozattera, o è anche un fil rouge e persino un red carpet? Forse è tutte e tre le cose insieme, infatti a connettere fra loro i ‘risultati’ delle esperienze di Alchimia presentati in mostra è il fil rouge della fantasia, della creatività e della libertà espressiva più radicale. I progetti-oggetti di Alchimia, poi, da vere star quali sono, hanno tutti i diritti di stare su un red carpet, che è sicuramente anche una zattera, anzi, è un’arca di Noè, dove essi hanno trovato rifugio salvandosi dal diluvio universale del marketing, per essere riconsegnati al futuro, affinché sia dei “posteri l’ardua sentenza”.
Il tappetozattera-arcadiNoè-filrouge-redcarpet, che si dipana su di una lunghezza di 36 metri (per 4 di larghezza) genera anche un Tunnel delle Meraviglie che si innalza idealmente proprio al centro della Galleria dei Compassi d’Oro e pur essendo da questa planimetricamente separato, non lo è spazialmente, così che gli oggetti del Tunnel possono ‘colloquiare’ con quelli della Galleria. E chissà quante se ne dicono! Soprattutto di notte, quando non c’è nessuno, magari con il sottofondo musicale dello Schiaccianoci di Čajkovskij.
Sul tappetozattera-arcadiNoè-filrouge-redcarpet, troneggia, indiscussa sovrana, la Poltrona di Proust (1978) di Alessandro Mendini, un oggetto che sta in bilico sul crinale del kitsh, al limite del sublime. Sempre di Mendini, c’è poi il divano Kandissi (1979), che appartiene alla Bau. Haus collection uno di Alchimia. In questi jeux de mots che fanno il verso al Bauhaus (preso ad emblema di tutto il Modernismo) e a uno dei sui protagonisti, vi è indubbiamente un repêchage Dada che è in perfetta sintonia con il dettato del movimento milanese (d’altra parte, dopo Dada, niente in arte può prescindere da Dada, e il coltissimo Mendini lo sapeva molto, molto bene).
Nel merito del concetto di mescolamento insito nel termine alchimia, che dire poi degli ‘arredi vestitivi’ e dei ‘vestiti arredativi’ realizzati per Alchimia, sempre da Mendini, nella performance inscenata nel negozio di Fiorucci, in Galleria Passerella, a Milano, mercoledì 10 febbraio 1982? Lì, teatro, moda, arredamento ed exhibit si mescolavano in una vera alchimia.
Tra il 1983 e il 1984, Cinzia Ruggeri ha creato un abito intitolato Homage to Lévi-Strauss, che è stato a lungo ritenuto “l’esempio perfetto del look postmoderno: forme eccessive, svettanti e asimmetriche, trucco e acconciatura teatrali, e persino una posa – quella della modella – che evoca ipnotiche fluttuazioni immaginative”. Della stessa autrice, nella mostra milanese è esposto l’abito con inserti in pelle, mentre di Anna Gili si può ammirare l’abito sonoro Nulla, che avrebbe fatto felice Luigi Russolo.
Nel 1989, all'interno dell'Atelier Alchimia, è nata Ollo, rivista senza messaggio, che Roberto d’Agostino ha burlescamente definito “la rivista maschile di Elle”, di cui sono usciti soltanto due numeri, entrambi diretti da Mendini, che ne ha disegnato anche le copertine. Come ha scritto Guerriero, ogni numero “è un cofanetto di cartone (339x240) in cui sono inserite 80 pagine libere senza rilegatura. La carta da stampa è casuale … era richiesto allo stampatore di usare gli avanzi per via del costo. Risultato grammatura e materiali sempre diversi. Nella sua non-comunicazione si diceva (al contrario delle riviste in edicola) che ne veniva regalata una copia se si acquistava il freegift che nel N1 era una cravatta con una decorazione riferita al virus dell’Aids e nel secondo (e ultimo numero del '90) era allegato un orologio, color nudo, che riportava una faccina sorridente (precursore della collezione Swatch)”.
In una bacheca della rassegna milanese si possono ammirare sia le due copertine che i due freegifts.
Vi sono esposti anche due pezzi della “Collezione mobile infinito’, un progetto a cui parteciparono circa 40 designer e architetti, con diverse tipologie di mobili (qui il video) di cui Mendini, nel 1981, ha dato una definizione assolutamente paradossale, dove si possono riconoscere un invito alla fuga dalla ‘ovvietà’ funzionalista e una certa intonazione dada. Eccone un estratto: “il mobile infinito non è proprio affatto un mobile ma una allegoria, un ex-voto, una metafora per altri problemi, un pendolo sospeso sulla storia degli oggetti, una specie di banalità condotta al suo stato di classicismo. Più che un mobile, allora, il mobile infinito, assomiglia ai panni sempre stesi sul balcone, a una biblioteca che sempre si rinnova, a una collezione di quadri preraffaelliti, a un deposito di armi, al negozio di un fioraio che getta i petali appassiti, a una costellazione alla deriva tra cielo e terra”.
Così, in proposito, ne scrive Guerriero: “Il Mobile infinito nel 1981 annulla per eccesso sia le tipologie che la firma stessa dei progettisti, entrando con i Magazzini Criminali nella sperimentazione teatrale”. Si riferisce alla performance notturna “Zone Calde”, che fondeva teatro, arte e design, inscenata nel settembre 1981 dal gruppo teatrale sperimentale fiorentino "Magazzini Criminali" (ora Compagnia Lombardi Tiezzi) davanti al Trifoglio di Gio Ponti nel cortile del Politecnico di Milano.
Più alchimia di così!
Riprendendo di nuovo le parole di Guerriero, nella rassegna milanese le opere sono esposte in ordine sparso, appoggiate sul tappetozattera in modo casuale “quasi fossero di ritorno da una delle centoventisette mostre che Alchimia ha realizzato in giro per il mondo”. Inoltre, egli aggiunge che senza i prestiti dei collezionisti e degli stessi autori dei pezzi esposti, questa mostra non si sarebbe potuta fare né a Berlino, né a Milano, perché lui non ha mai avuto i soldi per pagare un magazzino dove conservare le più di tremila opere che sono state realizzate negli anni in seno al movimento. Purtroppo non esiste una Fondazione Alchimia. Eppure, per il ruolo di antesignano del futuro che il movimento ha svolto tracciando la via di una ‘nuova modernità’, sarebbe doveroso che venisse istituita una fondazione ad esso dedicata, con una propria sede, magari da ottenere con finanziamenti pubblici, e proprio nella città dove è nato. Perché Alchimia non avrebbe potuto nascere che a Milano, la città dove al principio dello stesso secolo, il secolo breve, era nato il Futurismo. Come il Futurismo, anche Alchimia è stato un movimento e non una corrente artistica, un movimento con tanto di manifesto programmatico. Come il Futurismo, anche Alchimia ha abbracciato tutte le arti. Se è dal seno futurista che è nata la prima scintilla del design italiano, con Giacomo Balla, Fortunato Depero e Gerardo Dottori, è toccato ad Alchimia interrogarsi se non fosse ormai giunto il tempo di scrivere la parola fine a quell’esperienza, peraltro gloriosa, che è stato il Good Design italiano, spronando a sondare nuovi modi e nuovi terreni di creatività.
Ecco ancora dal suo Manifesto:
Per Alchimia vale la despecializzazione, ovvero l'ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione "confusi", dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali.
Per Alchimia vale il concetto di "variazione".
Sembra scritto per l’oggi.
E allora “meditiamo a lungo”, come ci ha suggerito di fare Alessandro Guerriero, ma gioiosamente.