MANN: novità da Pompei
Dal 30 giugno scorso, al MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, c'è un nuovo allestimento, intitolato Domus. Gli arredi di Pompei, in cui si possono ammirare alcuni oggetti che facevano parte della vita quotidiana della città sepolta dalla lava del Vesuvio, nell’eruzione del 79 d.C., oggetti che sono sopravvissuti alla distruzione del vulcano. Si tratta, prevalentemente, di manufatti in bronzo, lega che ha resistito al fuoco e alle elevate temperature, qualcuno è in marmo, altri in terracotta, c'è persino qualche affresco, ma è il bronzo a fare la parte del leone.
Ospitato nelle sale del secondo piano, è stato curato da Massimo Osanna, Andrea Milanese e Ruggiero Ferrajoli, con la collaborazione di Luana Toniolo.
“Con questo nuovo allestimento restituiamo centralità al racconto dell’abitare antico – ha dichiarato il Direttore generale Musei, Massimo Osanna – offrendo ai pubblici l’opportunità di entrare nelle domus pompeiane con uno sguardo rinnovato. Oggetti a lungo custoditi nei depositi, molti dei quali restaurati per l’occasione, tornano visibili e assumono nuova voce, raccontando storie di quotidianità, di gusto e di rappresentazione. È un percorso che unisce ricerca, tutela e valorizzazione, per rendere il museo sempre più un luogo vivo, capace di accogliere e coinvolgere”.
Insieme a quello di Atene, di Il Cairo, di Istanbul e a quelli di Roma, il MANN è senza ombra di dubbio uno dei musei archeologici più ‘autentici’ e più ‘onesti’ del mondo (oltre che uno tra i più belli). E lo è, lo sono, per l’autoctonia di ciascun pezzo esposto, tutti rinvenuti in loco, nessuno ‘trafugato’, acquistato o, peggio, di contrabbando da altri territori, da altre civiltà, come è deprecabilmente successo nei musei di Berlino, di Londra, di New York, di Philadelphia, etc. Ciascun reperto esposto, o conservato nei depositi del MANN proviene da siti campani, o comunque italici.
Qualche anno fa, in una delle giornate del FAI, ho avuto la fortuna di poter visitare i suoi immensi depositi: 6200 metri quadrati in cui si custodiscono più di ventimila reperti. La maggior parte si trova in un luogo sotterraneo, costituito da grandi vani coperti da volte a botte. All’ultimo piano del museo, poi, a cui si accede da una passerella sul tetto, si trova un lungo corridoio chiamato SING SING come il carcere di New York (definizione coniata da Giuseppe Maggi, che ha diretto il museo negli anni settanta, insieme agli scavi di Ercolano e Oplonti). Questo soprannome vuole simboleggiare la segregazione a cui sono sottoposte le collezioni, non esponibili al pubblico per mancanza di spazio e di personale, ma, soprattutto, per scarsità di fondi per il loro restauro. Ai lati del corridoio di Sing Sing si aprono camere chiuse da grate attraverso le quali si possono intravvedere degli enormi scaffali che vanno da terra a soffitto, ricolmi di oggetti di uso quotidiano, tutti recuperati negli scavi delle città sepolte dall’eruzione del Vesuvio (video). È da qui che provengono quelli inseriti nel nuovo percorso del museo.

Nel nuovo allestimento si possono ammirare arredi, quali sedute, sgabelli, panche, tavoli, monopodi, letti, ma anche oggetti funzionali, bracieri, lucerne, scaldavivande, candelabri, tazze e piccoli rilievi che ornavano le suppellettili domestiche.
Insieme alla conoscenza che offrono della quotidianità dei Romani, ciò che stupisce è la assoluta modernità di forme di alcuni di questi arredi, che non soltanto hanno influenzato il gusto europeo fra il XVIII e il XIX secolo, ma bagnano il naso anche a quelli di oggi.
Taluni di essi, infatti, avevano già raggiunto, quasi duemila anni prima della sua nascita, quei principi di essenzialità formale e di funzionalità tecnica che il design ha perseguito e in certi casi ancora persegue (ovviamente, serialità esclusa). Ad esempio, c’è un magnifico tavolino pieghevole in bronzo che colpisce per l’essenzialità della sua forma, per l’ingegnosità del suo meccanismo e per il minimalismo delle sue decorazioni che ne fanno un oggetto di sorprendente attualità.
Stupisce poi la modernità di taluni motivi che ornano certi arredi: la sinuosa eleganza di alcuni racemi che formano la greca ageminata in rame, stagno e ottone, di un grande braciere pare essere l’antesignana di quel gusto decorativo che secoli e secoli dopo contraddistinguerà lo stile Liberty.
Ma anche lo zoomorfismo di certi piedi di tavoli, di sedute e di bracieri (quanti quelli a zampa di leone! Quella fiera africana doveva aver davvero colpito la fantasia degli artigiani romani), fanno pensare al gusto surrealista che animerà le opere di Meret Oppenheim, ai suoi famosi tavolini con le zampette di gallina.
C'è poi un gigantesco scaldavivande cilindrico, con piedini a zampe artigliate e maniglioni laterali a forma di mani umane stilizzate che sembra l’antenato di un’opera di Alessandro Mendini.
Per non parlare poi di un curiosissimo tavolo che, per la contaminazione linguistica che lo contraddistingue, fa pensare a un lavoro di Ettore Sottsass oppure dello Studio Alchimia: un ossimoro figurativo di antico postmoderno.
Si tratta di un tavolo composito realizzato non oltre il 1870 con piano a mosaico coevo su 4 piedi marmorei antichi provenienti dalla Casa del Fauno di Pompei. Il motivo decorativo del piano è stato ripreso da alcuni pavimenti a mosaico della medesima domus. E come non riandare con la mente ai patterns dei laminati che Abet ha realizzato per Memphis negli anni settanta del novecento?


Sono ‘evase’ dal Sing Sing e approdate in mostra anche due grandi panche in marmo di Carrara realizzate nel 1870 su iniziativa di Giuseppe Fiorelli, allora direttore del Museo e degli Scavi di Pompei, ispirate a un originale pompeiano con piede a forma di grifo, anch’esso esposto. Per il riposo dei visitatori esse sono tornate ad arredare la cosiddetta Sala dei Grifi restituendo così senso al nome che da esse le deriva.
Vi si può anche ammirare una copia del Narciso di Vincenzo Gemito (il cui originale è nella sala 91), artista che si è ispirato ai bronzi romani conservati qui, nel museo della sua città.

Attualmente le sale dedicate alla Villa dei Papiri sono interessate dai lavori di riallestimento che speriamo di poter ammirare presto, mentre quelle dedicate agli affreschi di Pompei sono state recentemente dotate di una nuova illuminazione che rende meglio fruibili questi straordinari capolavori della pittura antica.
Di novità in novità.
È poi sempre un’esperienza emozionante rivedere, all’ingresso del museo, in ouverture della sezione dedicata alla Campania Romana, la monumentale Quadriga di Ercolano (bronzo, tra il 14 e il 68 d.C.), che, rinvenuta nel 1739, è stata qui ricomposta per la prima volta nel 2023, quand’era direttore Paolo Giulierini. Vi si ammira il Cavallo Mazzocchi, così detto dall’iscrizione presente sulla sua base (Alessio Simmaco Mazzocchi 1684/1771, fu un archeologo capuano). La composizione della quadriga è analoga ai molti esempi di quadrighe trionfali che ci ha restituito l’arte romana di età imperiale. Era formata da un tiro a quattro cavalli e da un carro di forma semiovale su cui era collocata la statua del trionfatore (ferve la ricerca dei suoi frammenti nei depositi per poterla ricostruire). La cassa del carro era decorata da grandi figure bronzee ad altorilievo, applicate alle sue sponde (quelle sopravvissute alla furia del vulcano si possono ammirare in mostra) che, ispirate a tipi statuari tardo-classici ed ellenistici, celebravano divinità e forse anche membri della famiglia imperiale giulio-claudia. (In questo video la genesi della sua ricostruzione). La ricostruzione è stata resa possibile sia dalla revisione dei dati archeologici che grazie alle moderne tecnologie.
Il MANN, insomma, non è mai ripetitivo, riserva sorprese ad ogni nuova visita, e ci insegna che nulla è più giovane di ciò che è antico, come si può dedurre anche dalla modernità di alcuni degli arredi di Pompei.
