Annie Ernaux: metafisica di una foto
Ogni fotografia cattura un’assenza – l’attimo fuggito – e dunque conserva una traccia, un sedimento di tempo, simile a sabbia in una clessidra. L’esperimento letterario proposto da Annie Ernaux in L’uso della foto (L’orma editore, 2025, traduzione di Lorenzo Flabbi) va al di là del puro esercizio di scrittura o del vezzo artistico e propone un’indagine interrogativa, affilata, sul legame tra memoria e morte.
Il corpo, nelle quattordici fotografie che assemblano il testo, è presente proprio nella sua sparizione: vengono mostrati i vestiti sgualciti degli amanti, le loro scarpe slacciate e abbandonate, le stanze vuote che appena poche ore prima sono state teatro della passione. La foto, il ritratto muto della composizione dei vestiti che ricorda una contemporanea natura morta, diventa così un pretesto per innescare la scrittura autobiografica: Ernaux riflette sull’immagine per andare oltre l’immagine. Nell’apparente paradosso è racchiusa la metafisica della foto, ovvero la capacità di superare la realtà visibile e svelare un mistero che attinge all’ambito più profondo e segreto della percezione umana.
Il libro appare oggi in Italia a vent’anni di distanza dalla prima edizione francese: L’usage de la photo fu scritto a quattro mani nel 2005 da Annie Ernaux insieme a Marc Marie, suo compagno di allora, e si proponeva come tentativo di ricostruire attraverso le fotografie la complessità di una relazione amorosa, dando origine così a una narrazione sdoppiata, a due voci, in cui ciascun narratore aveva il compito di svolgere la propria personale ecfrasi della stessa immagine. Tra le righe un patto tacito: nessuno dei due avrebbe potuto leggere il testo dell’altro finché l’esperimento non fosse concluso.
Gli scatti nascono quindi come gioco tra gli amanti: l’idea di fotografare i vestiti gettati a terra alla rinfusa dopo l’amore, di immortalare il paesaggio nato dal desiderio e dal caso «in seguito, tacitamente, come se fare l’amore non bastasse, come se fosse necessario conservarne una rappresentazione materiale, abbiamo continuato a scattare foto», ma presto le immagini diventano ben altro, perché in esse è presente anche un’intrusa, invadente e sgradita quanto invisibile, ovvero la malattia.
Mentre scrive L’usage de la photo Annie Ernaux è in cura per un cancro al seno e l’ipotesi della morte è una costante che rende, di fatto, ancor più necessaria la vitalità dell’amore: lo scontro tra eros e thanatos è il vero cuore pulsante del libro, la spinta segreta che anima, concatenandoli, immagini e testo e, infine, esalta la funzione primigenia dell’arte, ovvero «sopravvivere», «salvare».
In queste pagine si avverte tutta l’incoscienza e la ferocia di due scritture che si intersecano. La lotta contro la morte si sublima nell’amore, la malattia si fa metafora, l’orrore dell’oblio si combatte con un fermo immagine. Fotografia è, innanzitutto, memoria – e ne L’usage de la photo si fa anche prova oggettiva del desiderio, cogliendo le tracce materiali della passione, in una sorta di esperimento performativo.
L’intera opera è pervasa dalla consapevolezza dell’autrice della propria possibile morte imminente – e davvero Ernaux raggiunge il vertice nelle riflessioni in cui pone la morte in rapporto alla vita: «Quel che davvero mi importa è la scomparsa del pensiero. Mi è capitato più volte di dirmi che se il mio pensiero potesse continuare altrove, morire mi sarebbe indifferente».
La scrittura si fa quindi àncora, strumento di difesa e sinonimo estremo di resistenza, «quando scrivevo dimenticavo che potevo morire» riflette, appena prima di giungere, in una delle pagine più belle, a una conclusione di rara intensità: «L’arte è il non sapere cos’è il nulla (…), l’ombra del nulla non aleggia sulla scrittura, anche quella più arrendevole alla bellezza del mondo». Annie Ernaux scrive per vivere.
Fotografando i vestiti sparsi a terra, gusci vuoti e privati della sua persona, Ernaux sembra voler alludere anche al presentimento della scomparsa del suo corpo. Per questo motivo il critico giapponese Kawakami suggerisce di leggere L’Usage de la Photo come «proof of life», per cui la fotografia viene utilizzata per mostrare una presenza a metà, come accade alle vittime di rapimenti quando viene fatta recapitare una prova per attestare che l’ostaggio è ancora in vita. L’uso della foto dunque intreccia un legame profondo con la prospettiva della morte e dell’oblio, ma contiene anche il racconto esplicito di un amore passionale. Il libro infatti si apre con una scena volutamente provocatoria – come spesso accade in Ernaux, a partire dal suo esordio, Gli armadi vuoti, in cui raccontava un aborto con una forza incisiva mostrando la sonda insanguinata che usciva dal corpo di una ragazza. In questo caso, invece, l’autrice descrive il sesso in erezione del suo amante, riprendendo di fatto un tema già presente nella sua scrittura, ovvero la «sospensione di giudizio morale» che da sempre richiede ai propri lettori. L’intento di Ernaux non è scandalizzare, ma dire l’indicibile, raccontare l’inaudito della passione e del desiderio anche (e soprattutto) dal punto di vista femminile. Con sagacia nelle prime pagine l’autrice associa la descrizione del membro maschile al celebre quadro di Courbet, L’origine del mondo, in cui è raffigurato in primo piano un sesso di donna: così facendo ribalta lo sguardo, offrendo una nuova prospettiva di emancipazione, dicendo di fatto che anche una donna può ritrarre le parti intime di un uomo e farne arte.
Come già accadeva in Passione semplice (1991), anche in queste pagine Ernaux racconta l’irrazionalità della passione, ma lo fa in maniera più calcolata, calibrata, meno smarrita: e soprattutto, non è sola, perché la vera novità di L’uso della foto è l’ingresso di una seconda voce. La narrazione parallela di Marc Marie dona un nuovo livello di realtà alla scrittura e mostra la forza – talvolta oppositiva, talvolta consolatoria – di un altro punto di vista, permettendo una maggiore analisi del rapporto a due. Le pagine mostrano «un atto di scrittura al tempo stesso unito e disgiunto» e così si fanno specchio riflesso di due alterità, di una distanza ineludibile che esiste oltre l’unione dei corpi. Ancora una volta, come in Passione semplice, l’autrice istituisce un legame implicito tra atto sessuale e scrittura: «Aprire il proprio spazio di scrittura è più violento che aprire il proprio sesso all’altro».

Il testo di L’usage de la photo si origina dalla tecnica dell’ecfrasi – ovvero la descrizione in prosa dell’immagine – ma si sviluppa soprattutto come un dialogo e, infine, si fa suo malgrado testimone dell’inizio e della fine dell’amore.
Quando inizia a scrivere Annie Ernaux è una donna malata, ma innamorata – al termine dell’esperimento letterario lei è guarita, però la relazione è ormai agonizzante, prossima alla conclusione, c’è stato uno scarto che si rivela anzitutto nella percezione: «Ma mi pare che ora non guardiamo più nello stesso modo lo spettacolo che scopriamo (…) Fotografare non è più l’ultimo gesto. Fa parte ormai della nostra impresa di scrittura. Una forma di innocenza è ormai perduta».
L’uso della foto, come tutte le opere di Annie Ernaux, presenta diversi livelli di narrazione: è una storia d’amore, il racconto della malattia come metafora, una dissertazione sulla fotografia, infine è un album fotografico in prosa che si fa tramite di un processo di guarigione. «Ho pensato» conclude l’autrice «che forse non avrò più l’occasione di sentire con tanta forza, e nello stesso tempo, che sono mortale e che sono viva».
Si tratta di un libro imprescindibile anche per la sua capacità di mostrarci il processo creativo di Ernaux, poiché L’usage de la photo anticipa una tecnica narrativa che sarà alla base del suo romanzo capolavoro Gli anni (2008) in cui l’immagine fotografica diventa funzionale allo svolgersi della narrazione, scandendo una distanza tra il tempo della vita e il tempo della memoria. La riflessione sulla fotografia è cruciale in Ernaux proprio perché non separabile dal suo procedimento intellettuale, di fatto viene conferita a entrambe – fotografia e scrittura – la stessa funzione: cogliere istantaneamente il reale e imprimerlo in maniera indelebile sulla carta, come sulla pellicola.
Già in Diario della periferia (1994), Ernaux scriveva: «Ho cercato di praticare una sorta di scrittura fotografica del reale, in cui le esistenze rappresentate conservassero la loro opacità e il loro mistero». L’uso della foto rappresenta la sublimazione di questo intento in una nuova narrazione sperimentale e, parallelamente, è un libro che apre un varco poiché per la prima volta intreccia quel legame tra fotografia e morte, tra memoria e oblio, che sarà centrale in Gli anni, a partire da quell’incipit perfetto che comprende in sé tutte le possibili rappresentazioni del reale e, al contempo, tutte le annulla: «Tutte le immagini spariranno». Dichiarazione in apparenza paradossale in una narrazione in cui foto e immagini occupano tanto spazio, ma che di fatto anticipa la sintesi estrema del «tempo perduto» che in Ernaux, a differenza di Proust, non è individuale ma collettivo.
Nella conclusione di L’uso della foto Annie Ernaux fa riferimento a una «doppia fascinazione» che, come autrice, ha sempre avuto: per la fotografia e per le tracce materiali della presenza, dunque istituisce quell’equazione perfetta (fotografia uguale tempo) che è alla base della sua stessa operazione narrativa «fascinazione che è più che mai, per me, quella del tempo».
Il sentimento del tempo è il vero tema di tutte le opere di Ernaux e in questo libro appare più palpabile che mai: nei vestiti fotografati dai due amanti si coglie lo scorrere delle stagioni e la loro variabilità climatica, dai maglioni invernali agli abiti leggeri; nella datazione delle immagini emerge il tentativo di fissare un giorno, una data, sottraendoli così nella propria irrepetibilità allo scorrere inesorabile degli anni; l’impulso che muove lo scatto è, in definitiva, lo stesso della scrittura: «salvare».
L’identità espressa da Annie Ernaux attraverso la sua auto-socio-biografia è il più audace riflesso dell’io contemporaneo, sembra essere un prodotto della Postmodernità, soprattutto oggi che il discorso appare improvvisamente amplificato dai social network in cui vige il primato dell’immagine.
In un passaggio centrale di L’uso della foto, l’autrice scrive: «Ho sempre pensato che si potrebbe raccontare la propria intera esistenza soltanto con canzoni e fotografie» anticipando, nel lontano 2005, l’avvento di Instagram. In questo senso si potrebbe notare uno stretto legame tra la scrittura di Ernaux e le nuove forme narrative digitali della contemporaneità. Il tempo in cui l’autrice scrive, i primi anni duemila, è ancora analogico e questo modifica e denota la struttura stessa del testo. Come nota nel suo saggio, Il fototesto autobiografico. Narrazione ed esperienza del sé in Annie Ernaux e Michele Mari (Carocci, 2025), Roberta Coglitore: «La tecnologia non è affatto un elemento secondario. Che le fotografie vengano scattate con un apparecchio analogico e non digitale, non soltanto produce uno scandire del tempo e un rito di condivisione tra i due amanti, ma utilizza una tecnica e pratica ormai desueta, come lo sviluppo di una foto analogica, che allude metaforicamente alla sparizione e alla morte».

Lo spettro dell’oblio infatti incombe in ogni pagina. «Ogni foto è metafisica» avverte Ernaux, affermando che la fotografia rappresenta un varco attraverso il quale si intravede «la luce fissa del tempo, del nulla». E poi di contro, in Gli anni, scrive quella frase lapidaria che si preannuncia come un avvertimento: «Tutte le immagini spariranno», dunque qual è la loro funzione, il loro ruolo?
In L’uso della foto ciascuno scatto riflette un corpo a corpo con la morte e la riprova che l’unica salvezza possibile è custodita nella memoria. La fotografia registra sempre un’assenza, l’attimo appena trascorso e per sempre perduto, dunque mostra spietatamente un passato inafferrabile, scandendo una distanza netta, che solo la scrittura risana.
Annie Ernaux, nelle ultime battute di questo libro sperimentale e indefinibile, pone in evidenza ciò che lei chiama il «paradosso della foto», mostrando come «questa foto, nelle intenzioni era stata scattata per conferire più realtà al nostro amore, ma di fatto lo derealizza». Ecco, è stato scritto vent’anni fa eppure appare profetico, come un monito rivolto al presente, l’invito a non farsi sovrastare dalle immagini e corrompere dall’estetica. Dove domina l’apparenza la prerogativa è conservare il senso che, di fatto, è il più alto grado di realtà. Perché, come rivela Ernaux nel dirompente finale, la foto più importante non è stata scattata.
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