Édouard Levé: autoritratto in parole

21 Maggio 2025

Alla fine cosa resta della vita di un uomo? Ogni volta che si menziona lo scrittore francese Édouard Levé si parla della sua morte: «suicidio», che è anche il titolo del suo ultimo libro, consegnato all’editore appena tre giorni prima di togliersi la vita nel proprio appartamento di Parigi. Una coincidenza voluta: prima di impiccarsi, nell’ottobre del 2007, Levé scrisse una lettera in cui ribadiva il desiderio che la sua opera fosse pubblicata. L’estrema aderenza tra vita e letteratura annichilisce e, negli anni, oltre ad alimentare curiosità e pettegolezzi ha avviato un vivace dibattito critico. La pubblicazione del libro, in Francia, fu preceduta da grande clamore e da una sorta di psicosi collettiva, poiché si temeva che il testo potesse istigare i giovani, o i più vulnerabili, al suicidio. Non accadde.

L’ultimo atto è sufficiente a ribaltare l’intera biografia: quando si nomina Édouard Levé si parte dalla sua morte e si tende a tornare indietro nel tempo per spiegarla. Eppure, in fondo, era già tutto scritto: vita e arte si fondono e diventano un tutt’uno nelle pagine dell’autore francese, si amalgamano in un modo vivido e brutale, sino a risucchiare il lettore in un vortice.

In Suicidio, edito in Italia da Bompiani nel novembre 2008 nella traduzione di Sergio Claudio Perroni, non era della propria morte che Levé parlava, ma della morte di un amico ventenne che si era tolto la vita all’improvviso, quindici anni prima. Il libro è scritto tutto con il «tu», seconda persona singolare, i tempi verbali sono spesso coniugati all’imperfetto «eri, facevi, pensavi». Non è un libro drammatico, ma armonioso nella sua brevità: in un centinaio di pagine viene riassunta la vita di un uomo, tentando di spiegarne il finale assurdo, l’epilogo feroce dato da un colpo di fucile sparato in bocca in un assolato pomeriggio d’agosto. Non c’è alcuna profezia nel testo di Suicidio, nulla che anticipi o lasci immaginare le intenzioni dello stesso autore. Nessuna comunità di intenti; anzi, il romanzo è scritto come una lettera affettuosa, quasi un’alternativa amichevole alla solennità sterile dell’orazione funebre. Emerge il ritratto di un giovane uomo taciturno e solitario, ma dalla vita piena: aveva una moglie e degli amici, era dotato di un’indole creativa e artistica. Non lasciò nessun biglietto d’addio, solo alcune pagine sottolineate di un fumetto. Aveva soltanto venticinque anni.

Esplorando il mistero più segreto della morte in Suicidio Édouard Levé ricostruiva l’anagramma di una vita e, alla fine, era a sé stesso che parlava: quel «tu», ripetuto e reiterato, a posteriori può essere letto anche come il suo doppio. «Te ne sei andato giovane, vivo, sano» scrive Levé «la tua morte è stata la morte della vita. Eppure mi piace che tu incarni il contrario: la vita della morte». Lo stesso si potrebbe dire di lui. Nella morte dell’amico che l’autore ergeva a opera d’arte: «Scomparendo ti sei perpetuato in una bellezza negativa» il quarantenne Édouard si rifletteva, come in uno specchio, riproponendo al lettore le stesse domande senza risposta che lo assillavano: perché è morto? Cos’è la morte? Esiste vita dopo la morte?

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Il suicidio dello stesso autore sembra essere il finale definitivo del libro, estendendo l’opera oltre la pagina Levé costringeva il lettore a confrontarsi con la stessa angoscia “perché è morto?” compiendo così un «atto letterario assoluto», come fu definitivo da alcuni critici.

Suicidio riportava il titolo di un atto di morte, eppure era della vita che parlava, meditava sul trionfo dell’esistenza opponendolo all’ignoto: per comprendere meglio l’enigma di Édouard Levé tuttavia non bisogna fossilizzarsi su quest’ultimo libro, c’è anche un’altra opera, ben più significativa da analizzare. Si intitola Autoritratto (Autoportrait) e fu edita in Francia per la prima volta nel 2005, e viene ora riproposta in Italia da Quodlibet nella traduzione di Martina Cardelli. Un romanzo breve, che non somiglia a nessuno e ci rivela appieno la genialità artistica (e astratta) di Édouard Levé che era anche fotografo concettuale di fama – e non solo scrittore. Autoritratto, un titolo che sembra rubato all’arte e in essa si identifica poiché rende il creatore dell’opera soggetto assoluto, come autore e come oggetto di rappresentazione. Se i pittori nell’antichità ambivano a ritrarsi, pennellata dopo pennellata, sino a rubarsi l’anima attraverso il dipinto ecco che invece Levé sovverte l’idea stessa di identità esprimendola a parole e portando quindi all’estremo il concetto di autobiografia. La descrizione fisica è accantonata, a favore di quella psichica. L’intero libro è una descrizione di sé stesso mediante una sequenza infinita di pensieri, riflessioni, ricordi, apparentemente disconnessi tra loro eppure, a una lettura più attenta, concatenati da intime associazioni e risonanze.   

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Più che leggere un romanzo sembra di guardare un’opera d’arte astratta, c’è qualcosa che imperiosamente ci richiama all’interpretazione: ognuno alla fine in quel grumo di colore (o di parole) vede qualcosa di sé. Gli occhi scorrono le parole sulla carta, una dopo l’altra, una dopo l’altra, in una catena ininterrotta: ma, ecco, sono subito pronti fermarsi – e rileggere – il sintagma o la frase che annienta ogni distanza tra io narrante e lettore. Si potrebbe provare a leggere Autoritratto in una maniera singolare, ovvero sottolineando in una pagina – o in più pagine – tutti i gesti, le espressioni o i pensieri nei quali ci si riconosce: il risultato potrebbe essere sorprendente, poiché amplifica il passaggio immediato dall’individuale all’universale e quindi la porzione comune di autobiografia. Nell’esperimento narrativo di Édouard Levé si ritrova un nuovo modo di intendere il discorso letterario, che non è poi molto diverso dall’intento auto-socio-biografico di Annie Ernaux magnificamente espresso nel suo libro-capolavoro Gli anni (2008) in cui l’autobiografia si estende a livello collettivo attraverso il «noi». L’uso della prima persona di Levé, che scrive un libro sull’io senza mai dire «io», attinge allo stesso livello di astrattismo di Ernaux, realizzando un romanzo senza trama in cui la sottile tela di impressioni-sensazioni-immagini si infittisce sino a intrappolare il lettore nel proprio bozzolo. Leggendo Autoritratto siamo tutti Édouard Levé, anche se non l’abbiamo mai conosciuto; eppure scopriamo di avere qualcosa in comune con lui, che la sua pienezza di vita è anche la nostra. «Tutte le immagini scompariranno» annunciava Ernaux al principio di Gli anni, scrivendo di fatto un libro in cui la componente visuale – e fotografica – assume un ruolo preponderante; invece Levé, da artista concettuale, decide di compiere l’operazione opposta, ovvero svuotare le immagini di ogni specificità sino a racchiudere la propria stessa vita in 1500 frasi isolate e autodescrittive. Un autoritratto in parole, dunque. La geniale autobiografia di Édouard Levé è il vero capolavoro dello scrittore francese, troppo spesso ignorata a causa del clamore suscitato dal suo ultimo libro. Levé riesce a scrivere un centinaio di pagine parlando soltanto di sé stesso, eppure dando al lettore l’illusione che stia parlando anche di lui, così facendo trasforma il libro in uno specchio in cui ciascuno può guardarsi e spiare, di nascosto, anche i propri difetti o manie più inconfessabili. Le impressioni si sovrappongono senza posa, annullando il concetto di tempo, perché nella nostra mente il tempo non esiste, o meglio, è reversibile: Édouard è al contempo adulto e bambino, pensa contemporaneamente al presente-passato-futuro e scrive «Non sapevo cosa rispondere quando un adulto mi diceva: “Hai visto l’asino che vola?”» e ancora «Dimentico ciò che non mi piace» o ancora «Le sconfitte degli altri mi rattristano più delle mie». Frasi di una solennità inattesa si alternano a riflessioni poetiche: «Ripenso al dolore delle storie che non ebbero luogo. L’autostrada mi annoia, non c’è vita ai suoi lati. Lungo l’autostrada i paesaggi sono troppo lontani perché l’immaginazione possa farli vivere».

È impossibile mettere un punto a questo libro, potrebbe estendersi all’infinito come un orizzonte aperto che ingloba la vita di ogni essere umano. Se dovessimo trovare un precedente o un modello ispiratore si potrebbe pensare alla narrativa di Georges Perec, di cui Levé era lettore assiduo. In Mi ricordo Perec componeva un’autobiografia per frammenti che richiama la scrittura di Autoritratto. È un testo che di riga in riga si amplifica sino a formare un tessuto connettivo (e collettivo) che ci rende tutti partecipi di una narrazione più grande. Il testo è un fiume straripante che trascina il lettore sino al finale; in questo senso ricorda anche Foglie d’erba di Walt Whitman (1855) che attraverso la parola poetica annullava ogni confine tra «io» e «mondo» teorizzando che ogni essere umano contiene moltitudini. «Sono vasto, contengo moltitudini» sosteneva Whitman, cantore della modernità, annullando di fatto ogni contraddizione possibile nel suo eterno nomadismo esistenziale: attraverso il «canto di me stesso» componeva un ardito autoritratto poetico che non si poneva alcun limite o freno. Quella di Whitman era un’opera rivoluzionaria capace di trascinare il lettore in una vertigine dei sensi, senza tralasciare particolari scomodi o dettagli legati alla vita erotica-sessuale. Leggendo i versi dell’autore americano si ha l’impressione che la poesia continui ancora, che si estenda proprio attraverso l’apporto del singolo lettore: ecco, lo stesso si potrebbe dire del geniale Autoritratto di Édouard Levé.

Scriveva Whitman:

«Così qualcuno scriverà la mia vita, quando io sarò morto.
(Come se un altro potesse veramente conoscerne qualcosa,
se perfino io penso spesso che ne so poco o niente)».

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Self-Portrait, Berthe Morisot.

I versi di Walt Whitman sembrano metterci in guardia sul fatto che non possiamo spiegare la vita di un uomo a posteriori; eppure è proprio quanto critici, lettori, curiosi oggi si ostinano a fare con l’esistenza di Édouard Levé, ovvero ridurre la vita di un uomo a un unico libro o, addirittura, alla sua fine. In Autoritratto Levé smentisce ogni interpretazione, poiché presenta impressioni diverse e contradditorie e compone un testo magmatico e in continuo divenire che dimostra l’essenza stessa dell’umano: la metamorfosi. Essere umani è contenere «moltitudini» e ogni altro tentativo di definizione è parziale o fallace. Autoritratto non è un presagio, né un testamento, sebbene la parola «suicidio» appaia già nella seconda riga: ma non vuole essere un avvertimento, né un monito, chi ancora cerca di rintracciare la ragione, o il macabro segreto, sbaglia. I libri non sono profezie, non possono essere letti come un vaticinio nel tentativo di afferrare il futuro – o spiegare l’ignoto.

L’incipit di Autoritratto è fulminante ed esplicitamente letterario, perché ci rivela che tra la vita e la morte c’è un’infinita voragine di senso, ancora tutta da indagare:

«Da adolescente pensavo che La vita istruzioni per l’uso mi avrebbe aiutato a vivere e Suicidio, istruzioni per l’uso a morire».

Letteratura e vita, di nuovo, ostentato citazionismo: La vita istruzioni per l’uso è un romanzo di Georges Perec del 1978; mentre Suicidio, istruzioni per l’uso è un saggio di Claude Guillon e Yves le Bonniec del 1982 che alla sua uscita vendette oltre 100.000 copie e fu tradotto in sette lingue.

Ci ostiniamo a ridurlo alla sua morte, ma Édouard Levé parlava, ostinatamente, della vita in ogni sua sfaccettatura e riverbero. Non possiamo riassumere la sua autobiografia in poche frasi, perché è totale, assoluta, straripante, proprio come l’esistenza di ogni individuo. Siamo, noi tutti, un coacervo di sensazioni, impressioni, abitudini, impulsi vitali e distruttivi, al contempo chiari e sfuggenti come un riflesso di luce sull’acqua.

Riflettendo, a lettura conclusa, colpisce in particolare questo distico che abbaglia come un raggio di sole negli occhi in un giorno di piena estate:

«Guardo sempre nei vicoli ciechi. Quel che c’è alla fine della vita non mi spaventa».

Dunque, alla fine cosa resta? Tutto quello che è un uomo.

In copertina, The Suicide, Jean Louis Forain.

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