Bambini filosofi

4 Aprile 2024

A un certo punto del film di Yorgos Lanthimos Povere creature! ci troviamo insieme alla protagonista, Bella, e all’avvocato Duncan Wedderburn, nella camera da letto di entrambi: Bella è una giovane donna alla quale un prestigioso chirurgo ha impiantato il cervello neonato del proprio feto, mentre Duncan è un donnaiolo che si è innamorato di lei. E ora i due sono fuggiti insieme e si divertono parecchio, specialmente a letto, dove lui insegna a lei come si fa a ricevere e a provocare piacere. Bella, che è decisamente bella e disinibita, è pure stralunata, perché in virtù del trapianto, nonostante il corpo maturo, sembra essere appena atterrata sul nostro Pianeta, e così fa morire dal ridere il dottore chiamando ciò che fanno insieme: «furiosi sobbalzi». Se è vero che ciò che muove la risata è un inciampo, un dislivello, l’irrompere dell’inaspettato, «furiosi sobbalzi» fa ridere molto perché mostra la realtà del sesso sotto un altro aspetto, nuovo: è una descrizione esatta, ma anticonvenzionale. Un sommario colorito che però conserva al suo interno l’oggettività di una nota etnografica: di fatto Bella si limita a dire ciò che è, sfilando dalla realtà dell’amplesso poesia e romanticismo, per restituire l’azione sessuale nella forma di una purezza bizzarra. Per un alieno quelli non sono altro che «furiosi sobbalzi».

Il tutto fa ancora più impressione, se si immagina che a dirlo non sia una bambina, eppure lo è: chi guarda il film sa che il cervello di Bella è un cervello in età prescolare e che solo a poco a poco sta evolvendo, in maniera tanto più veloce quanto più la giovane donna inizia a parlare con persone al di fuori della sua cerchia familiare e a leggere voracemente i libri che le passa una divertita vecchietta conosciuta in crociera. I bambini fanno ridere. Per il dottor Wedderburn il giardino delle delizie è doppio, da una parte l’aspetto e il corpo desiderabile di Bella, dall’altro la sua meraviglia costitutiva, quella di chi ha ancora tutto da imparare. E per farlo, per darsi una prima rappresentazione del mondo, il cervello di Bella è libero nel suo andare, si permette di associare liberamente pensieri e immagini e parole che gli altri, gli adulti, quelli abituati a sapere “come vanno le cose” non sono più in grado di vedere. È un cervello, il suo, senza pregiudizi. Che sta osservando le cose adesso, qui e ora, come se le cose qui e ora stessero uscendo fuori dal nulla.

Passiamo adesso a tutt’altra bambina, corpo da bambina e mente da bambina, una bambina vera e propria. Briony è la tormentata protagonista di Espiazione, il romanzo di Ian McEwan. Nella lunga e assolata estate che prelude all’azione centrale del libro, cioè la violenza subita in piena notte dalla cuginetta di lei, Briony ha a cuore di mettere in scena uno spettacolo teatrale che coinvolga gli altri minorenni di casa. Ma c’è un momento in cui la cappa stanca del pomeriggio caldissimo ha la meglio, gli attori della compagnia non hanno voglia di provare e Briony si rifugia sconsolata nella stanza dei giochi. È lì che inizia a interrogarsi su come facciano le dita della sua mano a muoversi. E dai ragionamenti che fa, sembra che non sia la prima volta. Dice così:

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«Si portò l’indice vicino alla faccia e prese a fissarlo, ordinandogli di muoversi. Il dito restava fermo, perché lei stava solo fingendo, non faceva sul serio, e perché volerlo muovere, o essere sul punto di muoverlo, non era la stessa cosa che muoverlo per davvero. E quando alla fine lo piegò, il gesto parve partire dal dito stesso, non da un punto ignoto della sua mente. Quando sapeva di doversi muovere? Quand’era che lei lo muoveva? Era impossibile cogliersi di sorpresa. Esistevano soltanto il prima e il dopo». 

Per Briony, che pure dal punto di vista cerebrale è più grandicella di Bella, non c’è niente di ovvio, il mistero del mondo sotto tanti aspetti è ancora perfettamente sigillato: la bambina è testarda soprattutto nell’indagare il principio di causalità, nel farsi domande. Nel risalire di perché in perché la catena delle cause e degli effetti, nel non accontentarsi di una parte, nel pretendere il tutto. Questo genere di testarda curiosità, che non caratterizza soltanto i cuccioli della specie umana ma anche quelli di qualsiasi altra specie, è alla base della sopravvivenza: è la fonte preziosa di un accumulo di sapere che dopo renderà ogni azione più semplice, e più orientata, meno pericolosa. 

Due bambine non esauriscono i bambini del mondo, ma queste due bambine speciali possono esemplificare bene i due sensi in cui siamo tentati di pensare che tutti i bambini siano naturalmente filosofi. La prima ragione è la quantità di domande che si fanno, insieme al dialogo che mettono in atto con gli altri (adulti e bambini) per rispondere, alla fantasia che orienta le risposte, alla facilità con cui si arriva alla soluzione. I bambini assomigliano a Socrate, magari non sanno di non sapere, ma sono felici e autentici nel loro non sapere e non hanno limiti nell’indagare l’universo, perché non danno niente per scontato, proprio come il famoso maestro ateniese che torna a porre le domande sul senso ormai dimenticate dagli uomini.

Il secondo motivo per cui potremmo pensare che i bambini siano dei filosofi fatti e finiti riguarda invece il loro piglio scientifico, il fatto aristotelico che i piccoli non facciano la differenza tra una curiosità e l’altra: non si specializzano, godono di un incanto totale, che riguarda ogni aspetto del mondo, dalla draga che occupa il cantiere fino alla propria cacca, dalla panna montata che gonfia sotto la frusta fino alla morte che accade senza una ragione. Sono disponibili e ghiotti nell’indagine: sono senza scrupoli. 

Ma se fosse vero che i bambini sono filosofi, bisognerebbe chiedersi in che misura Kant, Cartesio, Wittgenstein e Derrida sono bambini. E a capovolgere la questione, ci si accorge che qualcosa non torna: l’equivalenza non funziona. Se immaginiamo di astrarre e isolare il gesto tenerissimo del bambino che smonta, interroga, definisce il mondo, vediamo che l’azione inizia in forma di filosofia e finisce in forma di poesia. Che cosa capita tra l’inizio e la fine? Che cosa sposta Briony e Bella dalla parte di Parmenide a quella di Saffo? 

Ai bambini manca un linguaggio neutrale. Le parole, per la maggior parte di loro, alludono a molte immagini insieme, non sono ancora recinti chiusi, non possono essere pulite e precise, non isolano ma collegano. I bambini, per diventare filosofi, vanno guidati a restringere il campo, a disciplinare i nessi possibili, ad articolare gli argomenti, a costruire una cornice per il loro discorso, a stabilire il passo oltre il quale un ragionamento diventa non solo interessante o geniale, ma anche assurdo, e quindi inservibile. I bambini non sono dei filosofi veri e propri, ma possono diventarlo con facilità, perché amano la condizione di sapere e non si vergognano di quella opposta. Però, al momento, i bambini, mentre sono bambini, ospitano nella propria terra due regni separati da un confine estremamente poroso: da una parte la realtà, dall’altra la fantasia. Vedere tutto come se lo si vedesse per la prima volta li rende spesso dei buoni poeti e dei pessimi filosofi. Se si desidera mostrare loro che cosa accade nella caverna di Platone e come ci si sposta dalle ombre agli oggetti solidi e non opinabili del mondo, come ci si sposta dalla realtà più friabile alla verità più esatta, è necessario fare filosofia con loro. Quella vera.

Nell’introduzione a un bel libro di storie filosofiche per bambini che è uscito qualche tempo fa per Feltrinelli, Perché? Cento storie di filosofi per ragazzi curiosi, Umberto Galimberti sostiene che oggi trasformare i bambini e i ragazzi in filosofi sia una missione della massima importanza. E questa metamorfosi si otterrebbe soprattutto lavorando sui legami tra parole, argomenti e oggetti. Se l’accesso al vasto sapere è sempre più semplice e deregolato, più spontaneo, la filosofia serve a lavorare e a riflettere sulle combinazioni plausibili, smentendo il punto di vista per cui alla fine: “tutto è uguale al contrario di tutto”. Di fronte alla disponibilità estrema e ludica dei bambini, al loro “facciamo finta che”, il compito degli adulti filosofi potrebbe essere quello di dimostrare che è possibile distinguere ciò che funziona da ciò che non funziona, quel che consegue da quel che non può conseguire, affiancando alla produttività dell’accumulo, quella del discernimento e della distinzione. La filosofia può dare ai bambini l’opportunità di scovare dentro di sé un possibile principio critico di organizzazione del pensiero, cioè in pratica può dare loro ciò che serve per approdare a una visione del mondo, e per metterla in relazione con le altre, provando una quota di piacere.

Per compiere questo lavoro filosofico valgono tutti i linguaggi e tutte le strade, a condizione che non sottraggano al bambino la sua flessibilità, lo slancio e la tenerezza che gli è propria.

A differenza di quanto capita con i giovani adulti e con i grandi, per i bambini la strada migliore per apprendere la filosofia non è lo studio della sua storia. Conviene andare dritti alle domande e poi allenarsi a fare ordine. Il teatro è un ottimo modo per riuscirci. Sul palcoscenico è possibile creare l’incanto a tavolino, farlo uguale per tutti, dare voce a domande intime come se fossero collettive, e anche rispondere alle questioni senza paura di sfondare la quarta parete. È proprio il compito dei bambini quello di sfondarla. Forse quello degli adulti è mostrare ai bambini che le verità possono essere tante ma non affondano nell’aria. Ogni verità ha le sue ragioni di terra.

 

Continua a Casa del Teatro Ragazzi e Giovani (Corso Galileo Ferraris 266, Torino) CONVIVIO. Esperienze di crescita e conoscenza. Un ciclo di incontri su filosofia, musica e mito. 

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