L'eccesso del presente

3 Dicembre 2025

Il libro è sottile (una novantina di pagine), ma fitto. Lo firma Tommaso Codignola e si intitola: La civiltà dell’eccesso, sottotitolo: Curare l’anima nell’epoca della quantità (Edizioni di Storia e Letteratura).

Il saggio erompe dalla premessa che oggi, nonostante esista nel nostro mondo – “occidentale” è una parola che non viene usata, ma forse sarebbe utile a perimetrare il discorso o a dargli una dimensione diversa – un’attenzione inedita per i diritti degli individui, poi però siamo tutti sempre più stanchi, arrabbiati, delusi. L’immagine alla quale è affidato il compito di sciogliere la sentenza è quella di una strada qualunque, a un semaforo qualunque, dove puntualmente qualcuno insiste sul clacson alla minima esitazione dell’automobilista di fronte, anche se è domenica, anche se deve solo andare al bar. Come mai? Perché a parole siamo sempre più attenti alla tutela del nostro benessere, eppure siamo così suscettibili?

La prima parte del libro sostiene la tesi del titolo: da Goethe fino a Obama (leggere per credere!) si mette a fuoco nel tempo una diagnosi ricorrente e sempre più precisa del contemporaneo male di vivere, che è un disagio da eccesso. Sapere di più e più rapidamente è un vantaggio fintantoché c’è il tempo per digerire il materiale mondano, quando invece informazioni, emozioni, dati che ci arrivano da fuori non hanno il tempo di consolidarsi o combinarsi dentro di noi, e quindi non possono diventare qualcos’altro (opinioni, esperienze, narrazioni, creazioni), ecco che il nostro sistema del piacere va in tilt. Tutto ciò che non riusciamo a metabolizzare, anziché renderci più maturi, riflessivi, colti di per sé, per il fatto che lo riceviamo, si trasforma genericamente in intrattenimento. La cosa interessante è che non dipende dalla natura dello stimolo: notizie serie, urgenti, tragiche possono intrattenerci anziché informarci per il solo fatto che non abbiamo modo di fermarci a riflettere, di metterle a sistema, pensarci su. Il paradosso è che l’intrattenimento legato all’abbondanza del materiale informativo in circolazione, anziché svagarci, ci fa male, droga la nostra capacità di provare una sana soddisfazione, di godere in maniera attiva di ciò che sappiamo.

In pratica, come piante troppo bagnate, anziché nutrirci, l’acqua di ciò che sappiamo non informa, ci deforma, ci fa molli e gialli, scavati dall’interno, a pigiare il clacson. Per dire tutto questo senza ricorrere a metafore vegetali, il libro insegna che Goethe ha coniato una parola: überbilden, ovvero il “super-formato”, ciò che al posto di svilupparsi diventa mediocre, si instupidisce. E allora «quel che conta, nell’epoca dell’informazione non è un’informazione in più o in meno, ma assicurare la possibilità della presenza di uno sguardo, di una soggettività non frammentata, non spezzettata, di un io. È il pensiero che definisce una personalità, non l’informazione. E la persona, in fondo, dovrebbe essere il fine di ogni sforzo». Satolli o vagamente storditi, il nostro modo di cercare l’umano è desiderare un filtro: lo «sguardo» non è altro che questo, un meccanismo unico e irripetibile, imperfetto, di selezione delle immagini.

Prima di essere intellettuale, la malattia dell’eccesso riguarda il corpo e le vite quotidiane.

Veniamo da un mondo povero di oggetti, mentre oggi in media una casa d’abitazione ne ospita 300.000, così stima Codignola. Siamo la prima civiltà i cui mali dipendono del troppo (cibo, immagini, stimoli) e non dal troppo poco. Il sistema biologico che indossiamo non è attrezzato per reggere l’impatto, perché in migliaia di anni si è sempre arrangiato per fare fronte alla condizione opposta, cioè cavarcela col poco che c’era, mentre adesso siamo strapieni. E, in effetti, si aggira nella selva dello slang la figura di “essere pieni” o “pieni rasi”, che poi è un modo per dire che basta, per oggi è necessario ritirarsi nel guscio, smettere di bere il mondo, silenziare i telefoni.

E quale sarebbe la cura a cui allude il sottotitolo? Un elemento affascinante del saggio consiste nel fatto che il farmaco non è affidato alla conclusione, ma è somministrato via via, durante il discorso, attraverso una serie di affacci sulle alternative possibili. Prendiamo, per esempio, gli algoritmi che guidano le dinamiche dei social network, un sistema complesso e vario di formule, che però sembra animato dall’idea comune di spingere ciascuno a frequentare soprattutto ciò che gli assomiglia, magari per comprarlo: «Una rivoluzione democratica del mondo digitale vorrebbe dire abbandonare questa logica commerciale favorendo invece la crescita della personalità tramite un funzionamento diverso dei motori di ricerca, volto a favorire l’autocritica e il ripensamento delle proprie ipotesi di partenza». Ogni tanto – come in questo caso – c’è un sogno che buca la pagina.

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Ma in effetti come sarebbe una piazza online governata da una cricca di educatori, di pedagoghi? Come andrebbero le cose se la potenza del mezzo fosse usata per rafforzare la nostra personalità, anziché farla specchiare in Trick mirror, gli specchi ingannevoli da cui prende il nome un libro interessante di Jia Tolentino? Come sarebbe un feed in cui le “bolle” sono scoppiate, in cui si guarda in faccia la differenza? Se le domande restano senza risposta, questo è il bello della riflessione: il processo di digerire è estremamente utile, ma il suo risultato diretto è uno scarto.

Fin qui stiamo ronzando intorno al primo capitolo del libro, che si chiama, appunto: Riflessione. Seguono: Misura, Interdipendenza, Forma, Fraternità e conflitto.

Ogni titolo allude a quello di cui ci sarebbe bisogno per stare meglio, anche se nel discorso la cura emerge in maniera chiaroscurale dalla descrizione del problema o del male che ci affligge: la riflessione sarebbe alternativa alla fretta, la misura all’accumulo, l’interdipendenza all’individualismo, la forma alla libertà, fraternità e conflitto sono due dimensioni che possono stare insieme ma invece scompaiono nel momento in cui prevale un sospetto reciproco indolente, una diffidenza a distanza senza riconciliazione.

Le zone del disagio contemporaneo mappate dal saggio vengono trattate in maniera rapida, eppure puntuale, facendo riferimento a una sintesi degli interpreti più illustri che, secondo l’autore, hanno contribuito a scontornare la figura imperante oggi. C’è una grande libertà, nelle pagine, ed è in questo humus che spuntano idee varie e interessanti. Ne esaminiamo tre, in ordine sparso.

La prima. «Buona parte della produzione artistica degli ultimi anni sembra essersi fissata nella dissacrazione come gesto estetico per antonomasia». L’autore ha definito l’azione di dissacrare poche righe sopra: «Dissacrare vuol dire rivelare la natura di qualcosa che suona falso, ampolloso o retorico; implica perciò una certa dose di perspicacia ed è proprio questo che viene apprezzato nel gesto della dissacrazione, nella riduzione del solenne al ridicolo». In società meno democratiche, più tradizionali o addirittura militarizzate, chi mette in ridicolo il potere e le sue forme rischia la vita; perciò, il valore del gesto dissacrante si lega a una dimensione di impegno civile. Da noi, invece, le cose vanno diversamente, e l’autore allude a una categoria nuova e opposta in gioco, un «conformismo della trasgressione».

Il fenomeno si spinge alle estreme conseguenze quando l’opera bella, in cui la forma è curata e accudita, viene bollata come ingenua o inautentica. Allo stesso modo, più quotidianamente, è considerato sinonimo di disinvoltura non usare le maiuscole via messaggio ed evitare i punti fermi, postare foto in pigiama o dietro le quinte, osare mostrarsi per come si è che, però, fino a prova contraria, è sempre il frutto di un montaggio, di un punto di vista, di una scelta compositiva. Lo “stile autentico”, è pur sempre uno stile: rifiutare la moda è pur sempre una moda. Nelle pagine si parla del fatto che in circolo ci sarebbe un inedito rifiuto diffuso della bellezza. Dentro il bello sembra annidarsi una sorgente di falsità.

Senza geremiadi, Codignola ricorda però che, nei secoli, l’attrazione che gli umani hanno sentito per la forma «non è altro che il nostro amore per la vita, la nostra attrazione per l’organizzazione della materia contro la sua disorganizzazione». E poi: «L’arte è la prosecuzione naturale di questo istinto e la sua celebrazione». Il nostro bisogno di trasgressione, allora, dimostra che siamo meno liberi di ciò che pensiamo? Può essere che la standardizzazione degli spazi di pensiero o di azione artistica – i format – non sia mai stata così elevata? Come si spiega altrimenti il bisogno contemporaneo di non prendere niente sul serio, salvo l’azione di non prendersi sul serio?

Una seconda idea notevole, infilata a tradimento tra una riga e l’altra del saggio, suona così: la guerra sarebbe «un effetto collaterale negativo dello sviluppo della cultura». Siamo al fondo del libro, nel capitolo dedicato a Fraternità e conflitto, e l’autore sta spiegando il fenomeno della “pseudo-speciazione”. Secondo alcuni etologi, infatti, il motivo per cui il genere umano si fa la guerra (a differenza degli altri animali) è che i suoi esponenti arrivano a differenziare così tanto le proprie società da non riconoscersi più come appartenenti alla stessa specie. Quando guardiamo un essere umano negli occhi, siamo programmati per provare forme di empatia e immedesimazione che ci rendono difficile colpirlo in testa o fargli male con le nostre mani, ma nel mondo che abitiamo ci sono svariate possibilità di sganciare bombe reali o simboliche senza dover sostenere lo sguardo di nessuno. Non è solo un fatto di schermi, è innanzitutto la sofisticazione dei linguaggi ad averci spinto in questa condizione. Sono gli splendori e le miserie della civiltà.

Un terzo passaggio degno di nota ruota intorno all’idea di interdipendenza reciproca. Codignola fa riferimento a un nuovo paradigma, che potrebbe emergere dalle rovine future dell’individualismo. Un «paradigma relazionale», che però non sarebbe «ancora giunto nel senso comune delle nostre società, che in prevalenza vivono ancora immerse nelle assunzioni concettuali del paradigma precedente fondato invece sulle nozioni di individuo, competizione ed egoismo razionale come verità disvelanti». Ci si sforza di decifrare qualcosa, senza la pretesa di approfondire, di spiegare o dargli un nome: in queste pagine il futuro prossimo è giusto una passeggiata in un bosco narrativo. Però certo viene voglia di tornarci con più calma, e alla fine non si esce neppure troppo scornati dal mondo in cui viviamo perché, appunto, qua e là affiorano radure di altri ecosistemi possibili.

In copertina, fotografia di ikry anshor.

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