Capire gli animali: empatia e immaginazione
“Ci sono momenti”, scriveva Anna Maria Ortese in Piccole persone (Adelphi) “in cui un albero ci si mostra improvvisamente umano, stanco. Altri momenti che un’umile bestia (o ciò che crediamo tale) ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo, tanto puro, consapevole, amoroso, ‘divino’, da farci balenare l’idea di una comune Casa, un comune Padre, un comune Paese, un Reale tanto felice e beato, dal quale partimmo insieme” (p. 16). Ma che c’entra l’albero con l’umanità, l’albero è un albero, obietterà subito qualcuno che ci tiene a non umanizzare il non umano proprio per preservarne l’inumanità, la sua preziosa differenza rispetto all’umano. Perché parlare di un albero che “ci guarda” ci porta dritti dritti nell’antropocentrismo che non è infatti “il peccato peggiore per un appropriato, ‘scientifico’ approccio agli esseri non umani” (p. 2)? Carlo Salzani – in Animals, Empathy, and Anthropomorphism. The Limits of Imagination (Palgrave Macmillan 2025) – risponde in modo articolato e convincente non solo che non dobbiamo essere troppo preoccupati di correre questo rischio, ma che anzi solo un uso consapevole e critico dell’immaginazione potrà aiutarci a superare non tanto l’antropomorfismo quanto l’antropocentrismo. Perché il ‘nostro’ problema non è tanto l’atteggiamento antropomorfico, cioè il non riuscire a vedere il mondo non-umano se non attraverso lenti umane, quanto piuttosto l’antropocentrismo, ossia l’incapacità di tenere in conto altri punti di vista oltre al nostro. Si può avere un’attitudine antropomorfica senza per questo essere antropocentrici, è proprio questa la posta in gioco. Anche perché, è questo propriamente il cuore del libro di Salzani, non possiamo fare a meno dell’immaginazione per i “nostri incontri etici con i non-umani” (p. 4). Un’immaginazione che da un lato non può non essere in qualche modo antropomorfica, cioè non può non immaginare, appunto, che anche l’altro provi qualcosa di simile a quello che proviamo noi; dall’altro, però, deve essere anche un’immaginazione che non può essere centrata solo su di sé, sull’anthropos, al punto da trascurare di cogliere le differenze che rendono così diversi i non umani dagli umani.
Il libro di Salzani si apre discutendo criticamente un famosissimo articolo del filosofo statunitense Thomas Nagel, What Is It Like to Be a Bat? (1974, trad. it. Cosa si prova ad essere un pipistrello?, Cortina 2025). Nagel scrisse questo articolo per sostenere – contro il riduzionismo scientifico che pretende di poter spiegare tutti i fenomeni, compresa la coscienza – che quello che prova un pipistrello ad essere un pipistrello (il cosiddetto punto di vista in prima persona) è precluso in linea di principio al punto di vista esterno, quello in terza persona, appunto quello impersonale della scienza: da fuori posso vedere come ti comporti – è questa la prospettiva oggettiva – ma non posso sapere che cosa provi soggettivamente, che cosa provi tu ad essere tu. Questo celebre articolo è diventato il riferimento d’obbligo di chi ritiene che la mente dell’altro sia imperscrutabile, in particolare quando l’altro sia così diverso da noi umani come può essere un pipistrello (ma non dimentichiamo però che è un mammifero; secondo stime attendibili condividiamo quasi il 99% del nostro genoma con quello dei pipistrelli). Attribuire quindi a un pipistrello sensazioni e pensieri umani sarebbe allora un’operazione del tutto ingiustificata, un’indebita antropomorfizzazione, un tentativo più o meno esplicito di trasformare in umano un vivente dotato invece di caratteristiche completamente diverse da quelle umane. Ma in questo modo ci precludiamo la possibilità di provare a ‘immaginare’ che cosa sente l’altro, sia l’albero di Ortese, il pipistrello di Nagel, ma anche il sasso di cui parla Heidegger (che di questo tipo di immaginazione sembra averne avuta davvero poca).

Salzani si riferisce, in particolare, a un racconto del Margaret Atwood, “My Life as a Bat” (sono spesso le scrittrici a usare questo tipo di immaginazione; si pensi a quanta fantascienza femminile immagina esploratrici antropologhe e linguiste che provano a comunicare con gli alieni), scritto in prima persona, raccontando di una vita precedente in cui la voce narrante sarebbe stata un pipistrello: “Atwood non parla di ecolocalizzazione, né di appendersi al soffitto a testa in giù o di altre esperienze ‘inaccessibili’ alla nostra immaginazione, ma evoca invece sensazioni corporee – la vivida sensazione di dolcezza in bocca, il sonnecchiare di giorno, il morbido calore dei corpi che si stringono l'uno all'altro, la simbiosi fisica della madre con il suo bambino – che sono comuni a tutti i mammiferi e possono quindi essere facilmente comprese e afferrate dall'immaginazione umana”. Siamo molto diversi dai pipistrelli, ma condividiamo non solo tantissimo genoma (ma chi se ne importa del genoma ci direbbero Salzani e Ortese, ne condividiamo molto di meno con una mosca – intorno al 70% – ma possiamo benissimo capire la disperazione di una mosca che continua a sbattere contro il vetro di una finestra), condividiamo un mondo, una stessa fragilità, uno stesso bisogno di calore e amore. Provare a immaginare di essere un pipistrello non vuol dire, in questo caso, trascurare le differenze, ma saper cogliere anche quanto il pipistrello e noialtri umani viviamo in “una comune Casa” come appunto ci ricorda Ortese: ecco allora che “queste sensazioni corporee stabiliscono effettivamente una connessione simpatica tra i corpi, umani e non umani, che può persino portare […] a una critica dell'antropocentrismo e a sentimenti di empatia verso la situazione dei pipistrelli nel mondo umano» (p. 2).
Si tratta allora per un verso di evitare “l’antropomorfismo come proiezione” (p. 233), cioè quello che nell’altro vede solo sé stesso finendo per non vedere nulla dell’alterità dell’altro, a favore invece di quello che Salzani definisce “un antropomorfismo critico” (p. 160), capace di empatizzare con l’altro salvaguardando però la sua alterità, e quindi il suo essere perturbantemente altro e diverso da me. Un atteggiamento etico (religioso?) verso l’altro, sia animale che anche vegetale (come appunto l’albero di Ortese), non può infatti basarsi sull’empatia che potremmo chiamare ‘naturale’ (quella mediata dai cosiddetti “neuroni specchio”), proprio perché questa empatia ‘scatta’ quando ci troviamo di fronte a un vivente ‘simile’ a noi, ad esempio al muso grazioso e irresistibile di un gattino; la posta in gioco è invece un’empatia verso un vivente verso cui, al contrario, non proviamo alcuno slancio antropomorfico, ad esempio un insetto, oppure verso qualcuno (qualcosa) privo di occhi, in cui non è riconoscibile nessuna faccia. Se in effetti è facile empatizzare con un mammifero, richiede molto più impegno – per questo si può qui parlare di etica – provare a empatizzare con un vivente molto diverso dagli esseri umani, ad esempio un serpente, caso a cui Salzani dedica l’ultimo appassionato capitolo del suo libro. In effetti i serpenti “rimangono psicologicamente (oltre che anatomicamente e fisiologicamente) estranei e distanti: come per i pipistrelli, non vogliamo immaginare che cosa sia essere un serpente” (p. 205). L’etica comincia superando quel “non vogliamo” immaginare che cosa possa significare essere un serpente. In particolare la possibilità di un’etica che comprenda il non umano comincia quando ci si confronta non con la sua faccia (ammesso che ne abbia una), bensì con il suo dorso, come appunto nel caso del serpente: “il dorso, e non la faccia, è la parte più vulnerabile e indifesa: l'altro non ci vede, è indifeso, possiamo ‘pugnalarlo alle spalle’; la vulnerabilità della schiena risveglia il senso del massimo potere di uccidere. Il faccia a dorso e non il faccia a faccia è quindi il vero confronto non simmetrico e non reciproco: il dorso rappresenta davvero l'impossibilità di riconoscere, è dall’impossibilità di affrontare il dorso che emerge la vera etica: nella risposta, violenta o ospitale, che siamo chiamati a dare” (pp. 224-225).
L’immaginazione va quindi forzata oltre i suoi limiti ‘naturali per spingerla a immaginare l’inimmaginabile; per questo Salzani usa sia la letteratura scientifica e filosofica sugli animali quanto, se non soprattutto, l’immaginazione letteraria, perché che cos’è la letteratura se non il tentativo di immaginare non tanto il possibile, quanto l’impossibile e appunto l’inimmaginabile? Una scimmia che parla, una topolina che canta, uno scarafaggio che ci osserva. Come quell’inimmaginabile pipistrello imboccato con un contagocce da Barbara Górecka, la cosiddetta Batmamma di Szczecin, in Polonia, la cui casa è diventata una colonia e un rifugio per pipistrelli. Quella che propone Salzani, basandosi sul concetto di “world-traveling” della filosofa argentina María Lugones, è allora “un processo di trasformazione del sé in cui non si sperimenta alcun ‘io’ sottostante”. Il punto non è chi sei e che cos’è l’altro, quanto: che cosa diventi nell’incontro con l’altro? Non c’è più il sé stesso e il diverso, c’è l’avventura dell’incontro: “anche se la Batmamma non saprà mai cosa significhi ecolocare e svolazzare nel cielo notturno, la trasformazione operata in lei dalla percezione amorosa le dà un accesso parziale ma perspicace al mondo dei pipistrelli di cui si prende cura” (p. 233). Come scrisse una volta Anna Maria Ortese, “non comprendo che cosa significhi la parola uomo, quando essa non esprima quella capacità di sentire anche il dolore e il diritto di qualsiasi altro vivente”.

