Guido Tonelli: cosa c'è dentro il vuoto
Aveva ragione Nāgārjuna, il filosofo buddista indiano vissuto fra secondo e terzo secolo della nostra era. Le cose che possiamo vedere nel mondo, dai cetrioli alle galassie, dai ministri dell’agricoltura ai pelapatate, tutte le cose al livello fondamentale propriamente sono prive di sostanza. Il suo celebre libro Il cammino di mezzo (Madhyamakakārikā), si apre con una formula sconcertante (citiamo dalla traduzione italiana di Marcello Meli): “non si danno esseri manifestati in un qualsiasi luogo che provengano da sé stessi, da altro da sé, da sé stessi e da altri da sé, né si danno esseri che non abbiano una causa”. Prese insieme queste asserzioni mirano a mostrare la fondamentale tesi buddhista della “vacuità” (śūnyatā) del mondo in cui viviamo. Solo quando saremo capaci di cogliere l’intrinseca vuotezza del mondo, solo allora saremo capaci di liberarcene, e vivere l'esperienza della liberazione (samādhi). Ma in che senso una tegola, ad esempio, è ‘vuota’? Anche se non ci permettiamo di dare torto a Nāgārjuna se ce ne cade una in testa non possiamo non accorgerci che è pesante, che è densa, che è ‘piena’ di materia. È questo il punto, come ci dice Guido Tonelli: è solo un “pregiudizio millenario che fa quasi coincidere massa con materia, che vede cioè la massa come una proprietà intrinseca della materia”. Essere una massa non vuol dire essere qualcosa di materiale. Non è la materia che ha una massa, piuttosto è la massa che produce la materia. La materia, quello che il nostro realismo ingenuo ci porta a pensare sia l’indiscutibile fondamento del mondo, ecco, la materia è un effetto (all’inizio non c’è la materia), è ‘qualcosa’ che si fonda su un fondamento ancora più ‘fondamentale’, qualcosa di immateriale. Si capisce perché un pensiero del genere sia potuto venire in mente a un monaco buddhista, perché quando si parla di materia e della sua origine si parla, che la scienza lo ammetta o no, della nostra vita, di che cosa conti e che cosa non conti: si parla della possibilità della salvezza.
Entriamo così in un mondo, come abbiamo appena visto con Nāgārjuna, allo stesso tempo antichissimo e moderno, quello della fisica contemporanea, che fa della riconsiderazione della natura del vuoto (e quindi del pieno) uno dei suoi punti centrali: “la questione del perché la materia, in qualsiasi sua forma, si presenti con questa proprietà, la massa”, scrive Tonelli, “è stata ignorata per millenni” (almeno nella tradizione di pensiero occidentale); “la cosa non deve stupire. Noi stessi siamo un corpo materiale dotato di massa e tutto ciò che abbiamo intorno, gli oggetti con i quali interagiamo, e persino i lontani corpi celesti che ammiriamo nelle notti più serene, sono dotati di massa. Diventa inevitabile immaginare che non ci sia nulla da scoprire su una proprietà così comune, che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno”. Al contrario la filosofia – come fa dire Platone a Socrate nel Teeteto – comincia con la meraviglia. Una meraviglia che non si prova, come pensa chi la va a cercare sulle cime dell’Himalaya o nelle sconfinate distese sabbiose del Sahara, al cospetto di spettacoli, appunto, ‘meravigliosi’; al contrario la meraviglia filosofica, e scientifica, consiste piuttosto nel vedere come meraviglioso ciò che invece appare scontato e banale. E che cosa sembra esserci di più familiare, e pieno, della comune materia? Eppure, come scrive Tonelli, “l’essere è il non essere”. Ciò che si mostra denso, pesante, ‘materiale’, ecco proprio questo coincide con il rarefatto, il senza peso, con l’enigmatica vacuità di cui scriveva migliaia di anni fa Nāgārjuna.

Ma in che senso si può affermare che “l’essere è il non essere”? Tonelli ci invita a immaginare – l’esordio di un’operazione scientifica è simile a quella poetica, inizia con un esercizio di fantasia – di svuotare del tutto una determinata regione di spazio: “nonostante gli innumerevoli progressi che si sono fatti nella tecnologia del vuoto, l’idea di rimuovere del tutto e definitivamente la materia che occupa un determinato volume risulta impraticabile. A mano a mano che si va verso una rarefazione sempre più spinta del gas residuo, le cose si complicano. E tuttavia […] anche se riuscissimo a portare a zero il gas residuo nel volume che vogliamo evacuare, la nostra camera a vuoto ideale conterrebbe ancora una discreta quantità di altri strani elementi materiali”. Rimane sempre qualcosa, il vuoto non è mai davvero vuoto. Così come il pieno non è mai davvero e soltanto pieno, cioè un fitto concentrato di materia, allo stesso modo il vuoto non è mai del tutto privo di un qualche residuo materiale. C’è vita, nel vuoto. Non una vita in senso biologico, ma in un senso molto più radicale e interessante, nel senso che questa strana animazione del vuoto ci ricorda che il mondo è sempre in agitazione, è sempre più in là rispetto ai nostri tentativi di afferrarlo, e di ingabbiarlo in parole e concetti. In effetti la tesi della “vacuità” buddhista più che essere una tesi su come è fatto il mondo è piuttosto una tesi sul nostro modo di pensarlo (e quindi di fraintenderlo). Per noi il mondo è qualcosa di fisso (come quelli che parlano della ‘natura’ contrapposta alla città), di materiale appunto, qualcosa che sta di fronte a noi, che osserviamo e manipoliamo, un mondo fatto di ‘cose’ contenute all’interno di una immensa ‘scatola’ di spazio vuoto. Al contrario, “il vuoto cosmico è pieno di spazio-tempo, che si espande nel tempo, che si torce e vibra e contiene energia”; è ‘vivo’, appunto. Ossia, il vuoto non è il nulla, proprio come “l’essere è il non essere”: “I grandi spazi sono attraversati da una pioggia incessante di particelle, provenienti da tutte le direzioni. Sono anzitutto i fotoni della radiazione cosmica di fondo, una luce diffusa, invisibile agli occhi. È trasportata da delicati messaggeri, che vagano per l’universo da miliardi di anni e ci raccontano di quell’epoca lontana, nella quale si sono formati i primi atomi e la radiazione si è distaccata definitivamente dalla materia. C’è un flusso incessante di particelle cariche, alcune altamente energetiche. Sono i raggi cosmici prodotti dalle zone più turbolente del cosmo, sorgenti inesauribili di ogni forma di radiazione, compresi fotoni di altissima energia. Una miriade di neutrini, le più delicate e gentili fra le particelle, attraversa, senza sosta, ogni metro cubo di spazio. Sono emessi dalle stelle, regolarmente”.
È un’immagine del mondo allo stesso tempo confortante, appunto perché c’è ‘vita’ dovunque, ma anche perturbante, perché è difficile resistere a questa strana ‘vita’ non vivente, è difficile non sentire l’attrazione per questo universo mobile, che passa ininterrottamente dal pieno al vuoto e dal vuoto al pieno, un mondo effervescente, che non ha bisogno di noi. È davvero difficile, in effetti, mantenere il nostro ottuso antropocentrismo quando si alzano gli occhi al cielo e ci lasciamo osservare dal buio infinito dell’universo. Un mondo sconfinato e vibratile dove “materia e vibrazione diventano molto simili. La dualità onda-particella è una proprietà di tutta la materia, campi, onde e particelle si sovrappongono, sono modi diversi di descrivere la stessa cosa”. Le cose sono onde, e così diventano fluide, ‘acquatiche’ (Tonelli rende onore a Talete di Mileto, vissuto nel sesto secolo prima del Cristo, che individuò nell’acqua il principio - ἀρχή - di tutte le cose): il mondo si muove, le cose non sono propriamente cose, ma anche le onde, in qualche modo, sono cose. In effetti, e qui torna utile ancora una volta la lezione di Nāgārjuna, la dualità onda-particella non significa che qualcosa è sia onda che particella, un’affermazione che sembra autocontraddittoria, piuttosto che questo inafferrabile ‘qualcosa’ propriamente è qualcosa di diverso ancora, che possiamo solo figurarci approssimativamente con una formula suggestiva ma inevitabilmente approssimativa. È questa la “vacuità”, è il mondo che ci sfugge, che non si lascia immobilizzare in una sola definizione. Tonelli chiama questo mondo stupefacente il “mare di Dirac”, dal nome del fisico inglese Paul Dirac (1902-1984), un “vuoto che è tutt’altro che vuoto”. È in questo mare che non è un mare, ma che tuttavia non smette di essere agitato e mosso come il mare, che vengono alla luce quelle entità che, nella povertà del nostro linguaggio, chiamiamo particelle, onde, è qui che le cose acquistano massa. Così come sulla terra, la vita viene sempre dal mare: “il vuoto quantistico è uno stato materiale come tutti gli altri e segue le stesse leggi della meccanica quantistica. […]. Ma è tutt’altro che vuoto. È una specie di giacimento infinito, contenente ogni forma possibile di materia e antimateria. Un robusto forziere nel quale sono rinchiusi tutti i campi e tutte le interazioni, che non cessano di ribollire, senza sosta, al suo interno […]. È una sorta di mare ricolmo di onde delle più svariate dimensioni e frequenze”.
Il vuoto è allora per un verso quello dell’universo in cui “tutto è fatto di vuoto” – è uno scienziato che parla, ma usa parole che una mistica comprenderebbe senza difficoltà – dall’altro è il vuoto del nostro terrore per il vuoto, l’horror vacui che è il motore instancabile del processo di accumulazione capitalistica, il vuoto che non riusciamo a pensare e sopportare. Si coglie così, infine, perché il tema del vuoto possa essere stato al centro del pensiero di un monaco buddhista vissuto migliaia di anni fa in India: la paura del vuoto è la paura del nulla della morte, vincere questa paura è vincere la paura della morte. Ma se “il qualcosa e il nulla, essenzialmente coincidono, sono due facce della stessa medaglia, aspetti diversi dello stesso stato di vuoto”, allora il nulla, propriamente, non c’è. Come, “travestendosi da tutto, il vuoto può diventare un universo”, perché il “vuoto” che siamo non potrebbe allora “diventare un universo”?
Guido Tonelli, L’eleganza del vuoto, Feltrinelli, Milano 2025
