Toni sul Po: uno spettacolo corale

28 Maggio 2015

A Gualtieri si arriva attraversando una lunga infilata di campi segnati da canali e pioppi, per una strada che una volta doveva correre dritta, con quelle strane curve di pianura che seguono i poderi e le acque, ora interrotta da una sequela continua di rotonde. Il paese sembra deserto, se non ci fossero quegli uomini con giubbetto giallo fosforescente con la scritta “Protezione civile” a presidiare transenne che bloccano strade e argini. Nessun altro per le vie, finestre semichiuse. Oltre un arco un suono di banda, sotto la pioggia. E una voce, come proveniente dal passato. Una rampogna.

 

piazza Gualtieri, ph. Luigi Burroni

 

Gli spettatori si proteggono sotto il lungo portico che chiude tre lati della seicentesca piazza disegnata da Giovan Battista Aleotti per conto di un Bentivoglio emissario degli Este. Al centro, sotto file di lampadine da fiera, un funerale, quello di Toni Ligabue, il matto, il pittore che viveva sugli argini nutrendosi di animali selvatici, impastando i colori con erba, terra, fiori e deiezioni organiche. Seduto sopra la bara c’è lui, il Toni, interpretato da Mario Perrotta che di questa rinascita è l’ideatore, il sognatore. Lui, il pitùr che attacca i paesani che in vita lo hanno deriso e disprezzato, pronti ad accorrere alle esequie perché ora che è morto le quotazioni di quei quadri comprati per una scodella di minestra salgono alle stelle.

 

Gualtieri a una prima impressione sembra ancora non aver fatto la pace con il suo artista “naif”, che pure ne portato in giro il nome. Mario Perrotta da tre anni lavora a questo spettacolo corale, Bassa Continua: Toni sul Po (leggi qui l’intervista di presentazione a Doppiozero). Ha prima raccontato la vita, l’arte, la disperazione esistenziale di questo grande emarginato in uno spettacolo che ha vinto il premio Ubu nel 2013, Un bès. Antonio Ligabue. Poi ne ha interpretate ossessioni, visioni, figurazioni nel lavoro corale Pitùr. Ora ha messo insieme una macchina che coinvolge circa duecento persone, tra artisti, attori, danzatori, musicisti, registi, tecnici e assistenti vari. Per quattro giorni, dal 21 al 24 maggio, ha riportato il Toni a Gualtieri, a Guastalla e al manicomio di Reggio Emila, dove fu rinchiuso tre volte, per quegli scatti di furia che lo prendevano, contro se stesso e contro gli altri, con la paura dei germi che poteva propagare chi tossiva, con quell’infierirsi colpi per modificare il naso e rendersi simile al più reale degli uccelli, l’aquila.

 

Perrotta ha disegnato tre percorsi, paralleli, contemporanei. Il primo parte da Guastalla, dove Ligabue arrivò giovane espulso dalla Svizzera, parlando solo tedesco, nella terra di una madre e di un padre che lo avevano abbandonato; uno spettacolo che finisce a Gualtieri percorrendo anche gli anni, la storia, dal 1919 al fascismo, alla guerra, alla liberazione, al boom economico. Il secondo percorso porta nel padiglione Lombroso dell’ex manicomio di Reggio, dove Ligabue, internato, dipinse, dipinse, raggiungendo, nell’alienazione, nella prigionia, tra gli elettroshock, la coscienza di sé come artista. L’ultimo viaggio arriva all’imbrunire e di notte sul fiume, dove visse, dove si nascose, dove dipinse, dove implorò, in continuazione, quel bacio. Un tragitto epico sulla vita di un emarginato e sulla sua creatività, sul rapporto con una comunità che si chiuse di fronte all’uomo, che svilì l’artista.

 

Gualtieri, ph. Loretta Veri

 

E la maledizione sembra continuare. Questo progetto teatrale coraggioso, sognatore in epoca di tagli alla cultura, realizzato mettendo insieme, pazientemente, un numero infinito di sostegni, ma soprattutto la passione visionaria di artisti e tecnici, ha incontrato più di un inciampo. La vecchia amministrazione di Gualtieri, per esempio, si era impegnata a stanziare un finanziamento e anche a trovare sul territorio sponsor per coprire la parte di progetto che la riguardava. La nuova giunta (sempre Pd), pur mantenendo l'impegno economico e organizzativo, non è riuscita a reperire risorse di finanziatori esterni, creando, di fatto, un ammanco notevole nel bilancio, in parte compensato con il generoso impegno di energie degli uffici comunali durante la fase di allestimento. La conseguenza è ormai nota e sconsolante: in tempi già funestati dalla penuria di investimenti economici sull’arte, è triste non poter progettare nel tempo, non riuscire a contare a lungo termine su finanziamenti certi. E poi: l’amministrazione ha programmato una mostra su Ligabue che lancerà la Fondazione Museo dedicata al pittore. Si aprirà la settimana dopo lo spettacolo nella bellissima Sala dei Giganti del palazzo disegnato dall’Aleotti, con ciclo di affreschi sulla Gerusalemme liberata. Sala chiusa, mostra in allestimento, durante un fine settimana intenso che ha portato moltissimi visitatori nella cittadina padana per lo spettacolo. Un controsenso.

 

Sul fiume, Viola, ph. Luigi Burroni

 

Nelle città del fiume

Il viaggio nella vita e nelle opere di Ligabue vive di intensità malinconiche, su una tavolozza tra il febbrile, il sognante, il doloroso, con brillanti momenti narrativi spesso sintetici (si salta, per esempio, dal fascismo al dopoguerra attraverso un breve viaggio in pullman da Guastalla a  Gualtieri, con i vetri oscurati e un sonoro di bombardamenti, con le voci degli attori che incalzano; si arriva e si vede ballare un liberatorio boogie woogie…), con qualche piccolo appannamento soprattutto nei balletti di Mario Coccetti, tanto espressivo-mimetici da sembrare televisivi, interpretati da giovani, volenterosi, acerbi allievi di scuole di ballo.

 

Liscio, ph. Luigi Burroni

 

Nella prima parte del percorso delle città è la danza a dominare, insieme alla canzone, straniata, brechtiana (testi di Gabriele Graziani e Mario Perrotta, che con Nicola Bonazzi firma la drammaturgia di tutto il progetto, oltre che l’ideazione e la supervisione alla regia; musiche di Gabriele Graziani e Vanni Crociani). Si racconta l’arrivo in Italia di Ligabue, sperso, con una danza di valigie che si accumulano, che lo sovrastano, lo schiacciano, nella piazza di Guastalla, in un tramonto con la luce alla Ghirri. Poi il fascismo, il viaggio in autobus con quel salto temporale che si diceva, la liberazione, l’avanspettacolo con sguaiate subrette guidate da Paola Roscioli prima di un film con Tarzan che gli fa vedere leoni ruggenti, a Ligabue, e lui che racconta la piena del Po, quel rumore sordo che sentiva, che gli batteva dentro, che era l’acqua montante indistinguibile dal suo rombo interiore. Il pittore qui è l’intenso, concentrato, espressionista Lorenzo Ansaloni, in quella meraviglia che è il teatro sociale di Gualtieri (la regia di questa tranche di spettacolo è di Alessandro Migliucci) .

 

Soubrette avanspettacolo, ph. Luigi Burroni

 

Un intermezzo

Il Teatro sociale meriterebbe un articolo a sé. Nato nel settecento, nel palazzo fatto costruire dal Bentivoglio, fu ristrutturato e divenne teatro municipale agli inizi del novecento. Come molti dei tanti gioiellini disseminati in questa pianura ha subito poi la trasformazione in cinema, in cinema porno e infine l’abbandono. Un gruppo di giovani artisti, architetti, intellettuali del luogo non si è rassegnato a un destino di rovina: alla fine dello scorso decennio ha iniziato, con lavoro volontario, a costruire le strutture minime per renderlo utilizzabile e per farvi stagioni teatrali. Il luogo, nel suo mostrare i segni del tempo e lo sforzo, riuscito, di farlo rivivere, è affascinante, con quel palco che si apre su una parte del vecchio portico abbattuto nel settecento e poi ricoperto, con l’arco di sostegno costruito, con struttura neogotica, nel novecento, con i palchetti, i corridoi, la soffitta, i camerini, i vecchi arredi polverosi in attesa di rinascita. Si respira un pezzo di storia del teatro; si aspettano finanziamenti per renderlo all’altezza di nuove, odierne funzioni (residenze, produzioni, prove e laboratori), senza attendismi, facendo.

 

Teatro sociale Gualtieri, ph. Castor

 

Il funerale. Il manicomio

Dal teatro, dagli anni cinquanta, con una musichetta felliniana si vola attraverso le promesse del boom economico e si precipita in piazza, per il funerale, che chiude tutti i percorsi, con le bande (di Boretto e di Guastalla), con i Tamburi del Crostolo, con I Violini di Santa Vittoria (il paese di Giovanna Daffini), con la rampogna, con suono di viola e voci da un balcone, con un assolo di contrabbasso a svanire.

 

 

dall'alto: in piazza Gualtieri, ph. Luigi Burroni; Il funerale, Mario Perrotta, ph. Luigi Burroni

 

A Reggio, il giorno dopo, siamo portati nel cortile, nelle stanze comuni e nelle celle dell’ex manicomio, tra attori che simulano gli internati, i medici, gli infermieri, a stretto contatto con gli spettatori, poi, a piccoli gruppi, ancora più vicino ad attori che nelle varie celle danno corpo alle ossessioni e alla coscienza artistica di Ligabue (la regia è di Andrea Paolucci). Si torna verso l’appuntamento del funerale a Gualtieri in pullman, vedendo, nel tragitto di circa venti minuti, due spezzoni di video. Uno è un documentario con il reggiano Romolo Valli, che da giovane cronista della “Gazzetta di Reggio” provò a intervistare il pittore in manicomio. L’altro lo mostra, Toni, lo racconta negli anni ormai della fama, in crudeli riprese sempre in cerca di un bacio, qualche volta intento a dipingere al cavalletto, o in giro con le sue lucenti motociclette rosse, o travestito da donna, in cerca di purezza femminile, che non trova nelle donne reali, che gli sfuggono, forse sulle orme della madre assente... Si vedono i suoi quadri, i suoi animali meravigliosi, vita pura, aquile, falchi, leoni, volpi, come quelli del fiume, come quelli dei film di Tarzan...

 

 

dall'alto: ex-manicomio, ph. Loretta Veri; sul fiume, ph. Luigi Burroni

 

Sulle acque

È un tragitto profondo nei luoghi, nel fascino di postazioni di confine, tra il mantovano, il reggiano, il parmense, tra lo stato dei Gonzaga e poi dei Farnese e quello degli Este, tra acqua boschi terra città golene, tra comunità e interiorità, tra normalità e devianza, tra notte e giorno, parola suggestione musica corpo. Il percorso sul fiume (regia di Donatella Allegro) mescola atmosfere sognanti, evocate dalla musica del Meridian Sax Quartet e lampeggiare di figure tra i filari dei pioppi, simili a poveri che cercano da mangiare, simili agli animali di Ligabue o alle sue ombre che si aggirano lontano dagli esseri umani, scene di liscio e di desiderio erotico interpretate dai Violini di Santa Vittoria e da tre attrici che impersonano il pulsare del desiderio femminile spinto fino al grottesco, con Toni che guarda da lontano, e rifugge, le ragazze scollate e scollacciate di Micaela Casalboni, Silvia Lamboglia, Alice Melloni. Si cammina nella zona golenale e appare l’acqua. Qui Marco Cavalcoli, su una zattera, sotto la luna, è l’ultimo Ligabue, il più toccante forse, con quella erre pesante, un po’ tedesca, un po’ parmigiana, con quello scavare le parole lasciandosi trasportare dai silenzi, le solite frasi, di emarginazione, di paura del mondo, di ricerca di purezza, di sguardo negli occhi e nei colori degli animali, di desiderio, di coscienza assoluta di sé, di bisogno degli altri che lo escludono. Ripiegato, si specchia nel proprio riflesso nell’acqua, sotto la luna, un pianeta, una stella. Mentre più avanti lampeggia l’anima di questo bello spettacolo nelle note evocate per strappi, per profondi armonici e lievi dolcezze dalle corde di una viola, dall’apparizione di Danusha Waskiewicz, dell’Orchestra Mozart, azzurra visione, voce cantilenante sull’acqua dove passa su antica barca Ligabue ormai ombra. Per tornare, alla fine, nella piazza, di nuovo al rito del funerale con rampogna contro il paese crudele, attento solo al crescere delle quotazioni dei quadri, al rimpianto per le tele lasciate marcire, per le fiancate di Apecar dipinte da Ligabue mandate a rottamare, in una metafora della nuova Italia innamorata solo del denaro, dell’arricchimento.

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