Colpi di scena

26 Settembre 2025

Dove va la drammaturgia italiana? Giovane e non solo giovane? Un buon osservatorio è il festival Colpi di scena, organizzato ogni due anni da Accademia Perduta / Romagna Teatri, in collaborazione con l’Associazione Teatri Emilia Romagna (ATER), tra Forlì e alcuni centri vicini. In quattro giorni scorrono, per un pubblico principalmente di addetti ai lavori (ma non esclusivamente), sedici spettacoli, quattro al giorno, fornendo un regesto delle novità che aspettano lo spettatore nella prossima stagione e nelle successive. Molte sono le anteprime o le prime. Si tratta, in genere, di produzioni di teatri e compagnie indipendenti, selezionate dai due direttori artistici del teatro stabile di innovazione forlivese, Claudio Casadio e Ruggero Sintoni. Testi “ben fatti”, con qualche punta noir e tentativi di scavi psicologici, testi di dichiarazione politica, indagini sul mondo dei media e in particolare dei social, sempre più presenti nell’antica arte teatrale, poche creazioni che hanno al centro principalmente il corpo, con corredo di suoni, luci, oggetti di scena, testi grotteschi, pièce di nostalgia del mondo del circo, tentativi di portare la serialità televisiva nel teatro, relazioni, tante relazioni, e crisi delle relazioni, relazioni malate si succedono a ritmo serrato su vari palcoscenici coinvolti, con una riflessione “sul lavoro teatrale, oggi” a cura di una studiosa e osservatrice di vaglia come Renata Molinari, in dialogo con le compagnie.

Una considerazione va fatta, prima di passare ad analizzare alcuni degli spettacoli visti in due giorni di festival. La maggior parte delle opere presentate si contiene dentro l’ora e mezza, con una prevalenza di pièce che si sviluppano in sessanta, settanta minuti. È un tempo adatto alla velocità dei nostri tempi, a esso adattato, che spesso però non consente di articolare a fondo gli sviluppi (lenti) della costruzione teatrale. Eppure quelle sono sempre di più le durate richieste da teatri e organizzatori, con una vera e propria indicazione ‘drammaturgica’, da parte dei committenti, che sostiene di guardare alla soglia di ricezione del pubblico. All’estero non è così: gli spettacoli inferiori alle due ore sono considerati ‘brevi’ e gli autori si danno altri tempi per sviluppare il loro pensiero e il loro linguaggio. Siamo forse, nel nostro teatro, ormai dipendenti dai ritmi televisivi?

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Masque Teatro, E di tutti i volti dimenticati, ph. Lorenzo Crovetto.

Negli otto lavori visti domina una certa ossessione tematica. Tra i vari spettacoli solo uno, quello di Masque Teatro – eroico gruppo che dagli anni novanta insiste a costruire spettacoli rigorosi e ‘difficili’ – incrocia azione puramente fisica, suoni, scene, suggestioni visive. In E di tutti i volti dimenticati Eleonora Sedioli, con l’ideazione, le scene e le luci di Lorenzo Bazzocchi, ci porta in un viaggio nell’attesa, nella tensione che si tramuta in disarticolazione meccanica, quasi psicotica del corpo, in una scena di vecchie porte rugginose, di sibili e soffio di venti, rumori di crolli, tra un tavolino con una bottiglia e un altro luogo dove si trova un cesto con piccole pale spinose di fico d’india in scarsa luce, luogo di tensione della performer. L’inizio è avvolgente. Con rumori, sfiatamenti, colpi. Poi tutto si concentra sull’azione fisica, che cerca di arrivare a uno stato di calma e continuamente ricade nel movimento convulso, che si animalizza, si contorce, diventa robotico. La profondità spaziale e sonora iniziale si attutisce e tutto, forse troppo a lungo, si concentra nella prova incisiva ma ripetitiva della figura umana.

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Carrozzeria Orfeo, Misurare il salto delle rane, ph. S. Infantino.

Misurare il salto delle rane di Carrozzeria Orfeo, interpretato da brave attrici, ci sposta in un teatro di testo, con misteri e momenti noir, resi generalmente innocui da un eccesso di melodrammatico e da ironici alleggerimenti, proponendosi con una certa pretenziosità rispetto al risultato come “un’indagine poetica e tragicomica sulla condizione umana contemporanea” (dal programma di sala). Elisa Bossi, Marina Occhionero e Chiara Stoppa affrontano tre tipi umani e di donne diversi, caratterizzati con qualche punta di compiaciuto macchiettismo.

Uno spettacolo italiano di e con Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi naviga nei reami della tautologia ideologica. I due autori e attori, con fama di “ragazzi terribili” del teatro italiano – innamorato Fettarappa dell’eccesso grottesco e Borghesi di un teatro verità che porti in scena i protagonisti di sfruttamenti, emarginazioni e lotte – non vanno oltre i luoghi comuni di destra sull’italianità, toccando solo in un punto, tangenzialmente, un momento di scavo più interiore sulla ‘destra’ che alligna in molti di noi.

Così Several Love’s Requests (369gradi/Pietro Angelini/Pietro Turano) allinea situazioni di chat erotiche maschili, disegnando tipologie di desideri, senza forza di sintesi drammatica.

La fame di Les Moustaches impone, con una caratterizzazione colorita che vorrebbe toccare punte di rabelaisiana deformazione, una storia di appetiti smisurati, eccessivi, totali, richieste di prove d’amore estreme tra Virtuosa e Sacrestano, che però alla lunga stanca lo spettatore trasformandosi in pura saturazione per eccesso di parole ricercate, che tentano di sorprendere.

Circo Paradiso è invece una delicata storia d’amore, piena di nostalgia per il mondo ‘magico’ del circo: un po’ romantica, un po’ ingenua, senza troppi disincanti che non siano malinconici, adatta a un pubblico giovane.

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Fettarappa-Borghesi, Uno spettacolo italiano, ph. Michele Lapini

Un discorso più complesso va fatto per due opere, tra le otto viste, in sviluppo. Scatenare incendi del Gruppo della Creta (che gestisce il teatro Basilica a Roma), con il testo di Pier Lorenzo Pisano e una “writer’s room”, come nelle fiction seriali televisive, è appunto un tentativo di serie da realizzarsi a teatro. Quella che abbiamo visto è una prima puntata, prova e promo, che continuamente fa riferimento alle “puntate precedenti” e alle “puntate successive”. Il ritmo è abbastanza tranquillo, senza troppe accelerazioni melodrammatiche, perlomeno fino a un certo punto. La storia ruota intorno al primo compleanno di una bambina, in una famiglia formata da due coniugi (i genitori della piccola), il fratello, la sorella e la madre della moglie, in un casale in campagna. Dopo una prima parte che delinea i tipi, con le loro aspirazioni e le loro crisi e idiosincrasie, c’è il momento della festa di anniversario e poi quello in cui i genitori staccano per un paio di giorni dalla cura dell’infante, affidandola alla sorella. E qui avviene il disastro, che scombinerà le relazioni familiari.

La scenografia presenta uno ‘spezzato’ visto da dietro, nella sua intelaiatura, a disegnare quasi il ‘vuoto’ di uno schermo televisivo. Dietro, sul fondo, gli altri elementi hanno colori di cieli di diverse tinte. Il fuoco è in agguato. Anche nelle recite degli attori: qualcuno ogni tanto prende un microfono e si slancia in un monologo interiore di forte, ma stereotipo, impatto lirico, come uno svelamento di sentimenti.

La cosa più forte di questo testo, a mio parere, è quel continuo riferimento alle “puntate precedenti” e alle “puntate successive”: a una vita fatta di catene di eventi, di determinazione, di passi già segnati, una volta per tutte. È un determinismo che dà spessore a una storia banalotta. Potrebbe disperdersi se lo spettacolo entrasse davvero a fare parte di una serie, come pare sarà. Qui è allusione quasi metafisica. In una serie risulterebbe solo come il tentativo di riprodurre la televisione con altri mezzi.

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Claudia Marsicano in La diva del Bataclan.

Ancora un’anteprima è La diva del Bataclan, “un musical ispirato alle false vittime degli attentati di Parigi”, con regia, drammaturgia e liriche di Gabriele Paolocà (in libera uscita dal premio Ubu VicoQuartoMazzini), con l’interpretazione di Claudia Marsicano e le musiche originale di Fabio Antonelli, una produzione Cranpi. Lo spettacolo raggiungerà la sua forma definitiva al debutto a Romaeuropa Festival (dal 28 al 30 ottobre al teatro Vascello di Roma), ma già dalla scorsa estate sta girando per prove aperte e anteprime. Narra la storia di Audrey, una ragazza di periferia, sola, che crede che “la realtà uccide, la finzione salva”. Una che vive in rete, inventandosi identità fittizie. Fino a indossare quella di una ragazza scampata alla strage perpetrata da terroristi islamici al Bataclan di Parigi, durante un concerto metal il 13 novembre del 2015. Audrey entra in un’associazione di vittime e concorre a organizzare un memorial della strage, dove però la sua finzione viene scoperta.

In scena, tra proiezioni dal computer, canzoni, discese in platea, momenti di simulazione e di simulata confessione, c’è una sola attrice. Straordinaria, anche in questa fase dello spettacolo che ancora ha bisogno di acquistare fluidità e di legare meglio certi snodi. Lei appare in proiezioni su un fondalino a strisce, lei proietta le sue scritte, i suoi appelli. Ma soprattutto invade la scena con la sua fisicità debordante, con il suo volto giganteggiante, con il suo corpo oversize e leggerissimo che riempie il palcoscenico e nello stesso tempo lo svuota, svuotando noi che guardiamo, persi nella bravura dei suoi passaggi melismatici, dei suoi arditi voli vocali, persi nel vuoto di una vita che si riempie solo rappresentandosi, giganteggiando, alla fine disfatta, su uno schermo. Aspettiamo che allo spettacolo sia data ancora qualche scossa per farlo diventare “virale”, come sogna la disperata protagonista di banlieue, abituata alla compagnia illusoria di amici immaginari.

L’ultima immagine è un ritratto di Claudia Marsicano in La diva del Bataclan.

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