Ancora Shakespeare: Latella e Lidi
Un Riccardo III senza gobba né altre deformazioni fisiche: piuttosto bello, affascinante, seduttore in un giardino di rose, bianche come il simbolo della casa di York. Un Amleto maturo clown imbiaccato come uno di quegli ectoplasmi che popolavano le cronache teatrali e circensi di Angelo Maria Ripellino, lunare strisciante sbraitante fool deformato dal dolore che assomiglia, anche grazie alle protesi innestate sul corpo suo e su quelli degli altri personaggi, al re Ubu di Jarry.
Ancora Shakespeare. Hanno debuttato a distanza di poco tempo due nuovi spettacoli su testi del Bardo: a Perugia, per il Teatro Stabile dell’Umbria (coproduzione Lugano Arte e Cultura) il Riccardo III ritradotto da Federico Bellini e adattato a due ore e quaranta (compreso intervallo) dallo stesso Bellini e da Antonio Latella, che firma la regia. A Torino, per lo Stabile, un nuovo Amleto con traduzione e adattamento di Diego Pleuteri, drammaturgo cooptato di recente a condirettore under 35 del Teatro, e la regia di Leonardo Lidi, per un po’ meno di due ore di durata. Il primo dato che salta agli occhi in entrambi gli spettacoli è il tentativo (riuscito) di rendere i testi più veloci della quattro cinque ore che ci vorrebbero per metterli in scena integralmente. Pèrdono lentezze psicologiche e dialogismi barocchi (non tutti) e diventano più adatti alla percezione dei nostri tempi, pop e politici insieme. Sono basati entrambi su idee forti che mutano l’immagine tradizionale di pièce con una lunga tradizione; la regia diventa vera nuova creazione, o meglio compie quell’azione che tutti siamo abituati a fare quando leggiamo un’opera: se la figura, la interpreta, se la lascia sognare e la misura con i tempi in cui trascorriamo le nostre vite.

Il Serpente nel Paradiso terrestre
Il duca di Gloucester secondo Latella non mostra nel fisico la deformità morale, non è sciancato, zoppo, ributtante. Anzi, interpretato da un superbo Vinicio Marchiori, è affascinante, energico, capace di intessere sfumature infinite nei suoi discorsi, dalla perorazione all’ingiuria allo sdegno al tentennamento simulato alla sottigliezza sofistica alla capacità di convincere attraverso il ricatto o il fascino. Assomiglia più che al Riccardo III della tradizione teatrale, anche di quella meno tradizionalista, da Ronconi a Carmelo Bene, all’angelo ribelle caduto, quello che rende l’Eden aperto alla tentazione, insano, pericoloso, invivibile, peccaminoso. Al centro della scenografia concepita da Annelisa Zaccheria e composta di cespugli di rose bianche c’è un albero cavo, bruciato. Quella che sembra la corteccia in realtà sono ali brunite, quelle dell’angelo caduto, dello “spirito che nega” del Mefistofele di Boito, quello che zittisce i fiori, il canto degli uccelli paradisiaci e apre la vista sugli infiniti crepacci del male. La colonna sonora firmata da Franco Visioli fatta di voci della natura, all’inizio, sarà esplicitamente messa a tacere da Riccardo, che inizia a tessere i suoi intrighi, a mandare pretendenti al trono nella torre di Londra, a lasciare vedove o senza figli le donne regali d’Inghilterra, tranne sedurre poi con le proprie arti retoriche Anne, costringendola/convincendola a sposarlo.
Latella dà largo spazio agli interventi delle donne, in molte edizioni sacrificate, tagliate. Sono strepitose, ferite presenze, che cercano di contrastare il protagonista con le ragioni del sangue insidiato: l’orgogliosa e volitiva regina Elisabetta di Silvia Ajelli, la desolata anziana regina madre di Anna Coppola, la regina Margherita di una incontenibile, furiosa Candida Nieri, l’Anne intensissima, scarmigliata all’inizio poi domata, di Giulia Mazzarino, ferita e pure affascinata dal Duca di Gloucester, pedina del suo cammino verso l’ascesa al trono.
Siamo in tempi di congiure e delitti, in cui ognuno cerca di spostare la bussola della corte a proprio vantaggio; in un regno in cui dei sovrani legittimi si attende la morte e in cui non ci si può fidare di quelli che appaiono amici, perché la loro vicinanza è solo frutto di calcolo. Sembrano tanto vicine al nostro presente di guerre indistricabili quella corte lontana nel tempo, quella lotta fratricida tra la rosa bianca di York e quella rossa di Lancaster, dove all’interno della fazione bianca cova ancora l’agguato, il delitto, la condanna a morte per sostituire chi ha il potere, senza nessuna pietà per figli, bambini, innocenti.

Lo spettacolo è tetro nello splendore della scena che insinua l’idea del Serpente nel Paradiso terrestre. Con pessimismo mostra l’azione inarrestabile del male in un luogo che potrebbe essere ameno, del Male senza sconti né gradazioni, se non affidate alla simulazione, alla parola ingannevole, all’incanto come travisamento della realtà per scopi sordidi. In quell’Eden violato, pericoloso, c’è un giovane Custode (Flavio Capuzzo) che, come angelo imbracciante una spada verbale, decreta le morti con un Amen, come in certi giochi di bambini, come in credenze che vorrebbero che il passaggio dell’angelo e il suo Amen bloccassero in immobilità di pietra la vita.
Lui, discreto, in un angolo, mentre uccelli e ruscelli vengono fatti tacere, quando le azioni raggiungono le loro acmi di perfidia, immobilizza i personaggi, trasformandoli in burattini passati a miglior vita. Intorno a lui si dipanano i nodi della politica e i ghirigori dialettici delle tirate barocche di Shakespeare. Sembra di dover per forza dare ragione a Jan Kott quando nel suo libro ultrafamoso e supercitato diceva che Shakespeare è nostro contemporaneo. Certo, la metafora del Paradiso stuprato usata da Latella rende lo spettacolo ancora più profondo, vicino a colorature metafisiche.

In questo campo di battaglia al fioretto (e spesso alla scure spaccateste) la prima parte della pièce, per quanto abilmente sfrondata, rimane abbastanza complessa: ma è quella dove si intrecciano le congiure, gli assassini, gli odi, le mire di potere, con le voci delle donne che costituiscono come un coro di monologhi rabbiosi e domati e con gli uomini che incarnano le doppiezze della politica e le sconfinate plaghe miserabili dell’odio, con i bravissimi Sebastian Luque Herrera, Luca Ingravalle, Stefano Patti, Annibale Pavone e Andrea Sorrentino che danno corpo a una decina di personaggi, passando dall’uno all’altro con un cambio di postura o indossando accessori come parrucche.
La seconda parte diventa una sfilata di fantasmi: schierati sullo sfondo di plastica lucente, i personaggi giustiziati o assassinati ricompaiono in luci violente come incubi di Riccardo prima della giornata finale di battaglia, in un momento di rara suggestione visiva e di incalzante resa dei conti psichica.
Nella resa dei conti finale la scena e il pubblico sono in piena luce: in questa regia le ombre stanno tutte nelle parole, nelle pieghe del discorso (l’impianto luministico è di Simone De Angelis, i bei costumi sono di Simona D’Amico). Nello scontro decisivo trionferà Richmond contro Riccardo, inaugurando dai conflitti tra le due rose una nuova dinastia, quella dei Tudor.
Shakespeare arriva sempre, nei drammi storici, a una composizione dei molti conflitti, ma la carne del testo sono proprio quegli scontri feroci, quelle ambizioni, e in questo caso lo smagliante, ambiguo, fascinoso maramaldeggiare di Riccardo, che apre una domanda radicale sul nostro rapporto di ripulsa e attrazione con il male. Eliminato l’Angelo ribelle, l’Insinuatore, il Tentatore, cosa sarà del Paradiso terrestre? Tornerà a consolarci con le sue voci arcadiche o in esso rimarrà sempre come eco la maledizione inestirpabile della presenza del Serpente?

Amleto imbiaccato in arena di circo
Amleto è un clown, secondo Lidi. In un’arena bianca, abbacinante, simile a pista di circo o a gradinata teatrale, con i personaggi disseminati in mezzo a moncherini di teste poggiaparrucche di manichini. Tutti i personaggi sono imbiaccati, e indossano protesi che li rendono simili a fantocci. Lo spettro del padre è un pupazzo dalla larga bocca mobile e dalle lunghe braccia avvolgenti creato da Damiano Augusto Zigrino e Silvia Fancelli, che costruiscono anche il fantasma di Yorick, il buffone morto. Claudio, il re usurpatore (Nicola Panelli), ha un abito rosso come il sangue del tradimento e una bocca listata di quello stesso colore sul trucco bianco. Gertrude (Ilaria Falini), la madre fedifraga di Amleto, calza una parrucca arancione, ha labbra rosse e una lunga larga gonna che scende fino ai piedi, anche lei tutta imbiaccata. Rosencratz (Alfonso De Vreese, che interpreta anche Laerte) e Guildenstern (Chistian La Rosa, che è anche l’intellettuale Orazio) sono due prostitute con seni di cartapesta e lunghe parrucche. Polonio (Rosario Lisma) è intabarrato in un abito curiale che ne nasconde le forme, con colletto a gorgiera. Ofelia (Giuliana Vigogna) ha un busto-pancia che la rende ampia, deforme, e quando Amleto la rifiuterà indosserà una spada che sembra trafiggerla. Amleto è affidato a un attore più maturo del personaggio, ma capace di offrire risonanze grottesche, profondamente e asciuttamente circensi, al principe, che simula la follia per scoprire la verità sull’assassinio del padre. Si isola e recita spesso su un piccolo praticabile aggettante verso la platea, su un precipizio dell’anima. È Mario Pirrello, anche lui imbiaccato, con una parrucca a caschetto che ricorda messe in scena del passato della storia del malinconico prence.

Siamo nell’esteriorizzazione teatrale dei caratteri dei personaggi, in un’interpretazione che, come quella di Latella, si discosta dalle tradizioni della regia come demiurgia, facendo crescere lo spettacolo in un lavoro continuo di confronto con gli interpreti e gli altri collaboratori. Ci troviamo in quella che il regista, Lidi, ha definito una Factory, una compagnia abbastanza fissa di giovani e meno giovani che hanno collaborato varie volte presso la Stabile di Torino, molti dei quali, compreso il regista, si sono incontrati e conosciuti in quel progetto fondante delle nuove energie del nostro teatro che è stato Santa Estasi con la regia di Antonio Latella per Emilia Romagna Teatro, momento didattico sfociato in vari spettacoli che avvicinavano la tragedia greca ai nostri giorni e alla nostra sensibilità, un filo rosso che percorre il lavoro di molti artisti della scena odierna in cerca di un senso di necessità al teatro e al viaggio dentro i classici.

Lidi anche nella recente trilogia čechoviana aveva sfrondato, velocizzato, abbreviato, andando alla radice degli scontri e dei sentimenti. Il teatro deve parlare alle nostre sensibilità, aprire questioni, sfondare pareti, allargare l’occhio su scenari nuovi, interiori, per noi, oggi. La follia in questo caso è esibizione clownesca, gioco di un fool che si degrada e si innalza, rinunciando ai giochini compiacenti del mestiere e sfuggendo dai meccanismi noti della ragione, per smascherare il potere. “Trattare bene gli attori, perché sono l’essenza di un’epoca” desume Lidi da Shakespeare, e continua, nel programma di sala, a proposito degli attori: “Non intrattenitori, ma corpi attraverso cui la società può ancora guardarsi allo specchio”. E poi: “per smascherare la corruzione del re, per rappresentare le nefandezze di chi ci governa, di chi ci uccide il padre e ci fotte la madre, abbiamo bisogno di una trappola, una trappola per topi, una trappola chiamata teatro”. È la scena degli attori scritturati da Amleto, che con una recita smascherano il crimine di Claudio.
Allora, come rendere nuovo, attraente, un testo tante volte inscenato? Calcando quella teatralità, esagerandola, mutandola in farsa come Jarry aveva fatto con il Macbeth riversato in quel burattino crudele e senza regole che è Ubu; rendendo circense, lunare, la follia di Amleto e l’ipocrisia, il letto di contenzione, la camicia di forza che vorrebbero imporgli gli altri personaggi per governarlo, ridurlo a ‘ragione’, renderlo inoffensivo. Intorno a lui un balletto di maschere, compreso il pupazzo del padre, un mondo davvero “fuori dai cardini”, come recita una famosa battura. “Perché sopportare le violenze di chi comanda?” ripete il famoso monologo “Essere o non essere”, reso scorrevole, con un linguaggio piano, quasi quotidiano, efficace.

In questo mondo di maschere, tra cortigiani che vogliono mantenere l’ordine delle cose vigente, interpretati da attori perfettamente immedesimati e distanti come orpelli o macchine del potere, e Amleto, che viceversa vuole alterarlo quell’insopportabile stato cimiteriale, usando il mascheramento per rivelarlo, si svolge la via crucis della smarrita Ofelia, un’intensissima Giuliana Vigogna. Dall’amore e dall’entusiasmo un po’ bambolesco per quel buffone di Amleto, passa al rimpianto, materializzato in giocattoli, trastulli della comune infanzia; trascorre all’inebetita incomprensione di ciò che sta succedendo, alla spada di plastica che sembra infitta nel suo corpo di Pierrot attonito, sanguinante malinconie di luna. Arriva al suicidio, atto estremo di rivelazione.
La bella scena di Nicolas Bovey (con i costumi fantastici di Aurora Diamanti) si squarcia per le troppe finzioni, i troppi crimini: appare il fondo nero della sala che precipita la storia nella tragedia che già incombeva nelle note straziate e pagliaccesche della finzione. Il bianco, il ghigno, vengono sommersi dal trionfo della morte, dallo sterminio finale. “Teatro specchio della natura” dice Amleto ai commedianti: specchio deformante, magari, che stravolgendo rivela; che prova a portare alla luce i flussi più misteriosi, più intimi, più crudeli dell’essere umano, costretto a nascondersi come una bestia braccata, imbiaccata.
Amleto in questa stagione si è visto solo a Torino. Riccardo III ha in programma una lunga tournée che toccherà molte città italiane. Sarà allo Strehler di Milano dal 12 al 30 novembre, alla Pergola di Firenze dal 2 al 7 dicembre, al Carignano di Torino dal 16 al 23 dicembre, al Duse di Bologna dal 30 gennaio al 1° febbraio, al Piccinni di Bari dall’11 al 15 febbraio, al Mercadante di Napoli dal 18 febbraio al 1° marzo.
Le foto di Riccardo III sono di Gianluca Pantaleo; quelle di Amleto di Luigi De Palma.
 
   
         
         
       
         
         
         
        