Che cosa fa di quell’automa un automa specificamente jihadista? / Il supermusulmano

20 Giugno 2017

Nell’inarrestabile sequela di attentati rivendicati da organizzazioni fondamentaliste islamiche che a partire dall’11 settembre hanno scosso e stanno scuotendo l’Europa e il mondo, quello di mercoledì 7 giugno 2017, perpetrato in duplice forma contro il Parlamento iraniano e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini a Teheran, merita una riflessione particolare e un pezzo di costume. 

Una riflessione particolare: perché nell’inevitabile quanto fuorviante semplificazione con cui tendiamo a leggere il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, finiamo troppo spesso intrappolati nella retorica ideologica e geopolitica “noi vs loro”, e abbracciamo un quadro in bianco e nero che riduce quel complesso clash of civilizations di cui parlava Samuel Huntington a una contrapposizione “Occidente vs Islam”. Ma l’attentato di Teheran (capitale di uno stato a maggioranza sciita) è stato subito rivendicato dall’Isis (di ispirazione sunnita) attraverso l’agenzia di propaganda Amaq, ripresa e amplificata dall’emittente saudita Al-Arabiya. 

 

Un pezzo di costume, alla lettera: poiché pare che gli attentatori si siano infiltrati nel Parlamento vestiti da donna, cioè protetti da un burqa che sottraeva agli sguardi indiscreti delle guardie all’ingresso non solo la loro identità, ma anche il loro mortifero bagaglio di armi ed esplosivi. E i loro dispositivi wearable, per filmare in diretta e postare simultaneamente il video delle loro gesta.

Quella riflessione particolare ci induce a dismettere definitivamente la schematica antitesi Occidente vs Islam, ricetta che viene sempre di nuovo servita come se si trattasse di uno scontro planetario fra valori supremi di incompatibili culture. E ci suggerisce piuttosto di adottare il termine di “jihadosfera”, che da qualche tempo a questa parte viene impiegato per designare un intricato ed eterogeneo arcipelago di organizzazioni, cellule, dottrine, che intreccia in maniera indissolubile teologia, politica, economia, e che non di rado si esprime in una serie di sanguinosi attacchi rivolti da organizzazioni fondamentaliste islamiche ad altri gruppi musulmani. L’Iran del resto conosce bene tale arcipelago, lo ha già provato sulla propria pelle: è del luglio 2010 un attentato realizzato da estremisti sunniti che uccide 29 persone in una moschea nella città sud-orientale di Zahedan. 

 

Quel pezzo di costume deve invece inquadrare questo significativo episodio di travestitismo alla luce dei regimi di visibilità e invisibilità del corpo – maschile e soprattutto femminile – adottati nelle culture islamiche più o meno fondamentaliste. Variamente modulato secondo una scala progressiva di occultamento della figura – dallo hijab al burqa, passando per il chador e il niqab –, il velo filtra fino allo sbarramento totale l’accesso ottico da parte dell’uomo al corpo della donna, sigillando in un vincolo strettissimo le pratiche del potere e quelle del desiderio. È un dispositivo che non cessa di interrogare e di inquietare il regime scopico occidentale, informato (almeno in linea di principio) alla trasparenza e alla totale visibilità, e che raggiunge il culmine del paradosso nei selfies con i quali si immortalano in foto di gruppo donne musulmane la cui fisiognomica individuale è azzerata dal burqa che le inghiotte (su questo e altri paradossi, e sui molti stereotipi e pregiudizi che avvolgono – che velano – i nostri discorsi sulla questione del velo, ha scritto pagine molto illuminanti Bruno Nassim Aboudrar nel suo Come il velo è diventato musulmano, Raffaello Cortina 2015).

 

Già nel novembre del 2013 il ventisettenne cittadino inglese di origini somale Mohammed Ahmed Mohamed, sottoposto a misure restrittive da parte dell’antiterrorismo britannico, si era dato alla macchia en travesti, sfilandosi la cavigliera elettronica e infilandosi in un burqa. Ora a Teheran il burqa diventa a tutti gli effetti un elemento costitutivo del kit del terrorista, insieme all’AK-47 e alla cintura esplosiva. Si può prevedere che lo stratagemma farà scuola. Indurrà anche a riconsiderare i protocolli di ispezione sui corpi femminili coperti? 

 

Il fondamentalismo islamico non è tenero con le tendenze al travestitismo e più in generale con le questioni transgender e con tutte quelle pratiche che si pongono al di fuori del tradizionale rapporto uomo-donna, omosessualità inclusa. Uno dei capitoli più eloquenti di Non aspettarmi vivo (Einaudi 2017), il libro scritto dalle giornaliste Anna Migotto e Stefania Miretti, ci racconta la storia di Souror (Sharky per gli amici), una ragazza tunisina transgender di ventitré anni, ingegnere del suono per una emittente televisiva. Sharky, che tiene il Corano sul comodino, deve vestirsi con le maniche lunghe per coprire i tatuaggi, portare un finto anello di fidanzamento al dito. Nonostante questi travestimenti è costretta a usare il taxi per recarsi al lavoro, perché sui mezzi pubblici viene verbalmente aggredita dai “barbuti”, che le contestano i suoi abiti maschili, i suoi piercing, l’assenza del velo. Dalle parole si passa poi ai fatti: un’aggressione davanti a casa, calci, e un coltello nella pancia (la cicatrice presto dissimulata dall’ennesimo tatuaggio). Allora la fuga: un tragitto rocambolesco attraverso la Serbia, l’Austria, la Germania, e l’approdo a Bruxelles, in un centro di accoglienza vicino a Molenbeek. “Incredibile: in quel quartiere c’erano proprio le persone dalle quali ero appena fuggita. Avevano le stesse idee, gli stessi atteggiamenti dei tunisini che mi insultavano per strada, l’unica differenza stava nel fatto che si trattava di ragazzi nati in Europa”. Il 22 marzo 2016 esce alla fermata Maelbeek della metropolitana, giusto un treno prima di quello su cui si sarebbe fatto esplodere Khalid El Bakraoui. Scampa all’attentato, ma non alle minacce (recapitatele da un account con la bandiera nera di Daesh), non al coltello (che la raggiunge nuovamente sotto casa, a Etterbeek): “Non posso più restare in Belgio – confida su Skype alle giornaliste –, ci sono troppi musulmani qui”.  

 

La banalità dell’orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti: è il sottotitolo del libro di Migotto e Miretti che hanno pazientemente raccolto una serie di storie sui ragazzi convertiti all’Isis e alle promesse del Califfato (ragazzi che sono partiti e sono già morti, o che stanno tutt’ora combattendo in Siria, o che dopo esser partiti hanno cercato di rientrare, non tutti riuscendoci, e quelli che ci riescono finiscono in carcere). Queste storie sono punteggiate dalle testimonianze dei loro amici attoniti rimasti a casa, delle loro famiglie sconvolte. Il campo dell’inchiesta è stato soprattutto la Tunisia: “La nazione tra le più istruite, tolleranti e occidentalizzate del Maghreb, premio Nobel per la pace 2015 e patria dell’unica primavera araba ancora protesa verso un possibile lieto fine, è ancora quella che ha fornito allo Stato islamico il maggior numero di foreign fighters”. Storie di rapper e di ballerini di break dance, di giovani gaudenti con buoni voti all’università (no, i neo-arruolati non vengono innanzitutto reclutati nelle classi sociali disagiate e disperate), che dall’oggi al domani scoprono il fascino di un Corano iper-rigorista sintetizzato per i 140 caratteri di Twitter o per un post su Facebook.

 

Fra le molte possibili ragioni che possono aiutare a comprendere un fenomeno che spesso si configura come un’avventura di gruppo fra amici, le due autrici sottolineano il ruolo giocato da quel processo di forzata de-teologicizzazione del paese condotto con sistematicità da Bourguiba e dal suo successore Ben Ali: imponendo un laicismo fondamentalista e desertificando ogni risorsa religiosa del popolo tunisino, la linea secolarizzata dei due presidenti avrebbe prodotto un vuoto nel bisogno di credenze e di ideali, alimentando quell’humus sul quale avrebbero potuto poi attecchire con facilità le lusinghe dell’Isis. A questa ipotesi va aggiunta una considerazione statistica e sociopedagogica: sembra non si annoverino fra i giovani entusiasti studenti o laureati in materie umanistiche; ingegneria la fa da padrona, e poi medicina, informatica, discipline tecniche, economia. Daesh finirebbe dunque per corrispondere a una sorta di sete metafisica, risultando fortemente attrattivo per giovani spiritualmente disidratati dal combinato disposto di secolarizzazione e razionalizzazione tecnicistica. 

 

Opera di Abbas Kowsari.

Opera di Abbas Kowsari.


Sempre statistico, ma questa volta anagrafico, è il dato secondo il quale i due terzi dei radicalizzati hanno tra i 15 e i 25 anni. Su questo range ci invita a riflettere Fethi Benslama, psicoanalista e docente di Psicopatologia clinica all’Université Paris-Diderot nel suo recente volume Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano (Raffaello Cortina 2017). Si tratta di un periodo che corrisponde a una prolungata adolescenza, che fa seguito a un’infanzia sempre più breve (fenomeno che interessa la contemporaneità non solo occidentale): “Se il bambino si pone come terapeuta della sua famiglia, si può dire che l’adolescente crede di poter essere il guaritore del suo gruppo sociale – il salvatore della società, se non dell’umanità”. A dominare l’adolescente sono in primo luogo due componenti fondamentali: l’idealità e l’identità. 

La ricerca di ideali che consentano al giovane soggetto di connettere l’individuale e il collettivo, la propria generazione a quelle precedenti e a quelle future, si dispiega in un momento di “disidealizzazione” (caratterizzato da noia, depressione, senso di vuoto) seguito da una fase di “reidealizzazione” (contrassegnato da esaltazione, passione, desiderio di trasformazione del mondo, pienezza del senso). In questa congiuntura critica, l’offerta jihadista costituisce una vera e propria “seduzione narcisistica degli ideali”. La ricerca dell’identità – analogamente articolata in una fase di “deidentificazione” e di “reidentificazione” – esprime l’esigenza di liberarsi del Sé infantile e di reinventarsi un nuovo profilo identitario, il proprio posto nel mondo.

 

La peculiare fragilità di questa condizione, con tutte le ansie e angosce annesse e connesse, viene efficacemente affrontata e a suo modo risolta da un miraggio esistenziale che ipnotizza l’adolescente: “Il soggetto ne guadagna una sedazione dall’angoscia, un sentimento di liberazione, degli slanci di onnipotenza. Diventa un altro, sceglie un altro nome. Adotta comportamenti identici ai membri del suo gruppo”. Brucia le fotografie della sua precedente vita. Si fa automa (clone, direbbe il W.J.T. Mitchell di Cloning Terror). 

Fin qui, però, assistiamo a una dinamica non specificamente islamica: una dinamica che aveva ben delineato il Freud della Psicologia delle masse e analisi dell’io, e che si è tragicamente concretizzata nei regimi totalitari novecenteschi. Che cosa fa di quell’automa un automa specificamente jihadista? Che cosa lo rende un supermusulmano? Il soggetto candidato alla radicalizzazione viene colpevolizzato e accusato di aver distrutto le proprie radici, di non aver condotto una vita all’altezza del puro ideale musulmano. Oppure viene convinto di essere la vittima di uno sradicamento operato dai genitori (troppo laici, troppo tolleranti) o dallo stato, di una ferita aperta nel lontano 1924 (con l’abolizione del Califfato ottomano per mano del padre della Turchia moderna, Kemal Atatürk), poi approfondita con gli innumerevoli soprusi ai danni delle comunità islamiche nel mondo da parte di un Occidente arrogante e infedele, e mai più rimarginata. Una ferita della quale lui può ora essere il grande riparatore e vendicatore.

 

Equidistante dai suoi acerrimi nemici – l’occidentale e il musulmano occidentalizzato – il supermusulmano è (Benslama ne ha conosciuti parecchi nel suo punto di osservazione e di ascolto: un consultorio pubblico di Seine-Saint-Denis) un musulmano profondamente ossessionato dalla convinzione di non esserlo a sufficienza, persuaso di aver perso le sue radici – o di non averle mai avute, come i neo-convertiti –, e di doverle al più presto ritrovare non sulla terra, ma in cielo, sacrificandosi come martire in un entusiasmo che non conosce né sfumature né grigi, né incertezze né oscillazioni. Come osserva Sara Guindani nella limpida prefazione che accompagna l’edizione italiana, il supermusulmano è “un soggetto incapace di quella dose necessaria di ambivalenza che struttura ogni psichismo sano”, dominato dalla logica “di separare fittiziamente e insidiosamente l’altro e lo stesso, l’autentico dall’inautentico”.

Quasi un secolo di islamismo ha scrupolosamente preparato l’avvento del supermusulmano: Benslama respinge tanto la tesi “essenzialista” (che interpreta la violenza e il terrore come consustanziali all’Islam), quanto la tesi “storicista” (che spiega il terrore islamista come un prodotto diretto dello strapotere occidentale), per proporre una lettura dell’islamismo come progetto utopico portato avanti da una parte di musulmani che puntano all’abolizione della separazione fra potere politico temporale e autorità religiosa, al fine di assorbire totalmente il politico nel teologico. Il supermusulmano è il braccio armato di tale progetto. Un braccio che finisce per rivolgersi contro quello stesso Islam che dice di voler difendere e ripristinare, secondo quella sindrome autoimmune che Jacques Derrida aveva diagnosticato per lo stesso Occidente all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle.

 

Si può intravedere una via d’uscita? Nella sua prospettiva “psicopolitica” Benslama ricorre al dispositivo (così caro a Lacan) dello specchio per delineare un possibile superamento del supermusulmano: durante il regime di Ben Ali il volto del presidente pervasivamente dominava il paese in migliaia di riproduzioni, offrendosi narcisisticamente come lo specchio nel quale ogni tunisino doveva identificarsi. Una volta spodestato, le sue gigantografie sono state sostituite da un gruppo di artisti con quelle di uomini e donne sconosciuti: “All’utopia dell’occhio unico si è sostituita l’eterotopia degli sguardi”. È questo il segno importante di una possibilità: di un diverso stadio dello specchio in cui la Tunisia, compiendo il proprio passaggio da comunità (Gemeinschaft, fondata sull’appartenenza alla famiglia o al clan) a società (Gesellschaft, incentrata sul contratto sociale riflessivo), in cui eterogenei rapporti di identificazione e disidentificazione rispetto all’Islam possano pacificamente coesistere tanto sul piano soggettivo quanto su quello intersoggettivo. 

La cruda cronaca per ora sembra tacciare giorno dopo giorno questa ipotesi come un’utopia illuministica. C’è da augurarsi che lo specchio nel frattempo non si appanni. 

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