Stefánsson, il tempo delle sequoie

28 Dicembre 2025

“Forse esiste qualcuno che tiene tutto in mano; il destino, il tempo, la vita, il caso, la morte. Forse esistono porte che si aprono su un nuovo mondo, forse Dio è qualcosa di più della buona letteratura e la vita non è solo legata al battito del cuore; l’ultimo palpito e poi subentra il vuoto. Una volta ho chiesto alla nonna della vita dopo la morte, ci credeva? “Ba’,” ha detto, “mica mi interesso a kvesto genere di cose”.

⁠E poi mi ritrovo sulla sua bara”.

Ci sono libri che non si lasciano leggere come una storia, ma come un luogo. Non chiedono di essere seguiti, bensì abitati. Varie cose sulle sequoie e sul tempo appartiene a questa famiglia rara: non ti prende per mano per condurti da un punto A a un punto B, ma ti invita a fermarti, a guardarti attorno, a misurare il respiro, a sentire come il tempo si deposita sulle cose. Il tempo: uno dei temi che Jón Kalman Stefánsson spesso indaga attraverso le vite normali eppure eccezionali di personaggi che si imparano ad amare.

Questo non è un romanzo nel senso tradizionale del termine, né un memoir nel senso canonico. È piuttosto una costellazione di frammenti, un atlante intimo, un quaderno di appunti dell’esistenza che compone la biografia di un autore che nel tempo ci ha abituati a romanzi introspettivi e poetici ma che oggi sente forse il bisogno di raccontarci il suo “perché”: perché ha iniziato a scrivere, perché quel ragazzino dai capelli rossi e con le lentiggini ha sentito il bisogno forte, quasi fisico, di raccontare e raccontarsi. Tuttavia questo non è il primo libro di Stefánsson di ispirazione apertamente autobiografica: prima è venuto Il mio sottomarino giallo, pubblicato sempre da Iperborea nel 2024. In quel caso però, la “verità” dei ricordi dell’autore si mescolava con la fantasia: si era in un parco di Londra, lontano dai luoghi di origine dell’autore, e si incontrava nientemeno che Paul McCartney, seduto sotto un albero. Quell’incontro immaginato fornisce a Stefánsson lo spunto per viaggiare idealmente nel tempo, tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. Realtà e immaginazione si mescolano per ripercorrere una vita capace di spiegarsi e trovare un senso attraverso una penna. La scrittura come forma di comprensione e di spiegazione del mondo che ci regala pensieri come “la vita è una ferita che non si rimargina mai”, facendoci comprendere come buio e luce attraversino costantemente l’esperienza umana, quella dell’autore, quella di tutti noi.

Ma il titolo di quest’ultimo romanzo invece Varie cose sulle sequoie e sul tempo dichiara senza reticenze che non ci sarà un filo conduttore vero e proprio ma, piuttosto, “varie cose”.

In realtà sotto questa apparente dispersione si muove una necessità precisa, quasi ostinata: dire qualcosa del tempo mentre il tempo passa; salvare qualcosa mentre tutto scorre. La memoria come cosa viva, persone che diventano punti di riferimento attraverso ricordi che scorrono in maniera apparentemente disordinata.

Il libro si apre come spesso accade in Stefánsson: in un punto sospeso, tra cielo e mare, sopra i monti e sotto le stelle. È una posizione simbolica che ritorna più volte nella sua opera: stare nel mezzo, in bilico, senza appoggi definitivi: fra cielo e mare, fra consistente e inconsistente, fra memoria e passato, fra vita e morte. Da lì prende avvio una voce che è insieme infantile e adulta, ironica e dolorosa, nitida e continuamente divagante. Una voce che non cerca di ordinare il mondo, ma di attraversarlo.

La prima grande materia del libro è la memoria. Non una memoria ordinata, cronologica, pacificata, ma una memoria che ritorna per immagini brusche, per dettagli apparentemente insignificanti: il colore dei capelli, il sedile posteriore di una Volga, una valigia smarrita, una lingua mista di islandese e norvegese, il profumo di caffè e tabacco di una nonna che si china su un bambino. Sono frammenti che non mirano a ricostruire il passato, bensì a farlo riemergere nella sua potenza sensoriale, incompleta, imperfetta, viva.

k
Credit Bianca Rizzi.

Stefánsson scrive come se il tempo non fosse una linea, ma una massa di correnti che si sovrappongono. Il bambino di dieci anni e l’adulto che ricorda non sono due figure distinte: coesistono, si parlano, si interrompono a vicenda. La narrazione si permette continue digressioni, scarti, ritorni, scivolamenti. Anzi, la digressione diventa il vero metodo del libro. Non c’è mai la sensazione che l’autore “perda il filo”: è il filo stesso a essere concepito come qualcosa che si attorciglia, si allunga, si spezza e poi riappare. Mentre si legge, talvolta si percepisce la volontà di “tornare indietro” e incontrare di nuovo quel personaggio, per ricongiungerlo al “qui ed ora” che stiamo leggendo.

Dentro questo fluire, emergono figure centrali: i nonni, prima di tutto. “Nonna” e “nonno” diventano due parole fondative, quasi due pietre d’angolo dell’esistenza. Stefánsson le definisce capaci di consolare “come una religione, come le sequoie”, e non è una metafora casuale. Le sequoie, alberi millenari, incarnano l’idea di una durata che eccede la vita umana, una verticalità che sfida il tempo. Allo stesso modo i nonni rappresentano una continuità fragile ma ostinata: sono ciò che tiene insieme il prima e il dopo, ciò che resiste mentre tutto muta.

“Nonna e nonno.

Due parole che ti sanno consolare come

una religione, come le sequoie”

Eppure, in questo libro, nulla è idealizzato. La famiglia non è un rifugio edenico: è attraversata da abbandoni, violenze, silenzi, fughe improvvise. Le figure femminili portano spesso il peso di un destino che si incrina: madri che scompaiono, donne che si sottraggono ai ruoli imposti, corpi che si consumano. La morte è una presenza costante, ma mai spettacolarizzata. Arriva come arriva nella vita: improvvisa, ingiusta, fredda come una fronte toccata in una bara. Definitiva. E contro quel gelo, contro quel “muro di ghiaccio” che annienta ogni parola, la scrittura tenta un gesto disperato e lucidissimo: nominare.

Un altro asse fondamentale del libro è la lingua. Stefánsson riflette continuamente sulle parole, sul loro potere e sulla loro insufficienza. Le parole possono salvare, ma possono anche tradire; possono creare mondi, ma anche renderli obsoleti, come le mappe di un atlante superato. C’è una riflessione insistente sull’idea che cresciamo tutti con mappe sbagliate, con nomi che cambiano mentre dormiamo, con certezze che si dissolvono. E tuttavia continuiamo a usare quelle mappe, perché sono tutto ciò che abbiamo.

Il tempo, appunto. Il tempo come grande enigma del libro. Da bambini il tempo non è ancora una categoria: esiste solo l’infanzia, un presente assoluto in cui tutto può accadere. Poi, lentamente, il tempo entra nella vita come una conoscenza superflua e devastante. Scopriamo che tutto invecchia, che tutto finisce, che perfino le stelle si raffreddano e si spengono. Resterebbe solo il tempo, in un universo vuoto. Questa consapevolezza attraversa il testo come una corrente sotterranea di sgomento e lucidità.

I luoghi poi, la loro durezza. In questo romanzo non siamo più in Islanda, ma in Norvegia – per terra, sui fiordi, fra i mari. La durezza di questo paesaggio Stefánsson la esprime attraverso immagini potenti, quasi fotografiche:

 “il nonno mi avrebbe raccontato qualche storia, dei suoi genitori, di certe persone in

particolare, degli anni in mare e del maltempo che si scatena al largo, per esempio in un mese di febbraio degli anni Quaranta, quando nella violenza della burrasca si

era squarciato qualcosa, e per qualche terribile momento nessuno aveva capito che

cosa fosse, se era la carena, il cielo stesso o addirittura il tempo che aveva smesso di trascorrere, il tempo non c’era più, c’era solo un vuoto. Poi l’oceano aveva alzato il pugno sopra la barca, l’aveva abbassato e si era rotto tutto, le tazze, i vetri, il coraggio”.

k
Credit Einar Falur Ingólfsson, 2017.

Eppure, nonostante tutto, Varie cose sulle sequoie e sul tempo non è un libro disperato. È attraversato da una ironia sottile, spesso infantile, che si manifesta nei dettagli più quotidiani: la gioia assoluta contenuta in due pacchetti di M&M’s, la paura catastrofica di un ragno nell’armadio, l’eroismo immaginario di Tarzan e Piè Veloce. Questi episodi non sono semplici ricordi d’infanzia: sono strategie di sopravvivenza, forme di resistenza contro un mondo che, già allora, si mostrava ambiguo e minaccioso.

C’è poi lo spazio, che in Stefánsson è sempre un personaggio. Le città portuali, le periferie, i quartieri che sono solo una strada, i giardini, il mare. Luoghi concreti che diventano luoghi mentali. Non vengono descritti per essere riconosciuti, ma per essere sentiti. Ogni spazio è attraversato da storie invisibili, da voci che restano nell’aria. Il paesaggio non è mai neutro: modifica chi lo abita, scava nei volti, nei gesti, nei silenzi.

La struttura del libro, dichiaratamente divisa in parti, non obbedisce a una logica narrativa tradizionale. Ogni sezione è un campo magnetico che attrae temi, immagini, persone. Il risultato è un testo che somiglia più a una lunga meditazione che a un racconto lineare. Una meditazione che procede per accumulo e risonanza, non per dimostrazione.

Lo stile di Stefánsson è, come sempre, inconfondibile: frasi ampie, musicali, capaci di alternare registri alti e momenti di disarmante semplicità. Una scrittura che sa essere poetica senza diventare ornamentale, che non teme la ripetizione, perché nella ripetizione cerca una verità emotiva. Ogni tanto sembra di ascoltare qualcuno che pensa ad alta voce, che corregge il proprio discorso mentre lo pronuncia. Ed è proprio questa esitazione, questo continuo aggiustare il tiro, a rendere il testo profondamente umano.

Varie cose sulle sequoie e sul tempo non offre risposte definitive. Non consola nel senso facile del termine. Ma offre qualcosa di più raro: una compagnia. La sensazione che qualcuno, prima di noi, abbia guardato lo stesso caos, la stessa perdita, lo stesso scorrere implacabile del tempo, e abbia provato a dirlo con onestà. È un libro che non cerca di fermare il tempo, ma di stare con esso, come si sta accanto a qualcosa che non si può cambiare ma solo attraversare.

Questo procedere per digressioni e ritorni, per frammenti che sembrano talvolta sottrarsi a una direzione riconoscibile, può chiedere al lettore una disponibilità non scontata. Varie cose sulle sequoie e sul tempo non si concede a chi cerca una trama, né a chi desidera essere guidato: pretende piuttosto una postura, un tempo lento, la rinuncia a capire subito. È un libro che non accompagna, ma aspetta.

È un romanzo-biografia che segue ma non somiglia a Il mio sottomarino giallo. È però una buona idea, se amiamo l’autore, leggerli entrambi perché significa fare un viaggio negli spunti narrativi di un autore che sa fare delle vite di tutti noi, poesia.

Forse questo è il merito più grande di Stefánsson: vedere la grandezza, la bellezza, la potenza e la forza di ogni vita, di ogni esistenza. Quel valore assoluto che ogni vita umana e animale possiede per il solo fatto di esistere. È un continuo omaggio alla vita, a tutte le vite, la scrittura di Stefánsson. Gli si è grati, non può essere altrimenti, quando leggendo i suoi libri ritroviamo persone che forse abbiamo incontrato: certo portano altri nomi, vivono in altri luoghi, ma tutte lottano per il proprio posto nel mondo, abitano lo stesso pianeta, soffrono, gioiscono, si emozionano, esistono. I suoi personaggi sono “persone” che sentiamo respirare, la carta si fa carne e sangue nei libri di Stefánsson e ci sembra di conoscere tutti ed è con malinconia e con la certezza che, finito di leggere, tutti loro continuino ad esistere in un altrove non così distante da noi.
Quando si chiude l’ultima pagina, non resta una trama da ricordare, bensì un tono, un ritmo, una serie di immagini che continuano a riaffiorare: un sedile posteriore, una nonna che sorride, un atlante ormai inutile, una sequoia che cresce mentre le generazioni passano. Resta l’idea che scrivere, leggere, ricordare siano forse gesti minuscoli di fronte all’immensità del tempo, ma necessari. Come piantare alberi sapendo che non li vedremo diventare grandi.

Leggi anche:
Alessandro Mezzena Lona | Il sottomarino dei ricordi di Jón Stefánsson
Paolo Landi | J. K. Stefansson, La tua assenza è tenebra

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).