Nella stanza d'analisi / La cura va a zig zag

29 Marzo 2019

L’onda è enorme, io sono piccolo, il mare è un deserto, una distesa d’acqua infinita, galleggio, non riesco a nuotare, sono paralizzato, anche se sono un nuotatore provetto. Sono solo, esito: riuscirò ad appoggiarmi al ritmo del frangente oppure sprofonderò negli abissi? Gli esseri umani che ogni giorno svaniscono nel mare nostrum penetrano nei sogni, dove le acque si mescolano, e l’angoscia della condizione migrante incontra la realtà psichica dell’io del sognatore. 

A volte, ecco, quello che Jung chiamava un grande sogno, il rappresentare qualcosa che “dimostra che la psiche umana è in parte soltanto unica e soggettiva o personale: per l’altra parte invece è collettiva e oggettiva”. È un fenomeno di cui lo psichiatra svizzero aveva fatto esperienza diretta, quando, poco prima dello scoppio della Grande guerra, in un punto drammatico della propria esistenza, dopo la rottura con Freud e la separazione da Sabina Spielrein, immagini oniriche di un’Europa immersa nel sangue gli avevano fatto temere la follia. 

 

La stanza d’analisi, situazione democratica e promiscua, si rivela così una sorta di stanza-laboratorio, un luogo potenzialmente “contro”, dove la psiche mette in scena immagini e paesaggi, rappresentazioni oniriche che emergono nell’incontro tra mondo esterno e mondo interno, riuscendo a esprimere il dolore e il senso di impotenza che fuori, in strada, si fatica spesso a manifestare – come confermano le numerose raccolte di sogni che hanno documentato il terrore nell’anima dopo l’attentato alle Torri Gemelle. 

Di ogni cura questo, oggi, è il contesto: il naufragio dello straniero, davanti ai nostri occhi, il nero che ridiventa nero, l’altro che dorme fuori al freddo – quello che i bambini non capiscono, come racconta Stanley Cohen in Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, ricordando la sua infanzia di bianco in Sudafrica. Forse, anche per questo, terapeuti di formazione diversa cercano nella filosofia e nella sociologia, nell’antropologia e nella letteratura nutrimenti ed attrezzi, mentre alla talking cure si aggiungono disegno, scrittura, Gioco della Sabbia... Per riuscire a ricomporre una storia personale fatta di realtà storica e narrazioni, biografica e psichica. Che nell’unicità dell’incontro con l’Altro ritrova la possibilità di una rigenerazione.

 

 

Era un paziente adulto che varcava la soglia dello studio, oggi sono bambini dallo zero anni in su, coppie e famiglie, mentre la cura intercetta insonnia e attacchi di panico, breakdown giovanili, passaggi di vita, dall’adolescenza alla vecchiaia, lutto e malattia, mobbing e disoccupazione, una varietà infinita di sintomi psicosomatici. “Una psiche di gruppo, un’anima delle masse”, come scrive René Kaës, studioso attento ai garanti meta-sociali e alla consistenza psichica della cultura, nel suo testo contenuto in La cura psicoanalitica contemporanea. Estensioni della pratica clinica (a cura di Tiziana Bastianini e Anna Ferruta, Giovanni Fioriti Editore). Qui sono quasi una trentina i terapeuti di formazione freudiana a riflettere sulle evoluzioni teoriche e sui cambiamenti del setting di una psicoanalisi che vive una situazione paradossale tra perdita di autorevolezza e capacità, invece, di accompagnare le mutazioni sociali. “L’esperienza psicoanalitica”, la chiama Anna Ferruta, quasi a sottolineare il suo poter essere anche una pratica esistenziale “in quanto disciplina del vivente si occupa di processi di trasformazione (…), ha a che fare con le condizioni strutturali e ambientali che permettono la sopravvivenza e lo sviluppo del vivente, cioè di soggetti che prendono forma e crescono attraverso scambi continui con altri soggetti e con ‘altro’”.

 

Ma chi cura chi? È una frase che può essere letta in due direzioni. Ci sono due chi, due soggetti. In mezzo la cura, un’azione. Che cosa si cura, come si cura, cosa produce la cura? L'analisi si configura come un rapporto di “cura” che ha la caratteristica di essere un rapporto asimmetrico che implica il processo di transfert. Le oscillazioni storiche dell’idea di transfert, da quella di Freud di un transfert solo neutrale e agevolante, con evoluzioni successive, arrivano all’elaborazione attuale che enfatizza invece il controtransfert dell’analista, a eccezione della scuola lacaniana dove il coinvolgimento del terapeuta rimane una sorta di tabù. Ma quelli che Freud chiamava i tre mestieri impossibili − governare educare curare – possono diventare posture, costruzioni teoriche che non necessariamente conducono a una direttività cognitivo-comportamentale, a un adattamento sociale, perché è nell’esercizio di libertà che la psicoanalisi può rappresentare una forma di resistenza all’omologazione sociale.

 

È anche questa dimensione politica che guida la ricerca di un gruppo di psicoanalisti, orientati dall’insegnamento di Lacan, a interrogare in La direzione della cura. Psicoanalisi e filosofia (a cura di Alex Pagliardini e Igor Pelgreffi, Galaad Edizioni) le questioni cruciali di ogni processo analitico, la sua tattica e la sua strategia. 

La sorpresa e lo stupore dell’inizio, l’inevitabile angoscia che coglie il soggetto desideroso di un cambiamento e però spaventato dall’irruzione del perturbante. A partire da quell’inciampo – quella sofferenza, quell’impedimento – che porta a chiedere un’analisi. Ma, dopo il sintomo isterico, origine e causa della costruzione freudiana, che cos’è oggi il sintomo: è un sintomo medico, è un sintomo psicologico, è un sintomo politico? Per esempio, nel lavoro con i bambini, come decifrare quel disturbo che è il sintomo, in un momento storico dove il modello sociale appare rovesciato: non è il bambino ad avere diritto a una famiglia, ma ogni uomo o donna ha il diritto di crescere un figlio, di essere genitore.

I diversi autori accompagnano il resoconto di casi di vita, senza dimenticare mai la dimensione etica dell’interpretazione, la responsabilità di una parola capace di captare l’uomo a più dimensioni. Lacan rompe con l’ermeneutica, con l’idea che il metodo psicoanalitico sia un metodo di interpretazione e comprensione. L’epoché, che in fenomenologia è sospensione del senso già dato come scontato, in Lacan diventa sospensione del senso in quanto tale. L’analisi è una procedura sequenziale di atti, funziona come una tecnica, dunque nessuna comprensione preliminare. È l’incontro che produce il soggetto, la ripetizione in se stessa produce la singolarità: “è per questo che la procedura funziona (ciò che cura è, solo, il transfert), perché dietro il ripetuto fa emergere l’atto del ripetere, vale a dire il soggetto nella sua singolarità”. Perché “quando ci si presenta dall’analista col proprio carico di angosce − scrive Rocco Ronchi – si depone ai suoi piedi un insieme di generalità, di comportamenti generali, di idee in senso platonico – ‘io sono questo, io sono quello, io faccio questo, appartengo a quella categoria di uomini, o di donne…’ –, si esibisce insomma una concettualità nella quale ci si sente perduti. Attraverso il transfert, da questa generalità si regredisce a una singolarità costitutiva e fungente, dove singolarità non vuol dire particolarità. Quando parliamo di singolarità non intendiamo infatti casi particolari di concetti generali (il cavallo empirico come caso del cavallo ideale); stiamo parlando di atti, di atti assolutamente singolari, o di processi, stiamo parlando di quello che (…) Gilles Deleuze chiamava una vita. Una vita è un atto assolutamente singolare: una vita è il che della ripetizione incontrato nel transfert”. 

 

Ma “tutto il viaggio analitico potrebbe essere letto come un trattamento delle domande ‘Chi sono?’ e ‘Che ci faccio qui?’. L’analisi inizia, dunque, da domande che mettono in gioco un non sapere radicale poggiato sull’impatto con il contrasto tra sapere ed essere”. Il recupero delle parole per dirlo non ci guarisce, conclude Francesco Giglio, ma ci libera dal mito di una piena salute psichica, e ci suggerisce una civile convivenza con il sintomo.

Questi due testi, pur caratterizzati da un linguaggio di scuola, testimoniano la ricchezza di stimoli e suggestioni che produce “il mondo in una stanza”. Il dispositivo analitico si conferma uno spazio-tempo reale, e insieme sempre metaforico, dove l’individuo continua a interrogarsi sull’esistenza, per non sentirsi sopraffatto dall’insostenibilità della dimensione psichica. Forse, oggi, è anche uno dei pochi dove è possibile continuare a pensare.

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