La differenza teatrale

25 Settembre 2014

Perennemente interconnessi, sempre ovunque e in nessun luogo. Trasparenti, scrive Byung-Chul Han, sovraesposti alla comunicazione, vittime del bisogno di prestazione e di presenzialismo nella società della competizione e dello spettacolo globali. L’antiveleno c’è, ed è antico, secondo Massimiliano Civica, regista quarantenne autore di spettacoli di scabra potenza e penetrante intelligenza, con un rigore formale e un’ansia d’interrogazione che ricordano i film di Robert Bresson. Civica si appresta a rappresentare una tragedia greca, Alcesti di Euripide, la storia della regina che immola agli dei la propria vita per salvare il marito, subito strappata al regno di Thanatos e restituita alla luce da Eracle. Lo fa fuori dai canoni, in un modo che non nasconde pensieri puntuti e ambizioni.

 

Va in scena esclusivamente a Firenze, nel Semiottagono dell’ex carcere delle Murate (una colonna di ballatoi sui quali si affacciavano le celle), per soli venti spettatori ogni sera. Accompagnano il regista Daria Deflorian e Monica Piseddu, due attrici pluripremiate che copriranno i diversi ruoli grazie a maschere, come ai tempi di Euripide, e un’attrice-cantante, Monica Demuru. Questa sfida avvincente non esita a misurarsi con parole desuete come amore, sacrificio, commozione.

 

Perché rappresentate lo spettacolo in un unico luogo, non teatrale, contraddicendo il costume del teatro italiano che è basato sulle tournée, e perché per così pochi spettatori per sera?

 

L’idea nasce dalla grande delusione provata durante le tournée. Con lo spettacolo precedente, Soprattutto l’anguria, abbiamo girato, abbiamo fatto trenta repliche. Ma ti rendi conto che capiti in posti che ti hanno chiamato solo per fare borderò. Vai a incasso e nessuno fa nulla per far sapere al pubblico dello spettacolo, vieni lasciato solo, senza accoglienza… Preferisco spettatori motivati a scegliere. Quando giro, perdo soldi: allora sto fermo in un posto e viene chi vuole. È anche una risposta alla nuova legge sul teatro, che impone numeri che prevedono un impatto mediatico del teatro, perché per attribuire la sigla di “teatro nazionale” chiede di fare recite per mille spettatori. Non sono convinto che ammetterne solo venti sia buono: ma sicuramente c’è una qualità di ascolto migliore che con mille.

 

Che cosa intendi quando scrivi che ambientando Alcesti in un luogo particolare, con una relazione così stretta con gli spettatori, vuoi “pulire lo sguardo con lo spazio”?

 

Ogni attività umana richiede uno spazio adeguato. Sono stanco di andare in luoghi inadatti, scomodi, sordi, che rovinano gli spettacoli. Lo spazio aiuta la relazione tra spettatore e opera. La gente va a vedere qualcosa che accade in quel momento, e deve essere ben disposta all’incontro. Inseguiamo spettacoli su YouTube, in streaming, in video, una moltiplicazione del teatro; ma ci dobbiamo invece arrendere all’idea che un certo tipo di teatro sia minoritario, che non vuol dire di classe o esclusivo. Ci fu una polemica di Silvio D’Amico con il fascismo: il regime chiedeva di aprire teatri per il popolo, di diecimila posti, altro che mille! E il critico rispose: ma non sono meglio piuttosto cinquanta repliche per sale da duecento posti? Lo stesso D’Amico per segnalare un successo scriveva: “Lo spettacolo ha incontrato”. È un pensiero profondissimo: il teatro prevede due persone che si vogliono incontrare. Così in questo lavoro, per pulire lo sguardo, cerchiamo un incontro. Reale.

 

Dalle tue parole il teatro sembra un antidoto alla fretta e alla superficialità dei tempi che viviamo.

 

I grandi rimossi della nostra epoca sono la morte e il limite. Ti illudono che non c’è niente da perdere: vai pure a cena con la fidanzata, tanto sul tablet potrai continuare a seguire la partita di calcio… Il teatro è l’ultimo baluardo dello scegliere. Ancora per poco, quando entri in sala devi spegnere il cellulare, non puoi rispondere al telefono, decidi di essere lì, in quel momento. E Alcesti si avvicina a questi temi: dice che la vita non ha valore di per sé, non perché vivi più a lungo ma perché scegli di vivere per qualcuno.

 

Alcesti Daria Deflorian Monica Piseddu ph Duccio BurberiAlcesti Daria Deflorian Monica Piseddu ph Duccio Burberi

 

Nelle note sullo spettacolo scrivi contro il presente perpetuo e ubiquo della rete e contro il teatro (e i festival) supermarket.

 

Non vorrei apparire come un predicatore che fa la morale. Il nostro è uno spettacolo piccolo, ma si inserisce in un ragionamento globale. La tragedia antica oggi può rappresentare un rimosso della società. Il teatro nell’opinione corrente deve essere leggero o politico. La tragedia non era politica. La politica riguarda l’attualità e prevede lo schierarsi, l’agit-prop. La tragedia greca era antipolitica. I greci erano impegnatissimi nella vita politica, interna e estera. Con il teatro si spostavano verso temi eterni, umani, e svuotavano di senso la politicità in quanto attualità. Il teatro è un contraltare all’oggi, al dominante. Richiede tempi lunghi.

 

L’opposto della società dell’usa e getta?

 

Il teatro, per esempio, è il contraltare del tweet, che è rinuncia alla complessità, un messaggio in cui non puoi fare altro che asserzioni. Proprio come chi chiede nei convegni di contenere gli interventi entro quattro minuti. Che cosa riesci a dire? Si finirà per parlare a rutti. Se riduci la complessità, si rinuncia alla compassione e all’ascolto dell’altro. Solo se accetti che non tutto è bianco o nero, accetti l’altro.

 

Io il tweet non lo avvicinerei necessariamente all’asserzione, ma a altre forme del comunicare, per esempio alla forza bruciante e rivelante dell’aforisma.

 

L’aforisma è anfibolico, mette in contatto due opposti meccanismi di pensiero, crea contrasto. Il tweet afferma: io la penso così. Ed è una forma tremenda di presenzialismo: vuol dire non perdersi niente, mentre la vita è una continua perdita, stai in un posto e non in un altro. Un filosofo, André Gorz, scrive: una donna migliore della mia è possibile, ma ciò la rende impossibile; senza limite, in assenza di sacrifico, sei perennemente da un’altra parte, proiettato in un’altra opzione.

 

Spiega meglio perché per questo “incontro” hai scelto la tragedia greca.

 

Perché essa in ogni istante è polisemica. Alcesti puoi leggerla come un’eroina disinteressata o come un personaggio che fa calcoli per ottenere la gloria. Ogni scena si presenta sfaccettata diversamente anche secondo il lavoro delle attrici. I personaggi tragici impediscono il pensiero binario, intelligente/stupido, bianco/nero. Sono matrici di riflessione, di ascolto, di complessità, che non vuol dire difficoltà.

 

Alcesti Daria Deflorian Monica Piseddu ph Duccio Burberi Alcesti Daria Deflorian Monica Piseddu ph Duccio Burberi

 

Perché tra le tragedie greche hai scelto proprio Alcesti?

 

Perché mi interessava parlare di amore e di sacrificio, due concetti oggi tabù. La pubblicità te lo dice: non ti sacrificare, non perdere l’occasione, la partita, per andare a cena con la tua ragazza. La parola “morale” sembra una parolaccia. Alcesti ci dice: tu hai senso se hai un tu. “Io esisto quando dico un tu” suggeriva Capitini. Dire “tu” libera dall’ossessione dell’io. Un tempo mi chiedevo: perché faccio teatro, perché vivo? Oggi mi domando: per chi? Social network come Facebook ci fanno riflettere perennemente in uno specchio narcisistico. Con Facebook sto sempre davanti a me. Io sono d’accordo con Pascal, che ripeteva: “Ciò che mi interessa veramente è l’uomo”. E con Olmi, quando dice che tutti i libri del mondo non valgono un caffè preso con un amico. Il mondo d’oggi pretende il sempre e dovunque; il teatro vuole essere qui e ora. Il teatro è anticontemporaneo: è piuttosto l’arte del futuro, perché riguarda l’uomo. Il teatro è il solo luogo dove la morte non fa finta di non esserci. L’oscenità del palcoscenico è quella di ricordarci che siamo mortali e che non abbiamo infinite possibilità. Questo senso del teatro, la sua finitezza (che rimanda alla nostra) oggi sono rimossi collettivamente.

 

Torniamo ad Alcesti?

 

Tocca alcuni gangli eterni: il rapporto con la persona amata, con la famiglia, con il mondo. Ci pone una domanda cruciale: se dobbiamo morire, se a un certo punto siamo condannati perdere tutto, se non possiamo esserci per sempre, che senso ha vivere? Ci suggerisce che la vita ha significato quando è scelta. Euripide, poi, è sempre stato considerato un autore letterario. E invece, ad allestire questo che è il suo primo testo tramandato, lo scopri uomo di teatro, che scriveva copioni per la realizzazione scenica. La lettura del testo mostra una tragedia con l’happy end. Il teatro rivela qualcos’altro. Qui Euripide introduce il terzo attore e trova una sintesi felicissima tra forma e contenuto. Per questo anche noi usiamo le maschere. Mi spiego: quasi tutto il testo è scritto per due attori che, grazie alle maschere, interpretano vari personaggi. Nelle ultime righe abbiamo in scena Eracle, Admeto e Alcesti, riportata in vita dall’Ade. Alcesti non parla: senti la voce dell’attore che l’ha interpretata nel personaggio di Eracle. Capisci che il ritorno dalla morte può essere un trucco teatrale. Nel qui e ora vedi che non c’è Alcesti: c’è la sua maschera, con sotto un’altra persona…

 

Oltre alle due attrici nel cast c’è anche un’attrice-cantante, Monica Demuru. Interpreta il coro?

 

Il coro greco è sempre un problema. È vero che riassume il personaggio del confidente dell’eroe, quello che sarà la servetta nel settecento e poi il raisonneur pirandelliano. Il coro sta sempre in mezzo, e canta. Che funzione svolgeva? L’operazione di cantare quelle parole è impossibile. Mi sembra che il teatro unisca cose che non stanno insieme, il logos e il canto. Sulla scorta di una studiosa francese, Nicole Loraux, ci siamo resi conto che il canto porta in scena il dolore puro, il pianto irrelato al significato. La tragedia usava per accompagnamento l’aulos, una specie di flauto acuto sul quale non si poteva parlare. Per i sottofondi si sarebbe dovuto usare uno strumento a corde. La tragedia metteva in scena una voce che piangeva. Così con Monica Demuru abbiamo lavorato su suoni equivalenti alla lotta dialettica delle parti parlate, il lamento che si chiude in singhiozzi. Il suono che diventa senso, che moltiplica i sensi.

 

Semiottagono ex carcere Murate di Fi  n3 ph Duccio BurberiSemiottagono ex carcere Murate di Fi n3 ph Duccio Burberi

 

Ci dici qualcosa sulle attrici?

 

Se non hai attori, non puoi fare niente. “I grandi attori non si dirigono, si guardano” diceva René Clair. Daria e le due Moniche sono co-creatrici dello spettacolo. Non gli ho dato neppure una indicazione: le ho solo ascoltate.

 

Daria Deflorian e Monica Piseddu sono artiste di grande forza espressiva, che cercano una verità, a volte quasi ipernaturalista. Come mai hai scelto loro per un testo in maschera, così pieno di ritualità?

 

Sono stato ispirato dai mosaici ravennati, quelli che raffigurano la corte di Teodora. Rappresentano sfilate di persone simili a larve, che non poggiano i piedi per terra, sospese metafisicamente, ma con occhi vivissimi. Io cerco un equilibrio tra l’intreccio, i personaggi e la datità dell’attore, la sua unicità. Il teatro è sempre una strana cosa che oscilla tra l’universale e l’incarnato, tra la legge e la creatura.

 


 

Alcesti si può vedere dal 30 settembre al 26 ottobre (da martedì a sabato ore 20, domenica ore 18, piazza Madonna della Neve 8, Firenze). Produzione Fondazione Pontedera Teatro e Atto Due, in collaborazione con il Comune di Firenze (informazioni e prenotazioni: info@attodue.net, 0554206021).

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