Terre e destini / Ron Rash, Un piede in paradiso

14 Maggio 2021

«Prima di salire in macchina ho dato un’occhiata al cielo. Come se la pioggia fosse davvero un problema per uno come me, con uno stipendio sicuro».

Negli ultimi anni mi sono occupato spesso di letteratura nordamericana, di sicuro ho letto più autrici e autori statunitensi che europei. Non c’è un motivo particolare, ma più di uno. Innanzitutto, c’è l’interesse per un certo tipo di contesto che consente una narrazione che cambia molti scenari e linguaggi, a seconda che ci si sposti di contea, stato, si ambientino le vicende in una grande città oppure in un paesino sperduto del Montana, del Kansas, dell’Ohio o della Carolina, e questa varietà genera una passione, un’attenzione speciale. Naturalmente, tutto è reso più accessibile dal numero consistente di traduzioni di romanzieri degli Stati Uniti, ma il numero congruo non è garanzia di qualità, bisogna saper scegliere, in ogni caso, pur facendo accurata selezione, il panorama di letture interessanti è vasto.

 

Una delle mie convinzioni più radicate racconta della non esistenza del «grande romanzo americano», ovvero che l’etichetta che critici e lettori di tanto in tanto appongono su questo o quell’altro libro non possa incollarsi a un volume solo ma a un mosaico di testi. Il grande romanzo americano è una storia agitata da frammenti generati negli anni da scrittrici e scrittori geniali che insieme – di libro in libro – compongono il mosaico, il tessuto che costituisce la definizione. Un destino che non si compirà mai e che si amplierà, attingendo al tempo, allo spazio e alle parole che il luogo – desertico, provinciale e metropolitano – continua a offrire. Ogni tanto, nei periodi fortunati, germoglia un frammento nuovo, in questa primavera ha fatto irruzione nella mia vita da lettore (e spero presto in quella di molti) Ron Rash, nato a Chester, in Carolina del Sud, e che in pratica non si è mai mosso da quelle terre.

 

È considerato un autore di culto di quella che chiamiamo letteratura del sud, inserito nel solco tracciato da Faulkner e da Flannery O’Connor, ha vinto numerosi premi, scritto sette romanzi, quattro libri di poesia e sei raccolte di racconti, tradotto in numerose lingue; in Italia è ancora pressoché sconosciuto, è stato tradotto un suo solo libro per Salani nel 2014: Una folle passione (traduzione di Valentina Daniele), libro che pochi ricordano e che non ho avuto l’occasione di leggere. Per nostra fortuna, La Nuova Frontiera ha appena pubblicato, con la traduzione di Tommaso Pincio, un suo romanzo del 2002: Un piede in paradiso. Un libro bellissimo, profondo, duro e commovente, pieno di dolore e di sentimenti di perdita, che va ad aggiungere un altro frammento al nostro mosaico.

«Questa almeno era la mia impressione. Ascoltavo un uomo che confidava in un futuro migliore del passato, un uomo che al risveglio aveva trovato i campi zuppi allagati dalla pioggia e la certezza che l’autunno gli avrebbe portato un raccolto abbondante. Un uomo in procinto di scoprire che, come assassino, l’avrebbe fatta franca».

 

La storia ha una tradizionale andatura da prosa del sud degli States. Possiamo misurare la distanza, ogni movimento da un luogo all’altro – ci troviamo a Oconee, minuscola contea rurale della Carolina del Sud – è determinato dallo spazio, tra una fattoria e l’altra, tra un uomo che lavora nei campi e l’altro che vuole parlargli, tra i vetri di una vicina e l’altra casa al di là del bosco, e poi dalla misura tra il fiume e la terra che attraversa; terra destinata a essere sommersa nel giro di pochi anni. Siamo negli anni Cinquanta, la Carolina Power, compagnia elettrica, compra un pezzo dopo l’altro i terreni della vallata, perché costruirà una diga.

 

 

Mese dopo mese, anno dopo anno, ogni fattore, ogni contadino, dovrà cedere – che gli piaccia o meno – il suo terreno e con questo la tradizione familiare, il lavoro e il sacrificio di una vita. Perfino i morti dovranno andarsene e una delle scene più potenti e dolenti di tutto il libro è quella in cui vengono espiantate le tombe dal vecchio cimitero per essere portate altrove prima che il lago artificiale sommerga tutto e che i resti tornino in superficie. Dopo lo spazio, è riconoscibile il tono. Le voci e i dialoghi tra i protagonisti di questa storia, le frasi appena accennate, occhi che si dicono tutto, disastri familiari sopiti e pronti a riemergere al primo colpo di vento, o in una stagione torrida come quella in cui si svolgono i fatti. Le descrizioni, infine, i volti, gli arredi delle case, i gesti che fanno queste donne e questi uomini.

 

La durezza e la dolcezza che camminano fianco a fianco, il coraggio, l’onere delle scelte, i desideri. Da queste parti i solchi nella terra sono del tutto simili alle rughe che segnano i volti; gli uccelli, che volino alti o bassi, sono sempre un segnale. Chi vive qui sa quale sia il legno migliore per una bara, conosce la differenza tra cedro e quercia. Chi vive in questi posti, per citare Pagliarani, sa cosa significa una macchia sul tabacco da raccogliere e sa riconoscere i segnali della pioggia che sta per arrivare, a dar sollievo o a rovinare un raccolto, in una torrida notte d’estate.

«Ho visto cose che erano destinate a passare e cose che un giorno saranno. Ho visto un tempo in cui i morti resusciteranno dalle tombe, un tempo in cui il fiume sommergerà questa valle.»

 

Rash mette in scena due catastrofi e la contea di Oconee è il ricamo che le tiene insieme. La prima catastrofe, lo abbiamo visto, è ambientale e si manifesta in nome del progresso, strappando dal luogo chi non conosce null’altro e qualcuno – come accadrà – troverà il modo di morire per non andarsene. La seconda catastrofe è una vera e propria tragedia dell’uomo, delle sue miserie e tormenti, ed è talmente bella e, soprattutto, è scritta così bene che durante la lettura bisogna fermarsi perché si ha l’impressione che il cuore (nel senso più anatomico che romantico) acceleri o rallenti i battiti. Holland Winchester, reduce di guerra e testa calda della contea, scompare di colpo. La madre pensa sia stato ucciso perché il giorno in cui è svanito ha sentito degli spari provenire dalla fattoria vicina. Dopo il primo sopralluogo, anche lo sceriffo Will Alexander, un uomo acuto e pieno di tormenti, ha la certezza che Holland sia stato ucciso e che l’omicida sia Billy Holcombe, il coltivatore vicino dei Winchester.

 

La moglie di Billy, Amy è incinta. Lo sceriffo capisce subito due cose: Billy (d’accordo con la moglie) ha ucciso Holland e che non può provarlo perché non troverà mai il cadavere. Che Billy abbia con ogni probabilità ucciso Holland lo comprendiamo anche noi lettori, ma capiamo che il succo del racconto di Ron Rash non è quello. Rash vuole mostrarci i motivi dell’azione, le conseguenze e come le sorti degli esseri umani si leghino, che lo vogliano o meno, a lungo, se non per sempre. Rash ci racconta di come nemmeno il fango e l’acqua possano tenere a bada i demoni della menzogna e quanto il perdono sia difficile, e si basi su faccende che poco hanno a che fare con il ragionamento, ma sono molto meno tangibili, inafferrabili.

«Dicono che è possibile vedere la faccia dell’assassino negli occhi sbarrati di un morto. Non avevo la minima voglia di appurare se era vero o no». 

 

Rash costruisce una narrazione polifonica, infatti il romanzo si divide in cinque parti, ciascuna con una diversa voce narrante: lo sceriffo; il marito, la moglie, il figlio, il vicesceriffo. Ogni voce ha un diverso punto di vista sulla vicenda che però è sempre la stessa, anche se presa in mano in momenti diversi. Per cui il racconto dello sceriffo sarà fatto soprattutto di deduzione, quelli della moglie e del marito saranno contigui e mostreranno i fatti così come sono andati e – soprattutto – perché sono andati così. Il figlio è la voce delle conseguenze, è la scoperta della storia a posteriori, quasi vent’anni dopo, mentre la sua famiglia, tra le ultime, sta lasciando la terra, mentre l’acqua sta coprendo tutto. Infine, il vicesceriffo che dovrà compiere un’azione che lambisce la vicenda principale solidifcandone il mistero.

 

«Ho pensato alle radici che assorbivano quella pioggia e tutta quell’acqua che si riversava su foglie e fusti, allagando la piantagione come un fiume. Sapevo che per molte piante era ormai troppo tardi, ma qualcuna si sarebbe salvata. E già questo era molto più di quanto mi aspettassi il giorno prima».

Ron Rash, è stato abile a spostare di voce in voce la storia, facendo sì che emergessero vicine e distanti tutte le pene originate da uno stravolgimento della condizione del territorio. Se muta la terra mutano i destini degli uomini, ci racconta. E ci mostra anche che non ci sono buoni e cattivi, esistono situazioni a mezza via, scelte che siamo costretti a fare, persone che dobbiamo continuare a guardare negli occhi, aprire le palpebre per sfuggire dai nostri incubi peggiori, stingerci a un corpo che ci scaldi dimenticando o fingendo di farlo, che tra una strega e una santa la differenza è sottile, che l’acqua è sempre più profonda di quanto pensassimo, che i torti si riparano, che i morti non se ne vanno.

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