B.B., mito senza mistero
«Bisogna lasciare di sé una bella immagine prima che questa lasci te», così Brigitte Bardot spiegava a milioni di fan sparsi per il mondo, ma soprattutto a se stessa, l’addio definitivo al cinema. Era il 1973 quando a 39 anni, nel bel mezzo delle riprese di Colinot l’alzasottane (“L’Histoire très bonne et très joyeuse de Colinot Trousse-Chemise”), l’attrice francese che da bambina sognava di diventare ballerina, decise che quello sarebbe stato il suo ultimo film. Il cinema non le stava dando più niente e lei non stava dando più niente al cinema. «Era quello il momento di fermarsi per non cadere nella mediocrità. Il cinema è una parte morta della mia vita. Dovrei impazzire per tornare al cinema». E fino all’altro ieri la Bardot, scomparsa a Saint Tropez lo scorso 28 dicembre, alla veneranda età di 91 anni (era nata a Parigi il 28 settembre 1934, sotto il segno della Bilancia), aveva mantenuto la parola.
Eppoi sapete una cosa? Per dirla tutta non aveva mai provato piacere a recitare, non c’era mai stata passione in lei: «Non sono mai stata una vera attrice, le vere attrici non possono smettere di recitare». Se a questo si aggiunge che trovava il cinema francese un orrore, si capisce la scelta.
Per di più sentiva di non avere una vita sua a causa dei paparazzi che non le davano tregua. Un rapporto, quello con i fotografi, che è sempre stato di amore-odio. Di amore perché le hanno lanciato la carriera – Oriana Fallaci scrisse: «È diventata famosa senza fare nulla. È il prodotto tipico della pubblicità» –, di odio perché, raggiunto il successo, si sentiva ingiustamente assediata, guardata. A questo proposito Jean Cocteau annotava: «Guardate questa meravigliosa piccola strega bionda a cavallo della sua scopa. Guardatela volare verso il Walpurga. Guardate questa giovane sfinge imbronciata dalle forme perfette che le folle seguono come una muta di cani con la lingua di fuori».
A Françoise Sagan, l’autrice di Bonjour Tristesse, che le era più generazionalmente vicina, Brigitte ebbe a dire: «Ogni foto porta via con sé una parte di me. È per questo che odio le foto scattate a mia insaputa e detesto i teleobiettivi che violano la mia vita privata. È facilissimo essere tradita da una fotografia: un flash che indurisce i lineamenti, un’illuminazione violenta che scava gli occhi, una luce radente che ingrandisce a dismisura la grana della pelle, una risata smodata di cui non si diffida e che fa scomparire il viso».
Opinione condivisa da Roland Barthes che di miti se ne intendeva: «La libertà di Brigitte Bardot è una falsa libertà. Penso che sia terribile essere l’incarnazione della libertà ed esserne la prima vittima».
La sua immagine travalicò ben presto il cinema europeo per approdare nella cultura pop americana. Nel 1963 Bob Dylan la cita in I Shall Be Free, un “talking blues” ironico e anarchico in cui il nome della diva compare accanto a quello di Anita Ekberg e Sophia Loren. Non una dedica, ma un “nome-segno”: Bardot come icona globale, riconoscibile a una generazione che vedeva nel cinema, nella musica e nella celebrità un unico grande archivio di immagini da consumare e citare.

Filologia dello scatto rubato
Ironia, al tempo dei festeggiamenti dei suoi 75 anni la galleria James Hyman di Londra pensò bene di organizzare la mostra “Brigitte Bardot e i paparazzi”, esponendo 70 stampe originali d’epoca scattate, appunto, da fotoreporter entrati nella storia della fotografia – da Tazio Secchiaroli a Marcello Geppetti, autore del primo nudo paparazzato di Brigitte Bardot – che raccontavano momenti pubblici e soprattutto privati nella vita dell’attrice: dalla visita a Picasso nel 1956, a una serie di scatti rubati sulla spiaggia di Saint Tropez nei primi anni Settanta.
E insieme al compleanno della Bardot spuntavano anche immagini che al momento erano considerate poco più che spazzatura e che, con la patina del tempo, hanno finito per ridefinire la natura stessa del fotogiornalismo e la percezione del pubblico del mondo dei ricchi e famosi. A partire dalla movimentata notte del 14 agosto 1958 quando Tazio Secchiaroli scatta un paio di flash in faccia a re Faruk, ex sovrano d’Egitto in esilio a Roma, seduto al Café de Paris, in compagnia della sedicenne Irma Capece Minutolo, venendo letteralmente abbrancato dal re e sollevato da terra. Non solo, più avanti nella serata, sempre Secchiaroli fotografa l’attore Anthony Franciosa, marito di Shelly Winters in compagnia di Ava Gardner: nuova rissa, nuove foto. E più tardi ancora, quella stessa sera, i paparazzi, ormai scatenati, si imbattono nell’attore inglese Anthony Steel ubriaco che litiga con la moglie Anita Ekberg, futura musa felliniana. Una serata che consacrò simbolicamente la nascita di un nuovo fenomeno: i paparazzi.
Anche se alcuni fanno coincidere la nascita del fenomeno con lo striptease della ballerina armena Aiché Nanà al ristorante Rugantino, a Trastevere (5 novembre 1958, foto del solito Secchiaroli); altri ancora con le riprese della Dolce Vita, girata da Federico Fellini fra la primavera e l’estate del 1959. Insomma, materiale da veri “filologi dello scatto rubato” che daranno di che pensare e disquisire agli esegeti del pop nostrano, come il critico Achille Bonito Oliva che ebbe a paragonare lo stile artistico dei paparazzi a quello degli artisti americani dell’”action painting”: «Velocità, sorpresa, sopraffazione, disinibizione, appostamento, casualità e movimento costituiscono i tasselli dell’involontario mosaico poetico dei cosiddetti paparazzi».

La vita infernale di B.B.
La Bardot atterra nel mondo della celluloide nel 1952, con piccole particine in ben tre film, lo stesso anno in cui sposa Roger Vadim, allora sceneggiatore e assistente di Marc Allégret, il regista che qualche anno più tardi la lancerà come “Miss spogliarello”.
Così la stessa Bardot ricorda i suoi primi passi nel mondo del cinema come ebbe a pubblicarli il “Corriere d’Informazione” nel gennaio 1960 con il titolo: “La vita infernale di B.B.” e che introduceva l’attrice come «insieme vittima e volontaria complice dei suoi carnefici: la vamp che passa da un amante all’altro, che fa impazzire di gelosia il marito, l’attrice immersa continuamente in un’aria eccitante». Un biglietto da visita che fa capire, meglio di un trattato di sociologia, qual era la percezione pubblica del fenomeno Bardot che confessava: «I miei primi tentativi nel cinema furono una catastrofe. Non me ne andava bene una. Nessuno voleva saperne di me. I produttori dicevano che non sarei mai riuscita a far niente».
Di lì parte per Roma dove l’attende una particina in un kolossal italo-americano, “a colori”, sulla vita di Elena di Troia. A quell’epoca le pellicole storico-mitologiche andavano alla grande di qua e al di là dell’Atlantico, e per il provino doveva parlare inglese. Ricorda lei: «Oggi non trovo più un inglese che non s’affretti a farmi sapere che la mia maniera di parlare la sua lingua lo incanta. Dev’essere per via dell’accento francese. Ma la mattina del provino a Roma, queste cose non le sapevo ancora». E soprattutto non lo sapevano quelli della produzione.
Brigitte si era data due anni di tempo per tentare la via del successo, ma fino ad allora sembrava che tutto andasse a rovescio. Era ormai quasi decisa a cambiare strada quando incontra Roger Vadim e tutto cambia, anche se non proprio subito. Nel frattempo i due si sposano, lei ha 18 anni, bellissima nell’abito bianco. Insieme conoscono tempi difficili: «Eravamo senza soldi, mangiavamo quello che costava di meno, abitavamo in un appartamento deprimente. Il nostro amore ne soffriva: dovevo cucinare e lavare i piatti. Detesto i lavori di casa».
Vadim però le insegna a leggere un copione e a impararlo a memoria, la spinge verso il genere sexy. Le insegna che per riuscire ci vuole fatica, lavoro, pazienza, molta pazienza. Lei ricambia imponendolo – nonostante l’ostilità del suo agente – come regista di Et Dieu créa la femme, il film che darà a entrambi fama internazionale.

Stufa degli impegni militari di Trintignant
Fu durante le riprese che scoccò la scintilla per Jean-Louis Trintignant che all’epoca prestava servizio militare. Ricorda la Bardot: «Non poteva mai starmi vicino quanto io avrei voluto. Ero già stufa dei suoi impegni militari. Avevo bisogno di vederlo, di guardarlo».
Nel 1957, presto dimenticato Trintignant, si separa da Vadim (che passa alle grazie di Jane Fonda in versione Barbarella), e nel ’59 sposa l’attore Jacques Charrier da cui avrà l’unico figlio, Nicolas e si trasferisce nel Sud della Francia, a St. Tropez dove resterà tutta la vita e dove acquisterà la celebre Madrague, la villa simbolo del “Mito B.B.”, laddove sono passati tutti i grandi amori della sua vita: Sacha Distel, Alain Delon, Gigi Rizzi, Sami Frey, Serge Gainsbourg, Gunther Sachs. Quest’ultimo la inonderà di petali di rosa lanciati dall’elicottero e la sposerà nel 1966. Un tipo di “promiscuità” che le attirò il ricorrente anatema della Chiesa che la scelse come simbolo del male per il padiglione Vaticano dell’Esposizione universale di Bruxelles del 1958.
Amori e divorzi passeggeri almeno fino al 16 agosto 1992 quando Brigitte sposa, in Norvegia, fuori dai riflettori e dagli obiettivi dei paparazzi, Bernard d'Ormale, 7 anni più giovane di lei, uomo d’affari ed ex consigliere politico legato al Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen.

Brigitte come Melisenda di Gerusalemme
Quel ritiro precoce dal cinema, quella fuga deliberata dall’immagine pubblica, suonano oggi come un gesto di autodifesa. Anche per questo il percorso di Brigitte Bardot è stato spesso accostato a quella di Marilyn Monroe: stesso sistema di esposizione totale, stesso consumo del corpo femminile, stessa pressione mediatica. Ma laddove Marilyn non riuscì a sottrarsi allo sguardo che la divorava, Bardot scelse di scomparire prima che l’immagine la uccidesse.
Osservava Simone de Beauvoir paragonando B.B. alla Lolita nabokoviana: «Brigitte Bardot è l'esemplare più completo di queste ambigue ninfe. Visto di spalle, il suo corpo di ballerina, minuto, muscoloso, è pressoché androgino; la femminilità balza esuberante dal suo busto incantevole; sulle sue spalle scende la lunga e voluttuosa chioma di Melisenda di Gerusalemme, acconciata però con una negligenza da selvaggia; le sue labbra accennano un broncio puerile e nello stesso tempo invitano a baciare; cammina a piedi nudi, se ne infischia di come è vestita, non porta gioielli, non ricorre a busti, non si profuma, non fa uso di nessun artificio, purtuttavia le sue movenze sono lascive, e un santo si dannerebbe soltanto a vederla danzare».
Nel dibattito critico sul divismo cinematografico, Edgar Morin, nel celebre saggio Les Stars (pubblicato in italiano come I divi, Mondadori, 1963), offre una riflessione chiave sull’industria delle celebrità e sul modo in cui i divi incarnano sogni, desideri e aspirazioni collettive, di cui la Bardot fa parte. Non a caso in alcune edizioni storiche dell’originale francese compare in copertina il volto iconico di B.B., a testimoniare come il suo mito fosse già considerato paradigma di star system. In Italia, le diverse edizioni di I divi hanno adottato copertine varie nel tempo, occasionalmente con l’immagine di Marilyn Monroe che da noi è considerata l’eccellenza del divismo, anche se non esiste una regola univoca che distingua sistematicamente le versioni italiane da quelle straniere per la scelta iconografica.

Ma com’era veramente Brigitte Bardot?
Dopo l’ultimo matrimonio pare che avesse messo la testa apposto, anche se proprio quello stesso anno, in un momento di depressione, Brigitte tenta il suicidio. La salvano con una lavanda gastrica. Non era la prima volta che ci provava. La prima nel 1960, a 26 anni, all’apice della carriera, la seconda nel 1983 per mancanza di carriera. E l’ultima volta? Il neo marito parlò di stress dovuto al lavoro in difesa degli animali. Già perché la Bardot stravedeva per gli animali e non si risparmiava per nessuna specie: foche (si era alleata con Pamela Anderson), tori (ne adottò uno scappato da un mattatoio), maiali (accusò il governo egiziano di “estrema vigliaccheria” per l’abbattimento di capi dovuto alla psicosi dell’influenza suina). E l’elenco potrebbe continuare con conigli, cani, agnelli, criceti.


Ma com’era veramente Brigitte Bardot? «Una donna bellissima, ma insopportabilmente avara, diffidente e anche un po’ razzista», ricordava il playboy Beppe Piroddi (anche se lui amava definirsi un “Amateur” come ebbe a raccontarsi nel libro dal titolo omonimo pubblicato da Mursia nel 2008), uno che l’aveva conosciuta bene per averla frequentata a lungo nelle notti calde della Côte d’Azur, insieme all’amico Gigi Rizzi che della Bardot fu uno dei toy-boy di turno. «Avara perché quando lei ti invitava a cena non c’era niente da mangiare, tranne che delle pizzette e una grande insalatona: mai pesce o carne. Diffidente, certo, per una comprensibile forma di difesa. In più aveva una mentalità borghese e se vedeva un bell’uomo alla guida di una bella macchina, esclamava: “Oh, quelle belle voiture!”, oh che bella automobile».