With a deep distrust and a deeper faith

22 Dicembre 2012

L’ultima volta che ho potuto coltivare il piacere di conversare con Emidio Greco – scomparso a 74 anni sabato, a Roma, dopo una lunga malattia che a un certo punto pareva aver sconfitto, ma che infine gli ha inflitto un colpo di coda crudele – è stato nella cornice ovattata d’una sala convegni al Lido di Venezia, durante l’ultimo Festival del Cinema. Velluti pesanti e generico plexiglas, del tutto incongrui col sole-scimitarra che splendeva fuori. Emidio mi aveva invitato a dialogare coi cineasti italiani dell’ultima generazione, sul senso del decennio appena concluso. Cosa resterà di questi anni Zero, o qualcosa del genere. Non mi era parsa una bizzarria, in effetti, come certo non era stata una stravaganza per lui. Tanto per lui cinema e letteratura (con l’aggiunta delle arti visive) erano, più che arti sorelle, oggetti della medesima sostanza. Ma se questo era ovvio per un uomo della sua formazione, e comprensibile anche per me che di quei tempi, si sa, sono un nostalgico, altrettanto non si poteva dire, con tutta evidenza, per gli altri partecipanti al (presunto) dialogo. Autori, alcuni dei quali da me peraltro ammirati, con le cui categorie di discorso proprio non mi riusciva d’intendermi.

 

 

Ecco, la dissimmetria patente di quella mattinata – constatata senza paturnie, con secca semplicità, come cosa a sua volta scontata – già dice molto, a ben pensarci, della differenza patita, e insieme vantata, da Emidio Greco rispetto al cinema italiano. Non stiamo parlando di un outsider, beninteso. L’ambiente, e “gli ambienti”, di Cinecittà e dintorni Emidio li conosceva a menadito; intanto per la sua instancabile attività diciamo “sindacale” nell’ambito dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici (sempre appuntita la sua polemica sulle strettoie produttive e distributive, sul contraddittorio rapporto coi poteri – e i fondi – pubblici, sull’inarrestabile decadenza d’un dibattito critico e teorico con sempre maggiore arroganza surrogato dall’esibizione dei dati di mercato), e poi perché era anzitutto un uomo esperto del mondo e degli uomini. Il più disincantato che conoscessi, in effetti. Una volta, in un’intervista che gli feci all’uscita di quello che è restato il suo ultimo film, Notizie degli scavi, tenne però a precisare: «Non bisogna confondere il disincanto col disimpegno. Niente nichilismo e niente soggettivismo gratuito, grazie. Giorno dopo giorno – proprio perché nulla è in sé deciso – dobbiamo decidere della nostra esistenza».

 

L'invenzione di Morel, 1974

 

Al di là della sua opera (per me restano memorabili i primi film realizzati a cavallo fra anni Settanta e Ottanta, L’invenzione di Morel, Ehrengard e Un caso d’incoscienza, in cui viene a frutto appunto la grande stagione “concettuale” vissuta nella Torino anni Sessanta dei Pistoletto e dei Boetti – il grande amico sul quale resta un suo originalissimo documentario dal titolo Niente da vedere niente da nascondere –; e poi gli ultimi, Il consiglio d’Egitto, L’uomo privato e Notizie degli scavi), per me Emidio rappresentava anzitutto proprio questo paradosso. Quello d’un uomo che aveva sperimentato una disfatta – la fine del cinema d’autore così come l’ha conosciuto il Novecento –, e l’aveva metabolizzata fino in fondo (mutando pure, e sensibilmente, la propria poetica); ma che non per questo si dava per vinto. E, più alla radice, il paradosso d’un uomo che appariva cauterizzato dalla nascita, se possibile, nei confronti dei trasporti e degli affetti dell’illusione, un illuminista vero se mai ne ho conosciuto uno; e che ciò malgrado, nascosti da qualche parte in qualche sottofondo radiante, conservava depositi di passione persino bruciante (com’è proprio, appunto, dei veri illuministi). Una temperatura che spingeva, chi lo conosceva bene, a parlare persino d’un cinema sentimentale, parola scandalosa che in verità lo deliziava, a proposito di certi accenti del Consiglio d’Egitto – con quel finale quasi mélo – o di certi sguardi in Notizie degli scavi. Il monologo dell’illuminista Di Blasi torturato nel carcere borbonico, nel film tratto dalla sotie di Sciascia, è una dichiarazione d’amore nei confronti della vita che oggi fa l’effetto d’una rasoiata («stai amando ora la vita come mai l’hai amata, come mai hai saputo amarla. Ora sai che cos’è l’acqua, la neve, il limone, ogni frutto, ogni foglia: come se tu ci fossi dentro, come se tu fossi la loro essenza […]; e i limoni, i limoni e la neve: i bicchieri appannati di gelo, l’acuto profumo»); così come ci si commuove a ripensare allo sguardo del ritardato di Notizie degli scavi, il «Professore» riflesso nello specchio d’una vetrina, di sera, mentre quasi leopardiano mormora – come non possiamo non fare, anche noi, oggi una volta di più – «ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era».

 

Il fatto è però che, a parte questi squarci che si aprivano d’improvviso nel suo cinema, un tale sentimento acuto dell’esistenza, Emidio, lo preservava con riserbo nevroticamente inscalfibile. Avvertivi con assoluta precisione, pur nella più viva cordialità amicale, che l’accesso a quella sfera ti era negato. Anche in questo caso senza patemi, come cosa ovvia e stabilita a priori. Esemplare il suo film-testamento, che è in verità il suo penultimo (fra i pochi scritti da lui, che amava piuttosto rifarsi agli amati classici della letteratura, da Adolfo Bioy Casares a Franco Lucentini passando per Karen Blixen e Leonardo Sciascia: sempre accerchiando il secondo lui infilmabile centro del labirinto, la vetta del “sistema”, l’ineguagliabile Borges), L’uomo privato. Che è la storia dichiaratamente autobiografica d’un altro professore, senza virgolette stavolta, che cerca in tutti i modi di difendere la propria intimità ma scopre che qualcuno lo sta seguendo, lo spia, per qualche motivo s’è messo in testa di realizzare un documentario sulla sua vita, appunto, privata. Come nell’unico Film realizzato da un autore che non credo Emidio potesse amare più di tanto, Samuel Beckett, quell’occhio indiscreto, in effetti, è il suo stesso.

 

L'uomo privato, 2007

 

Si capisce come l’ambiguità di questo aggettivo, privato, sia tutta voluta. L’uomo che con tanta efficacia ha forcluso il suo privato agli sguardi indiscreti del prossimo, ha sofferto anche una privazione che in qualche modo ha certo condizionato la sua esistenza. E non tanto, direi, per le sconfitte – artistiche e politiche – di cui sopra. Ma per un manque più alla base, più in fondo, la cui natura non conosciamo e che, date le premesse, è del tutto inutile indagare. Qualcosa che ha separato lui, in effetti, dal vivo di un’esistenza con la quale dava spesso l’impressione di avere poco a che fare. C’è una scena che si ripete in quasi tutti i suoi film, in forma più o meno mediata, ed è quella in cui il protagonista, attraverso i cui occhi seguiamo la vicenda, assiste a un ballo – senza prendervi parte e senza capirlo («ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era») – e, ciò malgrado, restandone catatonicamente fascinato. Ecco, lo sguardo dell’uomo Emidio, prima che dell’artista Greco, finiva spesso per assomigliare a quello di questi suoi personaggi. Le mani della mente, con le quali l’artista Cazotte percorre il corpo inaccessibile della vergine Ehrengard in quello che resta visivamente il suo capolavoro, sono il corrispettivo intellettuale e artistico d’un intervento diretto, d’una prensione fisica che, al personaggio come al suo autore, per costituzione risultava preclusa. Privata di questa parte dell’esistenza, in quel fondo remoto di sé, una voce nascosta – ma col tempo sempre più chiaramente udibile – reclamava attenzione. (Le mani appunto, in questo momento, sono il punctum della mia memoria di Emidio. Il modo in cui lui le muoveva mentre parlava, divertito, rovesciando parodicamente gli occhi a stigmatizzare qualche altrui scompostezza, qualche trasporto eccessivo, s’intende smodato e fuori luogo.)

 

E forse proprio questa protesta profonda e originaria si poteva traudire sotto, o dentro, la passione civile – in Emidio invece esplicita, e sempre più manifestamente professata, al volgere sempre più catastrofico degli anni. Come sono rari gli illuministi autentici, rari sono i veri liberali – nel tempo in cui tutti, più o meno, si professano tali. Ma questo davvero era Emidio, della stirpe intransigente e “rivoluzionaria” dei Gobetti e dei Rosselli. E quel sentimento nascosto di sé conferiva, a questo suo engagement, un accento più profondo, meno contingente, più acceso (with a deep distrust, diceva Fenoglio, and a deeper faith…). Consentendoci di credere, davvero, alla frase che conclude memorabile Il consiglio d’Egitto: quando l’illuminista sconfitto sale al patibolo e si rivolge al boia, un galeotto impietosito. «Voscienza mi perdoni», gli mormora quello. E lui risponde, col tono pacato che sappiamo: «Pensa alla tua libertà». Promesso, Emidio. Continueremo a pensarci – o ci proveremo, almeno.

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