Kathryn Bigelow / Detroit

15 Dicembre 2017

Nella notte tra sabato 22 e domenica 23 luglio 1967, alle tre passate, la polizia di Detroit fece irruzione nello United Community and Civic League, popolare ritrovo notturno in uno dei quartieri neri della città. L’aveva già fatto altre due volte in precedenza. Stavolta, invece di pochi avventori, trovò 82 persone che festeggiavano il felice ritorno di alcuni soldati dal Vietnam. I pochi cellulari disponibili impiegarono più di due ore a portare via tutti gli avventori, in un clima crescente di tensione creato dalle proteste degli arrestati (ammassati sul marciapiedi), dalle rudezze dei poliziotti bianchi (in particolare nei confronti delle donne nere), e dall’irrequietezza rabbiosa dei sempre più numerosi nottambuli che il clamore delle sirene e delle grida aveva richiamato sul posto. Dopo le cinque, mentre infine la polizia sgombrava la scena accompagnata da insulti e proteste, una bottigliata mandava in frantumi il vetro posteriore di una delle sue macchine. La prima vetrina veniva sfondata poco dopo.

 

Questa la cronaca essenziale dell’inizio della riot che per cinque giorni avrebbe sconvolto parte della città. Questo è anche l’inizio, quasi documentaristico, di Detroit, l’ultimo film di Kathryn Bigelow.

Il tema del film è il razzismo, declinato nelle forme delle prevaricazioni nei confronti della popolazione afroamericana negli Stati Uniti. Prevaricazioni ricorrenti, dal 1967 fino a oggi. Dunque, niente Summer of love e niente hippies nel film, nonostante la contemporaneità degli eventi, e non solo perché Detroit e San Francisco sono geograficamente lontane. L’obiettivo di Bigelow è stretto, focalizzato sulla violenza poliziesca, la rabbia afroamericana e la finale impunità degli agenti: cose della Detroit di quel tempo – e di New York, Los Angeles, Newark e delle tante città delle “estati calde” degli anni Sessanta – ma non cose di altri tempi; anzi, ingredienti essenziali della cronaca di questi ultimi anni, a partire dall’uccisione del diciottenne Michael Brown a Ferguson dell’agosto 2014, che ha portato a nuove ribellioni di massa nere e alla chiamata a raccolta di Black Lives Matter.

 

Il film è un’opera di denuncia. Mark Boal, lo sceneggiatore: “Non ho nessuna prescrizione da dare in merito al razzismo in America, se non la dolorosa e forse ovvia osservazione che le lezioni apprese 50 anni fa sembravano essere state dimenticate, a giudicare dalle continuate ingiustizie di Ferguson, Baltimora, Baton Rouge e di così tante altre città”. E in un’intervista al Guardian, Bigelow ha detto: “Sei tu che scegli se scendere in campo o non scendere in campo. Io voglio scendere in campo”. Qui, diversamente che negli altri film della stessa regista, la forma specifica dell’engagement è la riproposizione del retroterra storico dell’attualità, l'uno e l'altra mostrati in modo tale da evidenziare sia le differenze, sia la ricorrenza dell’offesa.      

Detroit “parte” dalla sommossa che, come le altre che investirono le grandi città americane tra il 1964 e lo stesso '67 – quelle del 1968 furono la risposta all'assassinio di Martin Luther King – fu innescata dalla brutalità poliziesca. Come nella realtà, la riot che si vede nel film nasce dalla spontanea reazione all'abituale violenza della polizia, ed è poi disordine e saccheggio, incendi e distruzione, presidio e repressione militare. Nel racconto della sommossa le folle e forze coinvolte negli eventi sono anonime. Ma questo è solo il contesto iniziale, funzionale a creare la necessaria tensione narrativa. La riot è ridotta poi a sfondo quando l’azione si concentra sull’“incontro” di alcuni poliziotti e giovani neri – e due ragazze bianche – nel chiuso di un motel. A quel punto finisce l’anonimato, tutti hanno un nome e un’identità. È come se iniziasse un altro film. Proprio perché così circoscritta, la vicenda assume un’icasticità teatrale. Il registro della narrazione cambia bruscamente, la brutalità dei tre agenti coinvolti più direttamente diventa puro sadismo e la sofferenza dei giovani martirio. Il film, come ha scritto un recensore, diventa un claustrofobico “film dell’orrore”.

 

 

La pellicola ha una struttura narrativa, per così dire, “a imbuto”, che procede per passaggi progressivi dal grande (e anonimo, appunto) al sempre più piccolo (e personalizzato): da una breve premessa – le belle tempere colorate con le figure stilizzate di Jacob Lawrence – in cui sono sintetizzati i fatti della Grande migrazione che dai primi del Novecento portò milioni di afroamericani dal Sud rurale alle città e fabbriche del Nord; alla prima parte che, prendendo le mosse dall’irruzione nel locale di cui si è detto, si apre a grandangolo sulla città e sulla riot (in cui brani di documentari d’epoca vengono integrati nel girato odierno); alla lunga seconda parte centrale in cui l’ottica si stringe sugli interni dell’Algiers Motel, in cui le due ragazze bianche e i nove ragazzi neri sono brutalizzati dai poliziotti, che uccidono tre di loro; a una breve parte pre-finale che si svolge nell’aula del tribunale in cui vengono giudicati – e assolti – i tre poliziotti che nel Motel avevano torturato e ucciso; al rapido scioglimento conclusivo in cui uno dei sopravvissuti del Motel trova lavoro nel coro di una chiesa nera locale.

 

Il film è quasi sempre fedele alla vicenda e ai personaggi storici. Ma è anche molto selettivo. È chiaro che non sono l'affresco storico e i comportamenti delle masse l'obiettivo di Boal e Bigelow. È la focalizzazione stretta sui protagonisti degli eventi nel motel a essere ritenuta più funzionale a drammatizzare il tema centrale: non tutti gli uomini in uniforme che entrano ed escono dall'Algiers Motel, infatti, sono assimilabili ai tre torturatori. Anzi, è il loro rifiuto a farsi coinvolgere che rende questi ultimi assolutamente emblematici.

La scelta è deliberata, come lo è la scelta delle fonti storiche. Anche se non è riconosciuto nei titoli di coda – per una questione di diritti non concessi, dice Bigelow – il riferimento primario per tutta la parte centrale della vicenda è The Algiers Motel Incident, il libro-inchiesta che John Hersey (l’autore del non dimenticato Hiroshima del 1946) pubblicò a un anno dagli eventi, nel 1968, mentre era in corso uno dei processi ai poliziotti. Fatti, aneddoti e battute prelevati dal libro sono integrati dalle ricostruzioni contemporanee (della Detroit Free Press) e posteriori e dal lavoro di scavo e dalle interviste fatte ad hoc dallo stesso Boal e dalla sua squadra di ricercatori. Naturalmente, poi, sceneggiatore e regista rivendicano la libertà di integrare la documentazione con l’immaginazione. A questa libertà si può ascrivere anche il fatto che la Detroit del film è in realtà il mosaico di una serie di località diverse nell’area di Boston e che l'edificio del motel è una casa privata “gentilmente concessa” alla troupe.

 

Dal punto di vista narrativo i passaggi dalla riot al motel e poi al tribunale non sono del tutto convincenti: i mutamenti di ottica e di registro sono troppo bruschi, troppo legati, forse, a un intento didascalico; non così, invece, per quanto riguarda l'intensità emotiva e la “presa” sullo spettatore. Rimane al recensore di ricordare che nella città militarizzata dalla Guardia nazionale e dall'esercito, oltre che dalla polizia locale, i morti furono 43 (33 neri e 10 bianchi), i feriti furono centinaia, gli arrestati 7200 e i danni alle proprietà ammontarono a 22 milioni di dollari.    

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