Ermanna Montanari: fare-disfare-rifare teatro

8 Aprile 2013

Come si può raccontare il teatro vivente, quello per cui la creazione è lavoro col magma dell’esistenza, non rappresentazione né intrattenimento? Laura Mariani e Ermanna Montanari ce lo mostrano in un bel libro, il cui merito va ugualmente alla studiosa e al suo oggetto di studio. Ermanna Montanari. Fare-disfare-rifare nel Teatro delle Albe, edizioni Titivillus, racconta la vita e l’arte di un’attrice unica, capace di una recitazione che è musica, sferzata ruvida, affondo nel dialetto, sogno, sensibilità pulsante e ferita, in uno stare in scena che è destrutturazione, ricostruzione, invenzione di mondi. Lo firma una studiosa del Dams bolognese, Laura Mariani, abituata a immergersi nei mondi complessi di attrici come Sarah Bernhardt, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse e in problemi come quelli del travestitismo teatrale. Qui ha abbandonato gli archivi per seguire da vicino un’attrice nel pieno della sua attività, rovistando nella storia della sua formazione, negli spettacoli cruciali che ha realizzato e che la definiscono, nei nuovi lavori creati di recente e in quell’avventura che è stata la direzione artistica del festival di Santarcangelo nel 2011, tutta dedicata a indagare il paradosso e il mistero dell’attore che finge per cercare verità, mettendo in pubblico, spesso con strazio, l’intimità più profonda.

 

Siamo asini o pedanti. Fotografia di Giuliano Cesari

 

Il centro, la chiave di interpretazione, sta a metà del volume, dopo una bella e ampia sezione fotografica che prova a ridare presenza a spettacoli svaniti nel tempo. Sta in quel paese di Campiano, nella campagna vicino a Ravenna, laddove Montanari è nata, in una famiglia ancora immersa nel mondo contadino, patriarcale, dove la lingua parlata è un rude dialetto gutturale. Le figure delle due nonne, una gracile e furiosa, l’altra matronale, enorme, cantilenante, con il nonno patriarca, dalle parole parche e taglienti, di cose, di silenzi, campeggiano su un’infanzia dialettofona che si adatta con fatica all’italiano, alla scuola, alla città, e che poi, pian piano, crescendo, nega quel mondo, ne fugge, per ritrovarlo proprio nel teatro, trasformando la lingua degli avi in corpo scenico, in incrinatura di una trasformazione (di un esilio) che molti italiani hanno vissuto, che tutti, diversamente, ci ha travolto.

 

Pantani. Fotografia di Claire Pasquier

 

La prima parte del libro si intitola Nascita di un’attrice e colloca la sua arte in un lavoro di gruppo, quello delle Albe, che germinano dalla coppia Ermanna Montanari-Marco Martinelli intorno ai sogni e agli scontri del 1977 bolognese. Ripercorre le differenti fasi della ricerca della compagnia, l’impegno sempre a ridare con il teatro il ritmo e le contraddizioni dei nostri tempi, fino a figurarsi una scena interetnica che dichiara, alla fine degli anni ’80, la Romagna africana e trasforma Ermanna in un’asina dalle enormi orecchie che con la sua lingua arcaica può intendere il wolof dei nuovi romagnoli senegalesi, chiamati vucumprà e extracomunitari, e raccogliere tutto il dolore del mondo.

 

Ouverture Alcina. Fotografia di Marco Caselli Nirmal

 

La seconda parte, denominata Canzoniere, dall’andamento più rapsodico e tematico, parte da Campiano e affronta gli spettacoli al femminile dell’attrice, Rosvita, I Cenci, da Artaud, e quelli come L’isola di Alcina dove il dialetto diventa musica, suono, canzone, grido, i molteplici mirabolanti viaggi nell’Ubu roi, per il mondo, con adolescenti romagnoli, delle periferie di Chicago, senegalesi eccetera. Fino a Ouverture Alcina, riscrittura fantasmatica dell’altro lavoro dedicato a una reincarnazione paesana della maga di Ariosto, composto con linee di nitore ed essenzialità orientale.

 

Ubu Buur. Fotografia di Cristina Ventrucci

 

Emergono la fatica e l’esaltazione di abbandonare l’idea tradizionale, ristretta, di personaggio per creare figure che vivono il qui e ora della scena, scontornando ogni certezza, testuale, identitaria, ogni attesa, ogni facile rispecchiamento, fino al travestimento maschile nell’Arpagone dell’Avaro di Molière, sfaccettata prova di recitazione trattenuta, di potere arpionato con ingordigia, realizzata con stupefacente resa fisica e vocale.

 

Il miracolo di questa attrice è la tensione continua fra fragilità e potenza, fra il trattenersi e il darsi, per creare figure indimenticabili, carnali, che scaturiscono spesso da labili, imprendibili fantasmi, o a essi danno consistenza. Come rivela la studiosa, Ermanna Montanari produce una qualità dell’energia e un insieme molteplice di forme che rivelano il combattimento continuo “fra attrazione per la morte e aspirazione alla luce, fra purezza e ambiguità, fra indeterminatezza e determinazione, fra ricerca di un linguaggio proprio e fascinazione del potere maschile”. In un fare, disfare, rifare che mostra sempre i segni della tensione a commisurare la vecchia arte un po’ inutile del teatro con le domande urgenti della vita profonda.

 

 

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