Gli scarabei di Jean-Henri Fabre

26 Dicembre 2023

Grazie al coraggioso progetto della casa editrice Adelphi procede con cadenza annuale l’edizione completa dei Ricordi entomologici. Studi sull’istinto e i costumi degli insetti scritti tra il 1879 e il 1907 da Jean-Henri Casimir Fabre (1823-1915). Nonostante la mole di oltre settecento pagine, da tempo compulso con piacere e porto con me durante le ricerche sul campo il ponderoso terzo volume, che raccoglie la quinta e la sesta serie delle dieci complessive. Il lettore che ha già affrontato la lettura dei due precedenti tomi si trova quindi giusto a metà dell’opera mentre chi inizia per la prima volta a leggere gli scritti del padre dell’entomologia moderna troverà passi memorabili e appassionanti, in particolar modo quelli dedicati ai Necrofori, alla Mantide, alla Cicala e, soprattutto, agli Scarabei stercorari. Ciascuna raccolta di ricordi è autonoma e può essere quindi affrontata senza la necessità di una rigorosa diacronia.  

Per la mia gioia di entomologo dedito allo studio dei Coleotteri, gli Scarabei sono i protagonisti di molte pagine di questo volume, ispirate da un intenso lirismo e da un’esperta misura formale (Ernst Jünger dovette averle bene in mente scrivendo, negli anni Cinquanta del Novecento, quel capolavoro di sapienza che è Il contemplatore solitario). Leggendole mi scopro legato a Fabre da un’affinità intensa e particolare. Autodidatta, senza titoli accademici, cattedre o progetti di ricerca finanziati dalle istituzioni, solo l’entusiasmo e l’amore per la vita degli insetti animarono le sue indagini e la sua scrittura. Proprio tale genuina passione per la natura viva e vivente lo allontanò dall’entomologia da camera, da approcci allo studio degli insetti basati sulla dissezione degli esemplari e sulle analisi morfologiche della sistematica. Un aspetto del suo carattere in cui si riflette il risentimento verso quegli stessi musei e accademie dai quali non venne accolto ufficialmente. Questo atteggiamento portò Fabre a distinguere con enfasi la scienza di laboratorio, i cui eccessi nel Novecento hanno spesso fatto passare in secondo piano la visione ecologica e organica delle forme viventi, dalla storia naturale praticata liberamente all’aperto, nella quale invece i Ricordi trovano il loro fondamento. 

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La poesia che rende la sua opera attuale ancora oggi è proprio la forza del fare empirico, l’amore per la forma e il comportamento degli insetti che anima l’osservazione sul campo rendendola una pratica artigiana concreta e sentitamente partecipata, mai una esposizione di dati asettici o di algide statistiche. Occorre una certa ingenuità negli intenti, o meglio una necessaria pulsione ad abitare poeticamente il mondo “altro” degli insetti, per motivare l’ingegnosa arguzia delle sue osservazioni. Una pulsione presente in una consolidata tradizione di scrittori-entomologi francesi, coevi o di poco posteriori come Étienne Mulsant, Charles Nodier, Marcel Roland, e che manca quasi totalmente in Italia – eccezion fatta per Mario Sturani (1906-1978) e Giorgio Celli (1935-2011) – a causa dell’artificiosa separazione tra cultura letteraria e scientifica imposta dall’idealismo di Benedetto Croce e dalla riforma scolastica di Giovanni Gentile.

La fortuna di cui godette Fabre e il pubblico che ne decretò la fama vanno ambientati nella Francia neopositivista di fine Ottocento, dove le nozioni entomologiche di base erano ben diffuse in tutte le classi, soprattutto nella borghesia, tanto che le storie sul comportamento degli insetti furono apprezzate in primis proprio da un pubblico cittadino. Traspare dalle pagine dei Ricordi la volontà d’offrire aneddoti e spunti di riflessione all’ingegnere o all’avvocato, comodamente seduto sul sofà del salotto. È così che Fabre viene recepito da Marcel Proust il quale nella Recherche, in Dalla parte di Swann, cita il passo sulla vespa scarificatrice a proposito del sadismo di Françoise; e, in maniera indiretta, anche dal Gadda dell’Adalgisa (dove la storia del previdente scarabeo raccontata dal buon Carlo è debitrice in maniera esplicita al Bacchelli del Fiore della Mirabilis, ma anche alle pagine di questa quinta e sesta serie dedicate alla vita degli stercorari).

Stupiscono inoltre le foto che illustrano i Ricordi realizzate dal figlio Paul, testimonianza d’una ricerca familiare condivisa, tramandata. Si tratta d’autentiche innovazioni tecnologiche che dovettero, ai tempi, far tremare più di un illustratore naturalistico probabilmente spaventato dal fatto che il nuovo medium potesse sottrarre del lavoro alla categoria; li ho trovati affini al documentario sulle farfalle, pionieristica opera in bianco e nero, che Guido Gozzano ideò e al quale le Epistole entomologiche dovevano in un certo senso fare da didascalia in versi.

V’è un aspetto che però rende Fabre a tutti gli effetti “antimoderno”, ossia il suo reiterato rifiuto dell’evoluzionismo. Fine osservatore del dettaglio, della presa diretta del comportamento, tanto da essere reputato l’antesignano dell’etologia, a tanta geniale punta nel “qui e ora” fanno da contraltare le ingombranti considerazioni sulla necessità d’un disegno divino, d’una mente superiore che indirizzi il design. È l’arduo problema dell’istinto: cosa guida gli insetti a avere coscienza di sé nell’ambiente e come è possibile che sappiano fare qualcosa, che tramandino una conoscenza? Quasi che l’intelligenza, così come la specie umana occidentale la intende, non possa essere che dono infuso dall’alto. Mentre la rivoluzione suggerita da Darwin, che pure stimava assai Fabre (lo definì "un osservatore inimitabile"), e dal metodo scientifico successivo suggerisce piuttosto che questa facoltà provenga dal basso, sia insita nelle cose e emerga dalle relazioni stesse, dai legami tra elementi.

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Infine occorre rimarcare il fatto che Fabre, candidato per due volte al premio Nobel, non credette in alcun modo all’intelligenza degli insetti. Nei suoi esperimenti continuò a considerare la loro una “cieca ostinazione da macchina”, come la chiamò nel caso della processionaria dei pini (“ottusità meccanica” la definirà il filosofo Daniel Dennet nel 1984). Escluse più volte che i comportamenti degli insetti potessero essere il risultato di intelligenza perché il suo paradigma cognitivo comprendeva esclusivamente l’intelligenza umana. Solo nel caso della vespa scavatrice – non a caso caro a Proust – e dello Sphex dalle ali gialle, che paralizza i grilli, Fabre sembra riconoscere all’imenottero una forma di furbizia, comunque ereditaria e non sviluppata individualmente. Se non si può rimproverare a Fabre di essere un uomo dell’Ottocento, occorrerebbe però oggi contestualizzare e raffrontare i suoi pionieristici studi alle dettagliate e comprovate analisi di Lars Chittka (Nella mente di un’ape, Roma, Carocci, 2023) che hanno comprovato come ciascun insetto, anche all’interno della stessa specie, abbia un proprio carattere e un’individualità, un modo soggettivo di risolvere i problemi. 

Come tutti i documenti storici anche i Ricordi entomologici andrebbero contestualizzati e, in tal senso, un apparato di note avrebbe giovato ma ulteriormente appesantito la già ponderosa edizione (forse un’apposita pubblicazione di saggi critici potrebbe colmare la lacuna e rendere il progetto più completo). Da registrare da ultimo come i nomi e la tassonomia, assai cambiati dai tempi di Fabre, siano stati lasciati come nell’originale proprio per mantenere la corretta prospettiva storica, aggiornandoli con la versione corrente nell’indice analitico (assai utile, strutturato per temi all’interno di ciascun nome). Non resta quindi che iniziare la lettura per gustare la ricercata e puntuale forza stilistica di molte pagine descrittive e narrative al contempo, e mettere in prospettiva le riflessioni filosofiche suggerite da Fabre: magari sporcandosi le mani di terra, come lui nell’Harmas de Serignan, nell’assolato Midi della Francia, oppure immedesimandosi nel salottiero e ozioso lettore parigino d’allora. 

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Marco Belpoliti, La passione per gli insetti

 

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