Cacce sottili. Fasmidi

23 Dicembre 2025

Appena trascorsa l’epidemia di Covid, durante quell’estate caldissima, il sonno della ragione generava mostri. Vacante in Versilia, consunto dall’ozio agostano, decisi di percorrere i più deserti campi nell’ora del mezzogiorno. Quando si dice “avere i grilli per la testa”: volevo seguire irresistibili fantasmi, cercare i Fasmidi, osservarne di selvatici in natura. Anche nei momenti che avrebbero dovuto essere di riposo un’innata irrequietudine generò obiettivi, pensieri, grattacapi. Ero agitato da astratti furori. Se il genere umano era perduto, ed io con tutti, dovevo fuggire dagli steccati, dai parcheggi, dalle recinzioni e dai sensi unici, dagli stabilimenti balneari, guadagnando l’ispido e isolato entroterra. Non appena il terreno sabbioso fermò la corsa posai sul prato stopposo la bicicletta. Camminai sotto alla scarpata d’un canale, nei pressi del padule, oltre i fitti canneti al margine del bosco. Presi a girovagare assorto col capo all’insù, vestito del solo costume da bagno. Poi mi sedetti su un rialzo del terreno. Nel silenzio del meriggio, in cerca di un miraggio, ebbro del profumo di fango e frutta che esalava dalla landa ho seguito una voce flebile via via più distinguibile. Che si trattasse del richiamo d’un grillo parlante, una voce petulante che assillava me, pinocchio entomologico? Cosa stavo cercando “fuori di me”? Nella calura estiva è facile avere visioni, effetti di fata morgana: ogni forma si confonde in una danza frenetica. L’irta brattea delle cime delle Alpi Apuane era smussata da arruffate nubi bianche e rosa. Accaddero eventi portentosi, premonitori, il cui esito privato sarebbe trascurabile all’occhio del bagnino e del bagnante, ma che meritano di essere scritti, almeno per chi è dedito all’osservazione delle cose della natura. Tre eventi entomologici legati da un filo che porta all’apparizione del Fasmide.

k

Nel salotto della casa di villeggiatura avevo attrezzato un angolo entomologico; sul balcone posizionai i terrari coi Fasmidi che non potevano restare a casa incustoditi. Fu proprio tra le stoviglie della rigovernatura che vidi una sera saltellare un insetto simile a una pulce nera. Se qualcosa non si mimetizza ci si mettono di mezzo i nomi, le etimologie derivate da bias cognitivi: era un grillo ma il corpo lucido e ali lo rendevano simile a un coleottero carabide. Era un Trigonidium cicindeloides, che vive nelle zone umide in prossimità della costa, tra le pendule spate dei canneti. La sua apparizione fra tazze e bicchieri fu un richiamo. Mi saltò in mente di cercarne altri e di studiarli più da vicino, affascinato dalle lunghe e fragili antenne, da quel nome che evoca il più elegante tra tutti i Coleotteri. Si poteva dire che imitasse una Cicindela oppure si trattava di una suggestione di cui era rimasto vittima Rambur nel 1838? Per qualche giorno ammattii intorno alle vicende degli Ortotteri: ordinai su Amazon la guida a quelli d’Italia e d’Europa, avevo sullo smartphone aperte schermate sulla tassonomia dei grilli. Durò poco ma fu assai intenso. Venni a sapere che certi ortotterologi – se non professionisti di certo assai più fissati di me – rintracciano e determinano i grilli oggetto dei loro studi tramite tracce sonore. Alcune specie criptiche, assai schive, altrimenti invisibili all’occhio umano, erano state identificate così, grazie alla registrazione del canto intercettato da microfoni sui cespugli e nei prati. Ogni richiamo emesso è tipico, specie-specifico: ciascuno suona il proprio spartito genetico. Immagino i repertori musicali nei computer di questi entomologi, database di file audio con tracce provenienti da tutto il mondo, roba da fare impallidire Sylvano Bussotti, la fondazione Tempo Reale. Dal naturalista elbano Leonardo Forbicioni venni messo al corrente della Natula averni, la specie più enigmatica, tra le più piccole ed elusive al mondo. Il solo nome bastava a collocarla in un lago solforoso alle soglie dell’oltretomba. Di color paglierino, grande pochi millimetri, la sua diffusione è puntiforme lungo le rive del Mediterraneo. Ne sono state avvistate (o talvolta solo udite) in Turchia, in Corsica, in Sicilia. Alle Canarie. Un autentico mistero, un criptide entomologico dal trillo armonioso e inconfondibile. Non m’è chiaro che tipo di persona possa essere quella che si mette in ascolto dei grilli, credo si contino sulle dita d’una mano coloro che vanno in cerca di tali minuscole essenze sonore. Ben presto mi stancai di tanta inconsistenza, delle labili tracce sonore. La fascinazione per i grilli e la bioacustica passò come una folata senza produrre alcun risultato degno di rilievo.

k

Ebbi appena il tempo di riprendermi dall’incontro col Trigonidium cicindeloides che l’insaziabile curiosità prese di mira un’altra specie già trovata tra le erbe e i pelosi ciuffi delle graminacee. L’estate versiliana portava in serbo una cavalletta all’apparenza simile a un insetto stecco: si chiama Acrida ungarica ed è una creatura dalle antenne a forma di foglia secca, lamelle di rame a forma di piccolo pugnale. Mi aveva trafitto prima gli occhi, poi il cuore. Sugli steli piegati sotto al peso dell’addome mi parlò sussurrando parole suadenti, quasi un canto di sirena. Mentre sfalciavo col retino di panno tra i fiori bianchi dei Daucus, popolati da grappoli di cimici Graphiosoma rosse e nere, ne entrarono a frotte scalciando recalcitranti. Le trovavo in fondo al sacco affastellate come mazzetti di steli. La bellezza dell’Acrida era funesta e irresistibile. Simile a un boccio antropomorfo tale Demogorgone mi ammaliava anche per via del taglio a mandorla dell’occhio indagatore, non meno espressivo di quello delle Proscopia brasiliane ritratte da Bates che già avevo vagheggiato. Ne tenni sei in un terrario per dieci giorni. Poi le liberai tutte. Averle vicine al letto, in salotto, osservarle in ogni momento della giornata, non leniva la distanza da loro, il senso di spaesamento e disappartenenza. Le guardavo senza stancarmi, con la visionarietà tipica dell’abbaglio, con strabilio, mentre il tempo trascorreva, coi titoli dei giornali su eccidi e dichiarazioni di guerra, le declamate e orribili spinte al riarmo: il genere umano era sicuramente perduto e io continuavo ad essere agitato da astratti furori.

Una troffa di buganvillea ombreggiava il balcone. All’ultima spiaggia decisi d’inventarmi un fine e di porre fine al girovagare senza meta per le lande desolate del Tirreno, un vagabondaggio diventato nel frattempo insopportabile. M’accontentai di cogliere il rovo per i Fasmidi, decisi che quella semplice azione sarebbe stata sufficiente; mi misi a piluccare i rametti migliori, più freschi. Il cespuglio era folto di presenze sensuali, lascive e perturbanti, simile al trittico del Giardino delle delizie dipinto da Hieronymus Bosch. Vedevo davanti a me rami che compenetrano frutta, uova da cui scaturisce copiosa la vita, un grande desiderio di generare da parte di ogni creatura. Reduvi mascherati, bruchi nudi o pelosi, ilari Pentatomidi, vespe e mosche, farfalle e falene di ogni forma e colore, un carnevale entomologico, coronato dalla presenza di un’elegante Panorpa. Stringendo nella mano inguantata il mazzo senza paura di bucarmi pedalai sotto l’ombra dei platani che portano sul lungomare giungendo a casa con quel graffiante bouquet. Nella gabbia m’attendevano gli insetti stecco affamati di fresca verzura. Ma notai che quei rametti, ancor prima d’essere inseriti nel terrario, erano popolati di neanidi selvatiche. Il Fasmide era già lì, molto prima di me.

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).