Insegnare letteratura?
Confesso di aver letto e riletto a più riprese il testo delle Nuove Indicazioni Nazionali licenziato dal Ministero dell’Istruzione e del Merito alcune settimane fa nella sua versione di bozza ‘aperta’ alla pubblica discussione. E più lo andavo rileggendo, vuoi per esigenze professionali vuoi per una reale volontà di capire, scevra da pregiudizi e prevenzioni ideologiche, più ne sono uscita disorientata.
Non che non sia chiaro l’impianto e l’orientamento complessivo (la difesa dell’identità occidentale e nazionale). E non che non emerga con nettezza l’impostazione pedagogica (il personalismo di Mounier, che pone al centro del processo educativo la persona e la sua libertà di scelta), unita all’idea di conoscenza come frutto di un processo di costruzione che ha al centro l’esperienza. Tutto dichiarato, come del resto appare evidente sin dall’esordio della Premessa culturale generale: «La Costituzione mette al centro la persona e concepisce lo Stato per l’uomo e non l’uomo per lo Stato come opportunamente sottolineava il costituente Giorgio La Pira» (Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e Primo ciclo d’istruzione. 2025, p. 8). L’affermazione, preceduta dal sottotitolo Persona, scuola, famiglia, sembra intrattenere un dialogo polemico con l’omologa che si legge in apertura delle Indicazioni nazionali del 2012 dopo il titolo Cultura, scuola, persona: «In un tempo molto breve, abbiamo vissuto il passaggio da una società relativamente stabile a una società caratterizzata da molteplici cambiamenti e discontinuità. Questo nuovo scenario è ambivalente: per ogni persona, per ogni comunità, per ogni società si moltiplicano sia i rischi che le opportunità.» (Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. 2012, p. 4). Due prospettive, due indirizzi nettamente diversi: interrogativo, ‘aperto’ alla complessità il secondo; assertivo e univoco il primo. La Premessa culturale del nuovo, ponderoso documento (154 pagine a fronte delle 68 delle Indicazioni nazionali del 2012) fronteggia infatti la complessità contemporanea ergendo argini e dighe contro i presunti frutti malati di una cultura che ha perso la bussola inseguendo falsi miti libertari e derive lassiste.
Il mio disorientamento nasce piuttosto dalla natura eterogenea, in alcuni casi molto diversa, che contraddistingue le sezioni relative ai saperi disciplinari, oscillanti tra una prescrittività puntuale, che definisce anno per anno competenze, obiettivi e conoscenze, e una vaghezza disarmante, quasi all’insegna del motto «S’ei piace, ei lice» («È lecito tutto ciò che piace») di tassiana memoria.
Lampante nel primo caso è l’esempio della storia (ma anche di altre discipline), identificata come ‘asse portante’ della nuova scuola in una prospettiva eminentemente ‘narrativa’, persino aneddotica, che riporta l’orologio della didattica di questa disciplina indietro di più di mezzo secolo, e ridisegna l’organizzazione delle conoscenze secondo una logica molto ‘orientata’, che investe contenuti e metodi.
Significativo del secondo caso l’esempio della letteratura. Si dirà: ma la letteratura può definirsi una disciplina? Cosa insegna? Qual è il suo valore educativo? La vaghezza non è in fondo insita nel suo stesso statuto epistemologico? Domande legittime, tanto più se calate nell’orizzonte complesso della società e della scuola di oggi, in cui i modelli tradizionali di insegnamento del testo letterario sono venuti meno mostrando la loro inapplicabilità.
Potremmo forse affermare che il fine per cui oggi studiamo la letteratura sia quello di formare una coscienza nazionale come è stato per decenni dall’Unità in avanti? O che le opere dei nostri grandi autori forniscano ancora un modello linguistico valido per forgiare una lingua comune? O, per andare a tempi relativamente più recenti, che l’educazione letteraria serva a imparare a leggere i testi per smontarne i congegni come fossero delle macchine complesse? È di tutta evidenza che siamo di fronte a proposte che, anche laddove resistano per tradizione o per inerzia, mostrano tutta la loro insufficienza e inapplicabilità. Almeno per quei docenti che hanno effettivamente a cuore tale insegnamento. Alla crisi dei modelli tradizionali, le Nuove Indicazioni danno una risposta netta: a) la separazione sin dalla scuola primaria dell’insegnamento della lingua da quello della letteratura; b) la centralità della lettura («leggere testi che contengono idee intelligenti aiuta chi li legge a diventare intelligente a sua volta», p. 36).
Prenderò in esame i due aspetti separatamente, anche se sono interconnessi. Partiamo dalla separazione lingua/letteratura, che nelle Indicazioni in vigore viene introdotta solo a partire dalla scuola superiore. Si potrebbe supporre che le intenzioni degli esperti chiamati a stilare le nuove linee guida fossero quelle di marcare l’importanza dell’educazione letteraria sin dal primo ciclo. Non a caso, molti linguisti hanno lamentato l’attribuzione all’ambito letterario di aspetti di più stretta pertinenza della lingua e contestato una presunta superiorità dell’educazione letteraria rispetto a quella linguistica (cfr. per questo, tra gli altri, Maria G. Lo Duca, Le Indicazioni Nazionali 2025: una prima lettura, e in questa rivista l’articolo di Maria Rosa Turrisi e Mari D’Agostino, Quale lingua per la scuola primaria?).

In verità, questa netta separazione lascia molto perplessi, soprattutto nella scuola primaria e secondaria di primo grado, in cui la dimensione della testualità letteraria è svincolata – com’è giusto che sia – dallo studio della storia della letteratura e dalla trasmissione di un canone istituzionalizzato di autori e di opere. Il testo letterario, proprio per la dimensione creativa gli è sottesa, è un’occasione formidabile per stimolare l’acquisizione lessicale, l’immersione nelle infinite possibilità della lingua, la capacità inventiva e l’esplorazione dell’immaginario. Anche e soprattutto nel primo ciclo di istruzione, secondo la migliore lezione di un signore che risponde al nome di Gianni Rodari (Grammatica della fantasia. Introduzione all'arte di inventare storie, 1973) o quella di un’insegnante illuminata e all’avanguardia come Ersilia Zamponi (I draghi locopei, 1986). Non stupisce, a questo punto, che proprio Rodari sia uno dei grandi assenti di queste Indicazioni nazionali per il primo ciclo, visti gli strali di cui è stato fatto bersaglio a più riprese il suo modello pedagogico, identificato tra i responsabili della caduta libera delle abilità linguistiche dei nostri studenti (P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, 2011). A fronte dell’imperdonabile riduzione del modello-Rodari a un rodarismo d’accatto, fa sorridere – nella migliore delle ipotesi – l’idea che il baluardo contro lo smottamento delle competenze linguistiche possa essere identificato nel ritorno a un insegnamento della lingua per esclusiva ‘via grammaticale’, sia pur battuta in modo «utile e intelligente». Non si sta con questo contestando l’idea che un codice linguistico poggi su principi e regole condivise, ci mancherebbe! O che, in nome della fantasia, si debbano accettare infrazioni gravi alla norma – questo significherebbe infatti inneggiare alla sciatteria e non alla fantasia. O che non si debbano correggere gli errori, magari non limitandoci solo a sanzionarli ma valorizzandoli come occasioni di crescita. Perché, come ci insegna Italo Calvino – sperando di non essere ora accusata di calvinismo –, la fantasia, la creatività nascono sempre da un lavoro attento, metodico, che consente di comprendere e saper applicare le ‘regole del gioco’. Ora separare, proprio nella scuola primaria e nella pre- adolescenza, la lingua dalla dimensione dell’immaginario risulta una forzatura teorica, poco utile e praticabile nella prassi scolastica reale. E infatti penso che non lo sarà.
Vengo ora alla letteratura e al perché, a mio avviso, la distinzione di cui ho parlato, se non fa bene all’educazione linguistica, ne fa ancor meno a quella letteraria.
Infatti, ammettendo pure che tale distinzione abbia un senso, dovrebbe essere sostenuta da un’attenta riflessione sullo ‘specifico’ letterario o, per dirla in modo più semplice, su ciò che rende unico l’incontro con un testo creativo, su ‘ciò che la letteratura può dare’ ed è diverso da ciò che si genera nella pratica di testi non letterari. Per essere onesti fino in fondo, non si può sostenere che questi aspetti manchino del tutto nel testo in esame. In vari passaggi, infatti, si accenna all’incontro con il testo letterario come un’occasione centrale della formazione, fino a sostenere che «leggere e […] interpretare testi letterari anche complessi è […] il modo migliore per affrontare in modo consapevole i tanti testi non letterari […] con cui gli studenti entreranno in contatto durante la loro esistenza» (NIN, p.36). Ma questi e altri richiami – alcuni più condivisibili di altri – sembrano disperdersi in mille rivoli all’interno di un testo che finisce per disattendere nella sostanza le affermazioni di principio.
Non solo perché tra le finalità della letteratura (leggere, raccontare, dialogare, interpretare, comprendere, scrivere) non troviamo proprio ciò che rende – a tutte le età – potenzialmente unico l’incontro con il testo letterario (l’acquisizione del piacere della lettura, certo, ma anche lo sviluppo dell’immaginario e il fare esperienza di sé nell’altro). Non solo perché l’atto interpretativo, pur evocato in vari passaggi, non viene mai posto realmente al centro con la forza e la giusta gradualità, come pure meriterebbe. Ma soprattutto perché, dopo esser stati sballottati come palline nel flipper, tra finalità, competenze attese, obiettivi generali e obiettivi specifici ripetuti più volte, ridondanti e ciononostante generici, resta la sensazione che alla letteratura sia attribuita una dimensione disimpegnata da qualsiasi altro fine che non sia l’incontro con i gusti dei giovanissimi (un po’ di epica classica, qualche mito, una strizzata d’occhio ai romanzi cavallereschi – ma solo «se piacciono» – saghe, fantasy, horror e graphic novel). I classici moderni possono essere al massimo una «buona opzione», ma su tutti campeggia Harry Potter, in assoluto il più citato. Per recuperare il gusto della lettura, sembrano dirci le Nuove Indicazioni, togliamo gli orpelli, limitiamo le analisi, smantelliamo abitudini stantie. E facciamo leggere bambini e bambine, ragazzi e ragazze «liberamente, felicemente, senza preoccuparsi di un fantomatico canone, e senza curarsi della storia letteraria» (p. 43).
Ma l’esperienza della lettura non può solo rincorrere i gusti dominanti. Il «brivido nella schiena» di cui parla Carola Barbero (Quel brivido nella schiena. I linguaggi della letteratura, 2023) nasce dalla capacità di immaginare mondi attraverso combinazioni di frasi, parole e suoni che significano molto di più del mero contenuto referenziale. E questa capacità va accompagnata, sviluppata, messa alla prova non solo con ciò che è più prossimo a noi, ma anche con ciò che diverge, che potenzialmente crea un conflitto di codici, eppure può spingere a domande interpretative importanti, nonostante la giovanissima età di chi apprende.
Giusto, giustissimo non imporre «infarinature» enciclopediche di storia letteraria in pillole alle medie inferiori. Ci sono testi, però, che creano un tessuto condiviso e appartengono a un immaginario comune, a cui tutte e tutti hanno diritto di accedere, al di là dei contesti sociali e culturali a cui appartengono. Affermare che è «inutile […] creare un ‘canone italiano’, meglio scegliere i buoni libri anche e soprattutto dalle letterature straniere» (p. 42), oltre a creare un attrito fastidioso come quello di un’unghia sul vetro con quanto si era sostenuto poche pagine prima («è chiaro che una parte cospicua delle letture degli studenti avrà per oggetto opere della tradizione culturale italiana», p. 37), potrebbe esser letto come un invito a rinunciare a priori ad alcuni testi della nostra letteratura, che, se opportunamente mediati e accostati con la giusta cura metodologica, possono parlare anche ai più giovani. Si dirà: le indicazioni non sono programmi e i docenti potranno fare le scelte più coerenti e idonee al contesto in cui operano. È vero: ma in molti casi saranno le case editrici a scegliere per loro e il rischio di avere manuali infarciti di maghetti e protagonisti di serie televisive non è poi così remoto.
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