5 per mille

La bellezza nell'era digitale

16 Giugno 2025

Instagram mi propone un’app che a sua volta mi propone un test. Se carico una foto, l’app valuterà gratuitamente il mio grado di bellezza, offrendomi anche una percentuale del fascino e di una serie di altre qualità estetiche, ammesso che l’algoritmo ne trovi. Considero i rischi: sarò in grado di sopportare la ferita narcisistica che mi procurerebbe una valutazione negativa? Credo di potercela fare, quindi carico la foto. Dopo qualche secondo, il valutatore di bellezza mi informa che la mia percentuale attrattiva sfiora il 50 per cento – ecco che la ferita comincia a sanguinare – mentre le cose vanno meglio per il senso di affidabilità e di fiducia che ispiro. La percentuale più alta la ottengo per l’accessibilità. Preferisco non indagare sui possibili sensi di questa parola che mi sembra vagamente irrispettosa. Come gran finale, l’algoritmo, ma forse è solo per farsi perdonare, fa un calcolo predittivo della mia età: 31 anni. In altre parole, non bella ma decisamente giovanile, mi terrei a galla perché sono una gattamorta di buon carattere.

Chiudo l’app e lascio scivolare il pollice sullo schermo del telefono per distrarmi con altri contenuti. Ma non c’è più modo di distrarsi. All’improvviso Instagram mi propone soltanto ginnastiche e massaggi che scolpiscono visi, assottigliano nasi e ingrandiscono occhi e labbra, rassodano gambe, risollevano menti. Trucchi che nascondono i difetti, creme che fanno miracoli: hanno migliaia di recensioni di donne cinquantenni che, dopo 28 giorni passati a spalmarsi quella crema, dimostrano trent’anni.

Un’applicazione di yoga al muro (yoga al muro?) mi dice che, se pratico dieci minuti al giorno seguendo i loro suggerimenti, mio marito mi sarà grato. E mi mostra i glutei della modella generata dall’IA. La sua voce sintetica dice che il marito, per via dei suoi nuovi glutei, si è dimostrato molto generoso (ma in che senso?).

Comunque dimentico il mio buon carattere e invoco Shiva, signore dello yoga, gli ricordo che lui è il dio che tutto crea e tutto distrugge.

A consigliarmi questa ottimizzazione estetica che guarirà per sempre il mio senso di inadeguatezza sono donne la cui vista mi fa sentire ancora più inadeguata. Sembra che il mondo sia fatto solo di corpi felicissimi e bellissimi e soprattutto molto simili tra loro, corpi che stanno attaccati al pianeta per qualche strano superpotere, di sicuro non per quella forza di gravità che ancora impietosamente il mio.

Darwin attribuiva al disgusto una funzione evolutiva, che ci proteggerebbe da situazioni potenzialmente pericolose per la sopravvivenza. Sarà istinto di conservazione la leggera repulsione che provo verso la moltitudine di corpi tutti uguali che fanno sentire il mio insufficiente? Un espediente per salvarmi dalla sfiducia e dal senso di inferiorità?

Ma soprattutto voglio sapere una cosa: questo ideale estetico da linea di montaggio, questa bellezza seriale a cui tutte dovremmo aspirare, scartando o correggendo ogni asimmetria o deviazione o difetto, chi lo ha deciso? “Nessun essere umano e nessun gruppo deve definirsi o essere definito sulla base di un altro essere umano o di un altro gruppo”, diceva Carla Lonzi.

Chi ha costruito questo stampo che pretende di definirci e clonarci?

Chiedo a ChatGpt se sa dirmi chi è. Lo sa. Voglio andare a conoscerlo, dico a Chat. Allora lui mi chiede dove preferisco incontrarlo: in America o in Corea o in Cina. Sicuramente in America, gli rispondo, perché credo di sapere per chi ha votato alle ultime elezioni e allora mi sarà ancora più facile detestarlo.

Andiamo? Andiamo.

Così, virtualmente, mi ritrovo ad Austin, ma potrei essere anche a San Francisco, a Palo Alto, o a Seattle o a Durham. Un giovane programmatore – ChatGpt mi suggerisce di chiamarlo Ethan – vive nel quartiere residenziale di East Austin: qualche suv posteggiato ai bordi della strada arroventata, la vibrazione e il ronzio costante dei condizionatori.

Entro nell’appartamento. Pareti lisce, bianche, senza quadri. Un pavimento di cemento levigato. Arredamento geometrico, monocromatico, finestre chiuse, aria climatizzata. Un divano di velluto. Non c’è niente di brutto in questo appartamento e niente di davvero seducente. L’arredo di Ethan rispecchia la sua idea di bellezza: “liscia, levigata, lucida, priva di ogni negatività, di ogni ferita”, come direbbe il filosofo Byung-Chul Han a proposito dell’estetica dominante: un’estetica senza attrito, senza ambiguità, senza spessore. Ne parla nel suo libro La salvezza del bello. Lisce, levigate e senza ferite sono anche le donne che Ethan sta modellando, donne a cui i filtri da lui progettati toglieranno rughe, cedimenti, segni di vecchiaia, nei, cicatrici, spigoli o rotondità eccessive, affinché assomiglino alla levigata matrice di bellezza a cui tutte noi dovremmo attenerci.

Sulla scrivania di Ethan ci sono un Macbook pro M2 max, un gigantesco monitor, una tastiera personalizzata, un mouse da gaming, cuffie che cancellano i rumori, una webcam dimenticata accesa: mentre lavora, con la coda dell’occhio, Ethan osserva se stesso. Lui ha poco meno di trent’anni, indossa la felpa di una squadra di basket, voleva laurearsi a Standford ma ci è rimasto solo due anni, perché nel frattempo ha ottenuto un finanziamento per un progetto di startup e le occasioni vanno prese al volo. Sulla base dei canoni di bellezza che lui stesso elabora, Ethan non è bello per niente, ma non sembra preoccuparsene.

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Ethan sta lavorando a un sistema di estetica computazionale: non si chiede cos’è la bellezza, la sta quantificando, misurando, programmando, automatizzando. Ethan non disegna volti né corpi, ma allena modelli di intelligenza artificiale che poi diventeranno filtri di bellezza automatici o generatori di volti artificiali o sistemi di scoring estetico (la simpatica app che mi ha attribuito un micragnoso 50 per cento in attrattività).

Per farlo, alimenta la sua macchina con milioni di foto di corpi e di volti che hanno ottenuto più visualizzazioni e più like sui social o su YouTube. Donne bianche o dai tratti vagamente asiatici, labbra rimpolpate, mandibole affilate, zigomi alti, pelle molto chiara, occhi grandi, capelli lisci e folti: una bellezza a punteggio, prodotta dalla media algoritmica tra Hollywood e Seul, che performerà meglio in una call su Zoom o in una candidatura su Linkedin, una bellezza capace di creare desiderio, di generare invidia, senza disturbare troppo, però. Di donare il senso di appartenenza a una supremazia estetica, che è poi la prerogativa per essere visibili, e quindi il diritto a esistere. 
Nell’epoca della riproducibilità digitale, quindi, la bellezza non è più né oggettiva né soggettiva: è programmata: decisa da una rete neurale addestrata su milioni di selfie. Cosa che, quantomeno, garantisce la sua neutralità, direbbe Ethan. Ma non è vero, perché nella programmazione del suo algoritmo, Ethan lascerà inavvertitamente scivolare un bias, un pregiudizio, la sua predilezione o la sua avversione per qualcosa o per qualcuno, il suo sguardo maschile bianco e etero e americano, che noi interiorizzeremo e diventerà anche il nostro sguardo. “I computer riflettono chi li ha progettati”, sostiene Meredith Broussard, nel libro La non intelligenza artificiale. Il problema, dice la saggista, è che sono nascosti così bene che diventa difficilissimo catturarli. 
Un esempio piuttosto famoso, ma anche uno dei più lampanti, risale al 2009. Lo racconta James Bridle in un volume inquietante sull’opacità del mondo tecnologico intitolato Nuova era oscura: una consulente strategica taiwanese-americana di nome Joz Wang aveva acquistato una nuova Nikon per la Festa della mamma, ma quando aveva provato a scattare una foto della sua famiglia la macchina si era rifiutata di catturare l’immagine. Qualcuno ha chiuso gli occhi, ripeteva il messaggio di errore. “L’apparecchio, preprogrammato con un software per attendere che tutti i soggetti guardassero a occhi aperti nella direzione giusta, non teneva conto della diversa fisionomia dei non-caucasici”, racconta Bradley. Di certo i programmatori non volevano creare una macchina fotografica razzista. È altrettanto certo che i programmatori fossero americani o europei.

Ma i bias sono solo un aspetto del problema. “Se non comprendiamo il funzionamento delle tecnologie complesse – dice ancora Bradley – le interconnessioni tra sistemi di tecnologie e le interazioni tra sistemi di sistemi, allora resteremo per sempre inermi, in balia delle tecnologie, mentre il loro enorme potenziale verrà facilmente imbrigliato da élite senza scrupoli e multinazionali inumane”. Perché ovviamente, dietro tutto al lavoro di Ethan, dietro al senso di costante insufficienza che ci viene instillato e al bombardamento di modelli estetici che ci vengono suggeriti per essere all’altezza, c’è il mercato. Quando i social – ma anche le riviste e la televisione – ci avranno imposto quel canone estetico, il mercato ci dirà che l’opportunità di esserne all’altezza dipende solo da noi stesse, dipende dalla quantità di tempo e di denaro che siamo disposte a investire. E mentre quello stesso mercato ci farà a pezzi, nel vero senso della parola, parcellizzando i nostri corpi, oggettivizzando ogni singolo pezzo di noi – siamo sempre meno individui complessi e sempre più un agglomerato di singole parti da ottimizzare – la pubblicità ci convincerà a spendere il nostro denaro non per vanità ma perché abbiamo il diritto di prenderci cura di noi, il diritto di dimostrare meno degli anni che abbiamo, il diritto di diventare sessualmente desiderabili. In altre parole, il diritto a essere felici. 
La filosofa Maura Gancitano ha scritto un libro importante che analizza il concetto di bellezza non come valore universale ma come uno strumento culturale e politico di addomesticamento, di sfruttamento e di controllo. Il libro si intitola Specchio delle mie brame e spiega, tra l’altro, come l'oggettificazione del corpo femminile, l'interiorizzazione dello sguardo altrui e l'impatto dei media e dei social network nella diffusione di ideali estetici omologanti, abbia anche un forte valore politico “perché ci mantiene in una situazione di rispecchiamento, ci rende identici a noi stessi, non ci libera da noi, non ci scuote e non ci lascia il tempo di indugiare”. 
Oggi, dice Maura Gancitano, “si definisce bello ciò che crea engagement, traffico, like, condivisioni, ciò che è capace di generare attenzione”. E se, a un certo punto, ci rifiutiamo di aspirare a quel modello di magrezza o di giovinezza che ci viene imposto, allora ci viene proposto un modello differente, donne con un corpo più simile al nostro, ad esempio, anche loro impegnate a migliorarsi, a ottimizzarsi, perché quello che conta è “associare la bellezza a un bisogno di consumo”. 
È quello che sperimento quando decido che non mi importa niente di piacere a Ethan, quando mi dico che nel loop del rispecchiamento non ci voglio stare e smetto di aprire i contenuti sponsorizzati o i post di influencer con cui i social continuano a martellarmi. Passano due giorni e Facebook mi propone un’app di incontri che a sua volta mi propone un test. Se carico la mia foto e una mia biografia, l’app mi farà incontrare qualcuno capace di apprezzarmi per quella che sono. Spengo il telefono e lo lancio contro il muro.

In copertina, Estate 1981 / Delphine Cauly.

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