La leggenda del giapponese ignoto

2 Gennaio 2016

Secondo il Digital Music Report IFPI, ogni giorno YouTube ha più di quattro miliardi di visualizzazioni, così come ogni giorno ognuno di noi assiste, volontariamente o meno, a decine di video. Come spiega Kevin Allocca, trend manager di YouTube, durante una delle famigerate TED talk, la viralità dei video è soggetta a circostanze fortuite, nel senso che basta carpire l'interesse di un digital influencer che funge da nodo strategico per la diffusione di una vera e propria epidemia. Un qualsiasi video può essere piantato nella rete e subire una fase di germinazione di brevissimo o lunghissimo termine, fino a quando emergerà in superficie garantendosi il passaggio dall'eterotrofia, all'autotrofia, o, in altri termini, allorché avrà giunto una tale celebrità da assurgere a genere che si basta da solo, soggetto a una traduzione intersemiotica creativa, rielaborato e replicato secondo svariati contesti.

 

Personalmente, sono stata colpita dal fenomeno di “Sono giapponese” sia per simpatia endemica e territoriale che per il fatto che è diventato l'headline, lo slogan, di una campagna di una delle più note case automobilistiche nipponiche, la Toyota. L'aspetto più interessante del meme “Sono giapponese” è il tempo di sedimentazione negli archivi del web: due anni. Il video contenente questa chicca, infatti, fa parte di una raccolta di interviste realizzata da Luca Iavarone, responsabile dell'area cultura di Fanpage.it, noto per mettere in difficoltà le sue vittime con domande banali, volte a smascherare l'ignoranza latente nell'italiano medio. Il reportage in questione, datato 19 settembre 2013, ha luogo a Napoli, precisamente nel Duomo della città, in occasione delle celebrazioni in onore del patrono San Gennaro, legate principalmente al miracolo della liquefazione del sangue del santo, che si verifica tre volte l'anno: dalla prima domenica di maggio e negli otto giorni seguenti, il 19 settembre e il 16 dicembre. Il miracolo di San Gennaro assume un significato legato alle sorti della città tanto che il suo esito negativo è sempre stato additato quale foriero di presagi negativi. Il coagularsi della comunità dei fedeli, al pari di quella del sangue, ha ispirato Iavarone che ha posto a tutti gli intervistati la domanda “Cosa chiede a San Gennaro”, con l'intento di comprendere se la loro presenza alla liturgia fosse dovuta a fede o a scaramanzia. I napoletani non deludono mai e ci sono risposte che si distinguono per comicità naturale, ma quella che ha lasciato il segno è di un giapponese, con indosso la maglia della SSC Napoli, elemento che basta da solo a suscitare risate isteriche, che ha laconicamente risposto “Sono giapponese”. Cosa avrà mai voluto dire? La giapponesità è un limite alla pratica cattolica? La giapponesità preclude la corretta interpretazione della domanda? O era solo una volontà di affermare la propria provenienza geografica? Il giapponese in questione, solo per sedere nei banchi del Duomo in quel dato giorno e per indossare la maglia della squadra della città, ha dimostrato, al primo colpo d'occhio di essersi letteralmente immerso nell'universo di senso della napoletanità. La sua risposta è salita agli onori della cronaca, ripeto, dopo due anni, per diventare una strategia di evitamento delle domande “scomode”, tanto che è stata ibridata con altri meme incentrati sulle situazioni assurde di vita o, addirittura dei film, come nel caso di “Luke, sono tuo padre”, battuta cult di Star Wars remixata in “Luke, sono giapponese”. In questo caso essere giapponese diventa una filosofia di vita, che permette a chi la sposa di uscire di scena, salvandosi la pelle, con effetti speciali, sfruttando lo stupore dell'interlocutore. “Sono giapponese” ha dato voce al malessere di una generazione, o di un paio, tra cui la mia, da tempo alla strenua ricerca di soluzioni creative per evadere dagli interrogativi scomodi di una realtà non tanto generosa. I fan più fantasiosi, infatti, hanno rilevato delle somiglianze con il proprio status di giovani precari sostenendo la tesi che propugna “Assumi giapponese” come risposta veridica.

 

 

 

 

Realtà o leggenda, è indubbio che il giappo-napoletano, oltre a incarnare usi e costumi esotici, così come vengono definite le pratiche di culture altre dall'antropologo sociale Chie Nakane, dialoga con i più disparati idoli delle comunità germogliate spontaneamente sui social network, primo fra tutti il calciatore Zlatan Ibrahimović, divinità indiscussa per i follower della pagina Facebook “Chiamarsi Ibra”. Come i suoi più noti colleghi forniti di nome e cognome, il giapponese ignoto ha diverse pagine e gruppi dedicati in cui nascono cicli epici trans-testuali, che spaziano dal programma televisivo “Chi l'ha visto”, passando per le extended version di circa due ore, sino a giungere ai mash-up musicali e ai montaggi filmici.

 

 

Ma il fenomeno memetico va oltre, sino a infettare, come accennato prima, la sfera del marketing di prodotto, con la campagna della Toyota Aygo, una macchina giapponese. In questo caso, l'essere giapponese si modalizza non più secondo il non saper o il non voler rispondere, ma è l'affermazione pura e semplice dell'essere, la mera descrizione di uno stato di cose. Toyota adopera la giapponesità anche come opposizione all'essere tedesco, ossia l'essere Volkswagen, contraltando lo scandalo dei test falsati con due parole, verbo e aggettivo, che da sole significano onestà e affidabilità. Insomma, ritorna l'annoso duello Oriente vs Occidente, questa volta tra due ex alleati, ancora una volta combattuto sul versante industriale, proprio come accadde ai tempi della seconda guerra mondiale con la seta, dove ebbe la meglio il nylon americano, acronimo minaccioso di “Now You've Lost Old Nippon”, più volte smentito come leggenda metropolitana. Il just in time del toyotismo si conferma efficace: il successo di “Sono giapponese” sarà giunto giusto in tempo per ribaltare il maggiore volume di vendite della Volkswagen del primo semestre 2015? Scherzi a parte, come ha affermato Gabriele Marino, “le modalità di appropriazione di un dato tema o di una data figura, e in generale di un qualsiasi contenuto mediale, stanno andando sempre più verso forme di bricolage, di creatività vernacolare, ossessivamente preoccupate dal grado di manipolazione e personalizzazione che pongono in essere”. Le comunità di pratiche del web sono in grado di ricavare un intero mondo possibile da una semplice affermazione, solo perché fa ridere, anche dopo due anni.

 

L'antropologo Giovanni Gugg ha dissipato il mio interrogativo sulla viralità a lungo termine così: “viviamo in un mondo carsico: il flusso delle notizie (belle e brutte, d'intrattenimento o altro) è come un torrente, tumultuoso e concitato; a un certo punto s'immerge nel sottosuolo dell'oblio, eppure ogni tanto riemerge”. Il giapponese ignoto non era destinato all'oblio eterno, ormai è entrato nell'immaginario cult dei meme, e sarebbe sicuramente tanto interessante chiedergli, alla luce degli ultimi accadimenti, cosa pensa del suo inaspettato successo. Scommettiamo che tutti conosciamo la risposta?

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