Dress Code 19. Mamdani, Albanese e altri tessuti

22 Novembre 2025

In uno Zeitgeist in cui basta una scintilla per innescare una shitstorm e far tremare interi equilibri politici, i dettagli vestimentari sono diventati dispositivi strategici. Rafforzano una posizione, traducono visivamente un’intenzione, oppure vengono piegati a letture forzate che trasformano ogni scelta estetica in un’arma interpretativa.

Negli ultimi tempi è bastato cambiare una giacca o indossare il colore “sbagliato” per scatenare reazioni mediatiche degne di un colpo di stato. Dress code ovunque, polemiche a pioggia: il pianeta sembra aver deciso che l’outfit è ormai la via più rapida per litigare in pubblico.

Tra i bersagli preferiti dei media c’è Francesca Albanese, alla quale è stato affibbiato di tutto, compreso il titolo folkloristico di “strega”. E quando non si osa andare così pesanti, molti giornalisti italiani – in prevalenza uomini, guarda caso – ripiegano sul suo stile per provare a delegittimare le sue posizioni pro Pal. In un articolo firmato da Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera si legge che Albanese rafforzerebbe il suo ruolo tematico grazie a “occhiali modaioli” e “una studiata eleganza radical chic sui toni pastello”.

Il paradosso è noto. La Moda è un metronomo di storia e cultura, registra mutamenti sociali con precisione millimetrica, ma viene puntualmente derubricata a “roba da femminucce”. Salvo poi diventare utilissima quando bisogna screditare qualcuno senza avere a disposizione un argomento decente. Se non riesci a confutare le idee, attacca l’outfit.

Peccato che Albanese sembri preferire il grigio ai toni pastello, e che i suoi occhiali siano forse “estrosi”, non “modaioli”, anche perché la forma cat-eye non è esattamente nel pieno del suo momento di gloria. E comunque: se anche indossasse abiti griffati, cosa cambierebbe? Da quando il prezzo di un vestito misura la coerenza politica? O la sua legittimità?

A questo punto meglio spostarsi altrove per vedere come si articola lo stesso meccanismo. Per esempio a New York.

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Feroz Khan Zadran (@khann_journey) fondatore del format “What do you do for a living”, una serie di reel in cui ferma passanti “a caso” per le strade di New York usando il saluto “Excuse me, I love the outfit” seguito dalla domanda “cosa fai nella vita”, l’11 novembre 2025 pubblica un reel del suo incontro con Zohran Mamdani, il sindaco eletto con la promessa di rendere New York “affordable”, cioè conveniente, accessibile, sostenibile. Come spesso accade, Zadran chiude il breve scambio chiedendo a Mamdani un consiglio da rivolgere al “mondo”, meglio se in hindi urdu, la lingua nativa. Mamdani si scusa per non esserne così padrone e preferisce esprimere il suo motto in inglese: “no matter what you do, make sure you can recognize yourself in the mirror at the end of the day”. Riconoscersi allo specchio alla fine della giornata significa restare fedeli ai propri valori e non lasciarsi disorientare fino a mascherarsi in qualcosa di estraneo. In fondo, lo specchio è il primo osservatore della nostra identità pubblica, e tradisce subito le dissonanze. La coincidenza valoriale tra dentro e fuori, insieme alla figura del riflesso, ricorre anche quando Mamdani, sentito dal magazine GQ, definisce il suo stile personale come “a reflection of who I am and myself as a New Yorker”.

Sul Web, su testate come il New York Post o su pagine Substack, si legge che Zohran Mamdani, indiano e musulmano, sindaco di New York in carica dal primo gennaio 2026, viene accostato a John Lindsay. Quest’ultimo è stato sindaco per due mandati ed era considerato carismatico e progressista dalle nuove generazioni. Viene eletto come repubblicano e successivamente passa al partito democratico, ma secondo i detrattori è il responsabile dell’indebolimento di New York in un periodo di crescita dei crimini e difficoltà economiche. Sul piano vestimentario il paragone prende forma sul New York Times, che sottolinea la predilezione condivisa per le cravatte sottili in voga tra gli anni Sessanta e Settanta, gli anni dei mandati di Lindsay. Rimarcare il suo stile preppy funziona come un modo per annullare la diversità e la multiculturalità di Mamdani. È un tentativo di normalizzazione estetica. Tradotto: se ti vesti come un WASP degli anni Sessanta, smetti di sembrare ciò che sei. Oltre a dargli del trickster, l’implicazione è che il suo fascino sulle fasce più giovani possa risultare pericoloso e non utile alla gestione della città, insinuando che il suo mandato possa replicare gli effetti negativi del predecessore considerato “trasformista”. Nello stesso articolo del New York Times si afferma che Mamdani sia cresciuto all’ombra di Don Draper, il protagonista di Mad Men che, nel corso della serie, subisce una reale trasformazione per un furto d’identità. La similitudine probabilmente deriva dall’abilità comunicativa di entrambi e dall’uso delle cravatte come modo per rinfrescare completi formali “accessibili”, proprio come l’ideale di New York immaginato da Mamdani. La cravatta diventa un atto di editing identitario, come se entrambi, un accessorio alla volta, riscrivessero il proprio ruolo. In un episodio del podcast di moda e lifestyle maschile “Throwing Fits”, pubblicato a giugno 2025, il sindaco dichiara di possedere quattro o cinque completi formali del brand SuitSupply dal costo di circa 500 euro ciascuno, scelti per comodità e praticità durante le sue lunghe giornate di lavoro. Nella stessa occasione racconta di un completo grigio acquistato in una fiera illegale sulla 30th Avenue da una donna che vendeva abiti maschili in cachemire a 100 dollari l’uno, una vera occasione. I suoi completi sono ricondotti al “millennial core” per via della vestibilità aderente di pantaloni e giacca, il cui slim-fit è visibile anche nella scarsa ampiezza dei revers. L’estetica millennial core comunica efficienza e prossimità in opposizione ai macrosegni delle élite newyorchesi. Qui il pensiero corre alle varianti barthesiane di aderenza e volume, dove la magnificazione di quest’ultimo serve per esprimere potenza, basta pensare ai paramenti papali. Mamdani sceglie l’attillato e rifiuta quell’estetica, mentre Trump, il suo principale avversario, predilige giacche con revers larghi e pantaloni ampi, un’eredità del power dressing degli anni Ottanta tipico degli imprenditori dominanti. Dilatare la propria presenza nello spazio fa parte del dizionario visivo del patriarcato muscolare e delle sue modalità di affermazione del comando. La differenza di stile viene accostata a una diversa idea di autorità. I completi di Mamdani vengono percepiti come “da giovane alla ricerca del primo lavoro”, un modo implicito per suggerire immaturità nella gestione del ruolo, mimetizzando un giudizio politico in una critica sartoriale.

La retorica ageista della stampa americana emerge anche nei commenti al suo modo di vestirsi, in particolare sul fatto che Mamdani indossi sì la cravatta, ma con camicie dal colletto giudicato “sbagliato”, cioè button down, associato a una competenza non esperta né in materia di moda né in politiche cittadine. La sua autenticità e la sua coerenza con il proprio retroterra vengono lette come un difetto. Eppure, la scelta di evitare l’ostentazione è radicata anche in un hadith islamico riconoscibile dai tre anelli che indossa, rigorosamente d’argento perché agli uomini musulmani è vietato l’oro: oltre alla fede sulla mano sinistra, Zohran porta un anello del nonno paterno sull’indice della mano destra, e un altro anello, donato dalla moglie Rama Duwaji, artista di origine siriana. Duwaji ha ridefinito il ruolo di first lady dando forma a una figura indipendente e capace di incidere sullo stile comunicativo e personale del marito. La sua presenza centellinata modifica il codice comunicativo della power couple, mostrandosi non come appendice à la Melania, bensì come co-autrice dell’immagine pubblica di Mamdani. Collabora con molte riviste, anche di moda. Su Vogue America, nell’ottobre 2025, pubblica una serie di illustrazioni dedicate all’artigianalità durante la Fashion Week, con l’obiettivo di restituire visibilità al lavoro e dare organicità all’inorganico. Su The Cut, nel settembre 2025, disegna gli oggetti memoriali conservati da donne palestinesi fuggite da Gaza per mantenere vive le proprie radici e il genius loci del paese. Una kefiah, una coperta patchwork crochet, un anello d’oro. Oggetti che racchiudono la volontà di preservare un legame. Duwaji viene considerata un modello di riferimento per il suo taglio di capelli e il suo modo di vestire contemporaneo, riconoscibile e fortemente personale.

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Dopo la vittoria elettorale, la fotografa Kara McCurdy, artefice dell’identità visiva del sindaco, pubblica alcune foto inedite del matrimonio Duwaji Mamdani, mostrando come la coppia abbia scelto di vivere in chiave “accessibile” un giorno solitamente caratterizzato da spese elevate. Si recano all’ufficio del registro in metropolitana, con un bouquet comprato per strada e festeggiano con un panino, vale a dire piccoli gesti che smontano dall’interno l’ostentazione matrimoniale e la rimappano su pratiche quotidiane. Duwaji indossa un abitino di pizzo bianco drappeggiato con gli stivali, tratto invariante della sua cifra estetica, mentre Mamdani veste abiti tradizionali legati al suo heritage, tra cui la kurta bianca, una camicia lunga fino al ginocchio con spacchi laterali, simbolo dell’estetica indiana moderna che usa spesso anche nelle occasioni ufficiali. Radici e tradizioni risuonano anche oltreoceano, nella Repubblica d’Irlanda, dove la neopresidente eletta Catherine Connolly ha indossato il giorno del suo insediamento, l’11 novembre 2025, un ensemble-manifesto di colore viola, firmato dalla designer irlandese Louise Kennedy. L’intento è rendere omaggio sia alla sua predecessora Mary Robinson, nel 1990 prima donna laburista a guidare la nazione, che ha dato origine ai progressi della contemporaneità, sia per affermare i valori di dignità, forza e creatività alla base del suo programma di empowerment femminile e dell’autentica irlandesità. In una storia di Instagram Connolly ricorda che il viola era indossato dalle suffragette per esprimere giustizia e libertà, spesso negate, come affermato in un’intervista al podcast “Rebel Matters”, alle donne e alla lingua irlandese, nota anche come gaelico irlandese. Rivendicare origini e appartenenza per Connolly è una questione di prospettiva, e significa riconoscere il potere della lingua e delle donne come risorse per affrontare le sfide della contemporaneità. Il viola è inoltre un colore regale nella tradizione irlandese perché ottenuto dal mollusco buccino, una lavorazione complessa riservata a persone di alto rango.

Il nostro viaggio negli stilemi politici si chiude in Giappone, dove Sanae Takaichi, conservatrice, nazionalista e prima donna premier dal 21 ottobre 2025, adotta uno stile dichiaratamente citazionista, ispirato a Margaret Thatcher, la “donna di ferro” riconoscibile per le perle e per i blazer nei toni del blu. Takaichi riprende le giacche dai colori istituzionali e la collana di perle, nel suo caso ereditata dalla madre. La coerenza estetica diventa un modo per comunicare fermezza, radici e continuità, anche se declinate in un quadrante ideologico completamente diverso da quello di Connolly. La citazione non è imitazione, è una strategia retorica per mostrare valori saldi, conoscenza e padronanza della tradizione.

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Nel giorno dell’insediamento del nuovo governo giapponese, però, l’attenzione mediatica non si è concentrata solo sulla premier. A catalizzare curiosità e polemiche è stata la Ministra per la sicurezza economica Kimi Onoda. Il suo completo argento è finito al centro del dibattito non tanto per il colore, quanto per le ragioni che lo hanno determinato. Onoda, quasi 180 centimetri di altezza, ha spiegato di non essere riuscita a trovare un outfit della sua taglia approvato dalla Casa Imperiale e di aver quindi indossato un completo già presente nel suo guardaroba. Il chiarimento è arrivato su X, dove Onoda è molto seguita, e la sua risposta immediata ha provocato meraviglia. È raro che una ministra giapponese affronti una questione così concreta e personale con tanta trasparenza, dato che l’etichetta politica locale si regge ancora sull’equilibrio delicato tra modestia formale e distanza istituzionale. Onoda, con un post, ha scardinato questa grammatica implicita. Ha mostrato che anche in Giappone, dove il decoro vestimentario è quasi un codice costituzionale, basta un abito della misura sbagliata per mettere a nudo le tensioni tra aspettative sociali, corpo femminile e rappresentazione del potere.

Nonostante visioni politiche e appartenenze distanti, il dress code si conferma il campo di battaglia più immediato su cui si proietta il giudizio pubblico. Francesca Albanese viene ridotta a un paio di occhiali; Zohran Mamdani si gioca legittimità e multiculturalismo in un completo troppo attillato; Catherine Connolly trasforma un ensemble viola in un manifesto di identità nazionale; Sanae Takaichi riscrive Thatcher in chiave nipponica mentre Kimi Onoda deve giustificare un completo fuori taglia. Prima ancora delle parole e dei programmi, sono i tessuti che parlano, e il potere li ascolta con una severità che non riserva più nemmeno alle idee. L’abito trasforma la narrazione politica un filo alla volta.

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