Star Wars. Il fandom colpisce ancora

12 Gennaio 2016

Nel caso siate latitanti in un bunker sotterraneo da qualche anno, potreste non essere al corrente del fatto che il 16 dicembre la Disney ha fatto uscire in pompa magna l’ultimo (per ora) capitolo di Star Wars, questa volta col sottotitolo Il risveglio della Forza, diretto da J.J. Abrams e probabilmente destinato a battere tutti i record battibili nel rutilante mondo dei blockbuster hollywoodiani. Nel caso poi la vostra latitanza duri da diversi decenni, potreste non sapere nemmeno che Star Wars ha fatto la sua comparsa nell’immaginario collettivo nell’anno domini 1977, primo film di una serie creata da George Lucas che sarebbe poi proseguita con altri cinque capitoli realizzati tra il 1980 e il 2005 (sulla qualità degli ultimi tre episodi non ci soffermeremo).

 

Ai fini di quest’articolo in fondo contano solo queste informazioni, insieme alle non trascurabili nozioni riguardanti gli incassi stratosferici (prima al cinema e poi in home video) e la straordinaria capacità della saga di convertire al suo credo milioni di fan, disposti a qualsiasi tipo di perversione pur di dimostrare al mondo la loro fede ed evangelizzare i non adepti. Perché in fondo ciò che conta è che Star Wars (o Guerre Stellari, per i più nostalgici o non anglofili) non è più “solo” una serie di film, ma una vera e propria entità iconica dalle mille sfaccettature, che ormai trascendono perfino i “testi” iniziali, ovvero le circa 12 ore di materiale cinematografico che la compongono. Un po’ come per i testi sacri delle religioni, ricchi di aggiunte apocrife e interpretazioni diverse delle stesse parole, non siamo più di fronte a un’opera chiusa, come molti film, anche ottimi, si limitano ad essere. Siamo di fronte a un cult, ovvero (guarda un po’!), parlando di religioni, un culto.

 

Parlare di cult nel caso di un film che già all’epoca della prima uscita batté ogni record d’incassi sembra poco appropriato, ma come ha scritto Massimo Scaglioni, «nel corso degli ultimi quattro decenni la categoria di “culto” è stata variamente impiegata in diversi contesti», spesso molto lontani tra loro, tanto da costituire «un’etichetta trasversale o un “meta-genere”», con un minimo comun denominatore nella «dimensione relazionale, sociale e culturale che essi sono in grado di generare». Uno degli aspetti fondamentali del culto è quindi l’idea di comunità: così come nel primo significato del termine, quello dell’adorazione religiosa, anche nelle forme di venerazione più laiche è centrale la connessione con gli altri adepti. La diversità esibita, l’essere minoranza, l’uso deliberato di codici inaccessibili alla massa sono caratteristiche riscontrabili in pressoché ogni forma di sottocultura, e quelle cinematografiche non fanno eccezione. Sì, sto parlando a voi che sapete esprimervi nella lingua degli Wookiee.

 

Come avrete intuito, Guerre Stellari è sicuramente un esempio magistrale di questo genere di fenomeni, ma allo stesso tempo se ne è ormai distanziato finendo per dare luogo a qualcos’altro, che lo rende pioniere di una sorta di rivoluzione contemporanea nel mondo del cinema e del fandom. Nella raccolta di saggi Resistance Through Rituals, Stuart Hall, Tony Jefferson e altri partivano dall’egemonia culturale di gramsciana memoria per analizzare le modalità di resistenza e ribellione attuate dalle comunità giovanili britanniche nel corso degli anni, attraverso codici di appartenenza legati al vestiario o alle forme di svago. Le diverse espressioni del dissenso politico, o anche solo di un generico malessere sociale, dal fenomeno mod a quello punk a quello skinhead, venivano espresse tramite diverse forme di superficie volte a segnalare l’appartenenza a un sottogruppo, a una sottocultura, appunto, con “culti” specifici e necessariamente meno generalisti di quelli relativi alle classi dominanti. Questa tendenza, in una forma sicuramente più leggera e meno socialmente antagonista, ha attraversato da sempre anche la sfera del cinema, che vede da tempo la presenza di gruppi di fan dediti al culto di opere, autori o generi ignorati o maltrattati dal grande pubblico, secondo un’adorazione a volte spropositata e al limite della sanità mentale.

 

Se però un tempo il fan legato a una determinata opera, a una serie o a un autore non aveva moltissime maniere per dimostrare il proprio attaccamento, se non attraverso ripetute visioni casalinghe, messe in  scena in sala (vedi il Rocky Horror Picture Show), fanzine e raduni, ora la Rete consente una vastissima modalità di espressione delle proprie preferenze e di connessione tra appassionati, in una sorta di “nicchia grande quanto il mondo”. E in quest’universo, Star Wars è il vero e proprio Impero.

 

Negli anni ‘80 John Ellis, scrivendo di televisione, dichiarava che «la concezione della famiglia come pubblico determina una serie di atteggiamenti nei riguardi di quello che può essere considerato materiale adatto per la TV. Vengono evitati gli interessi specifici, soprattutto quelli che separano le generazioni». In Rete e in particolare su YouTube, mancando una “programmazione” vera e propria, ma essendovi piuttosto infiniti diversi broadcasters, spesso riconducibili a un singolo utente, accade l’esatto contrario: ognuno può incontrare i propri interessi specifici, da apprezzare prevalentemente in solitudine, intrattenendo semmai rapporti sociali non con i propri familiari ma con i propri “simili” sparsi per il globo, attraverso le funzioni social inscritte nei siti in questione. Proprio sotto questo aspetto però le nicchie di un tempo si differenziano dalle loro omologhe contemporanee: la linea piuttosto netta che in passato divideva il cult dal mainstream, la sottocultura dal gusto imperante (di nuovo l’Impero), sembra oggi essersi assottigliata sempre più, con i culti che guadagnano sempre di più il centro della scena e si impongono all’attenzione delle masse.

 

John Fiske nel 1992 poteva scrivere che «la fan culture non fa alcun tentativo di far circolare i suoi testi al di fuori della propria comunità. Si tratta di testi narrowcast, non broadcast». Beh, ne riparleremo quando usciranno gli incassi definitivi del Risveglio della Forza. Sì, perché come hanno notato molti recensori del recente capitolo, il nuovo regista ha fatto un film da fan per i fan, sapendo di non realizzare solo un prodotto cinematografico, ma un nuovo tassello del Grande Culto. Per Star Wars non esistono più spettatori comuni, ma fan, adepti, discepoli ansiosi di riconoscere nel nuovo più tracce possibili del vecchio. Basti leggere cos’ha dichiarato George Lucas, massacrato dai suoi stessi seguaci per i deludenti episodi degli anni 2000: “Perché dovrei farne un altro se tutti mi rimproverano continuamente e mi dicono che sono una persona orribile?”. L’Autore, anche quando è il Padre supremo che ha creato l’oggetto da venerare, va simbolicamente ucciso nel momento in cui la sua visione non rispecchia più quella dei seguaci. Come da copione, infatti, la Disney, dopo aver comprato da Lucas i diritti della saga, non ha preso in considerazione le sue idee per l’ultimo film, preferendo affidarne la regia a un fan dichiarato, J.J. Abrams.

 

Guardatevi intorno: trentasette anni di uscite cinematografiche, merchandising selvaggio, edizioni speciali, prequels, speciali natalizi, e soprattutto tanta, tanta Internet, dalle chat room più oscure a Javapedia, hanno reso quel culto un affare di tutti, che oggi ritroviamo onnipresente negli spot di qualsiasi prodotto vendibile, dal panettone al cellulare: un’Icona che prescinde dai semplici film della serie per spalmarsi come un blob su tutto il resto. Nell’epoca del frammento, della brevità, del multitasking, della “percezione distratta” di cui scriveva Walter Benjamin, poi, lo scenario che si è creato con la migrazione online di molti film e molti spettatori sembra aver avuto un effetto pervasivo di cultualizzazione sull’intera storia del cinema, Star Wars in primis. Come scritto da Umberto Eco molti anni fa, «Per trasformare un’opera in un oggetto di culto bisogna essere capaci di smembrarla, smontarla, scardinarla in modo da poter ricordare solo parti di essa, prescindendo dal loro rapporto originario con il tutto». Esattamente ciò che avviene su un sito come YouTube, in cui si realizza lo smembramento del testo nelle sue sotto-parti, ridotte a entità nuove, non più inserite in una catena di significati ma rese indipendenti, sganciate. Avete davvero bisogno di rivedere per l’ennesima volta il vostro dvd del Ritorno dello Jedi? O magari vi basta andarvi a cercare le scene migliori su Internet, magari per l’occasione commentate da Mark Hamill o recitate da qualche adolescente finlandese con gli amici?

 

Le sequenze diventano estraibili, citabili, e tra loro soprattutto scene madri e battute entrate nel mito, pezzi di bravura e immagini-choc: un’antologia della serie, insomma, eletta dalla Rete. Questa cultualizzazione generale delle opere cinematografiche, fruite più attraverso la selezione di estratti salienti, memorabili, piuttosto che nella loro interezza, spiega perché il web abbondi di video basati sui paradigmi dell’antologia, della classifica, della compilation, in cui un’opera è citata per sineddoche attraverso i suoi frammenti più conosciuti o degni di nota, i suoi highlights. E Star Wars in questo ci sguazza, sembra fatto apposta. Di più: almeno l’ultimo capitolo, è fatto apposta.

 

La Rete, poi, e in particolare YouTube e i vari siti omologhi, non è solo un enorme coacervo di testi “spezzati”, ma anche di paratesti, che ne rappresentano probabilmente l’elemento caratteristico, sicuramente molto più centrale rispetto all’era analogica. C’è un’enorme mole di materiali (naturalmente molto più copiosi e organizzati per quanto riguarda i blockbuster hollywoodiani come Star Wars piuttosto che per più modeste produzioni europee) che vengono appositamente creati dai produttori come appendici del lungometraggio da indirizzare specificamente al pubblico del web: videogiochi online, linee narrative minori, profili in cui i personaggi si presentano con la loro identità fittizia come fossero reali, e molte altre strategie commerciali. Serve forse ricordare che Guerre Stellari fu il primo film, già nel ’77, a puntare moltissimo su tattiche di promozione che prefiguravano quelle attuali?

 

E ha fatto scuola: anche se con risultati variabili a seconda dell’opera da promuovere, è ormai facilmente riscontrabile la tendenza all’adozione, anche da parte di prodotti più mainstream, di caratteristiche in passato tipiche del cult: attaccamento feticistico all’oggetto e ai suoi protagonisti (per esempio con la frequentazione di pagine social o blog immaginariamente gestiti da personaggi immaginari); immersione in un mondo circoscritto e definito, quello del film, da poter “abitare” (per esempio grazie all’acquisto di prodotti di merchandising); tendenza alla selezione di momenti particolarmente graditi, che possano rimanere nel tempo come tracce a sé stanti nell’immaginario culturale, e possano fungere da “codice” per il confronto con altri fan (e in questo caso, la riduzione “preventiva” a clip operata dalle case produttrici è probabilmente l’esempio più chiaro). Inoltre, come hanno scritto Jerald Hughes e Karl Lang, è la trasformabilità la peculiarità principale dei contenuti contemporanei: «i prodotti culturali digitali sono liquidi: facilmente riproducibili, facilmente distribuibili e soggetti a infinite modifiche, estensioni e ricombinazioni». Un’intera generazione ormai conosce (e spesso contribuisce a creare) un immaginario di montaggi personali, omaggi, citazioni, remix di Star Wars, in cui l’opera originaria finisce per disperdersi e perdere la sua identità di oggetto concluso e immobile.

 

Umberto Eco, nel suo Opera aperta, distingueva tra un “allora”, quello dell’arte classica, in cui il fruitore era portato dalle convenzioni dell’epoca ad interpretare l’opera secondo canoni piuttosto rigidi e limitati, e un “ora”, quello che Eco individua nel modernismo novecentesco di Joyce, Brecht o Luciano Berio, e di cui fa risalire le origini alla poesia simbolista di Verlaine e Mallarmé. Nell’ambito di questa tendenza, «non significa che l’opera non abbia un senso: se Joyce vi introduce delle chiavi è proprio perché desidera che l’opera sia letta in un certo senso. Ma questo “senso” ha la ricchezza del cosmo, e l’autore vuole ambiziosamente che esso implichi la totalità dello spazio e del tempo – degli spazi e dei tempi possibili». E ancora: l’autore «non sa esattamente in qual modo l’opera potrà essere portata a termine, ma sa che l’opera portata a termine sarà pur sempre la sua opera, non un’altra, e che alla fine del dialogo interpretativo si sarà concretata una forma che è la sua forma, anche se organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli in sostanza aveva proposto delle possibilità già razionalmente organizzate, orientate e dotate di esigenze organiche di sviluppo». George Lucas, sei ancora lì?

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