L'opera cantata di Carmelo Bene (e Lucio Dalla)

26 Maggio 2023

«Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento». Comincia con questo incipit travolgente Autobiografia di un ritratto, scritta da Carmelo Bene nel maggio del 1995 per la prima edizione della raccolta delle sue Opere, pubblicate in quello stesso anno da Bompiani. Volute da Elisabetta Sgarbi, sono state varie volte ristampate dalla casa milanese e oggi tornano uguali, con un aggiornamento bibliografico 1995-2023, per i tipi delle nuove edizioni dirette da Sgarbi, La nave di Teseo. 

Riprenderle in mano, in un volume di quasi 1.104 pagine, è come riaprire un archivio del nostro teatro, e ritrovarlo vivente, pieno di umori, di idee, di provocazioni, di sussurri e grida nelle nebbie di anni di spettacoli mainstream, con solo qualche punta lacerante la piattezza diffusa.

“L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie d’ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronografie, biopsie, gastroendoscopie…” e così via enumera Bene, in un vertiginoso catalogo di analisi e complicazioni fisiche che generano come conseguenza “un’intransigenza fisiologica” che ha improntato “le fasi operative della mia ricerca antiumanistica su disfunzioni e guasti del linguaggio, annientando ogni connivenza tra idea-spirito e corpo che chiede(rebbe) d’essere finalmente disindividuato, ché non s’appartiene, dispensato da ogni attività motoria inflittagli dai capricci dell’io, restituito alla sua quiete inorganica, vivisezionato una volta per tutte, senza nostalgie eliogabaliche d’unità ‘originaria’; senza più interno budello enfiato a intenzionare la polpetta avariata del discorso – ingurgitato il fetore dei soffi indigeribile – e masticarla-disarticolarla-espellerla nella formulazione ‘espressiva’ delle feci e del vomito. Tutto è agrafia-afasia. La scrittura è puerile malafede”.

Fa balenare qua, nelle prime pagine dell’Autobiografia, i presupposti di quel disarticolare il discorso, di quel togliere di scena, di quel mutarsi in macchina attoriale che dà alla sua presenza una forza che nega la quotidiana ‘normalità’ del teatro, dell’attore, dello scrittore, e proietta Bene nella statura di Artefice, capace di voli sublimi e di precipizi nel basso corporeo, nella disarticolazione come nella presenza assoluta, non rappresentativa, scossa elettrica, peste artaudiana che contagia.

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Copertina dell’edizione 1995.

Aprire gli archivi: “Ghiaccio. Luce ghiaccio albeggia sul tondo grigio che lascia apparire sagome bianche e un uomo in scuro. Acqua. Gorgoglio di acqua. E una sposa, la Marcia nuziale, che scolora in suoni concreti, e il gorgoglio. Bene si spoglia dall’elegantissimo frac, si siede davanti a un letto. La sposa si sveste, si spoglia di busti con seni finti, sino ad arrivare ai suoi seni, e l’attore indossa e smette corazze. E i suoni si tramutano in grande concerto vocale, o s-concerto, come dice l’Artista, l’Attore, il Grande Attore, voce che urla, ruggisce, modula verso i toni sottili, miagola, implora, deride, percorrendo tutte le scale, i suoni, le sonorità, l’udibile, il silenzio. Immobile, con lievi spostamenti da un leggio all’altro, misura e lampi, sorrisi e lievi abbandoni. Risuona dentro, fuori, altrove”. In Hamlet Suite appaiono cento Amleti, cento madri, cento Ofelie, in testi di Shakespeare, Lacan, Gozzano Laforgue: tutto è rastremato, ma carico di barlumi di altri spettacoli, di precedenti Amleto.

Un frammento di Hamlet Suite

Ho citato un pezzo della mia recensione sul dorso locale Emilia Romagna dell’“Unità” (“Mattina” del primo febbraio 1996). Lo spettacolo era in scena a Bologna all’Arena del Sole. Il pomeriggio del 31 l’Artefice presentò quel volume delle Opere, con uno sparring partner d’eccezione, Lucio Dalla, come inaugurazione della stagione del teatro dell’Università, la Soffitta.

Riapro l’archivio e cito dal pezzo principale, uscito quello stesso primo febbraio e intitolato Lucio, Carmelo e la musica:

“È assalto. L’assalto degli studenti, dei fotografi. La sala è stipata all’inverosimile. Al tavolo Carmelo Bene al centro, Lucio Dalla al fianco, con poca, pochissima barba. Poi il professor Trezzini, che apre l’incontro. Una presentazione delle Opere di Carmelo Bene, l’Opera Omnia ancora in vita, un privilegio dato a pochi, il segno, se ce ne fosse bisogno, che si tratta di un grande artista”.

E qui mi fermo un momento. Quando un uomo di teatro muore, viene dimenticato quasi subito. La sua opera è legata alla fragilità della presenza, più che in altre arti. Sono pochissime le figure che restano nella memoria. Delle avanguardie teatrali del dopoguerra, che tanto hanno determinato il nostro teatro, radi sono i nomi che rammentiamo, quasi tutti stranieri: Grotowski, Brook, Barba, Kantor, Pina Bausch… Tra gli italiani, in modo costante, direi solo un paio di registi, Strehler e Ronconi. E poi Carmelo Bene. Su di lui l’attenzione editoriale e mediatica non è mai venuta meno. Grazie alle sue numerose, dirompenti apparizioni televisive, alle sue posizioni mai riconciliate con un sistema mediocre, la memoria e pure il mito della sua presenza sono ancora ben vivi, forse per una necessità di radicalismo, che rimetta in discussione un mondo artistico troppo adagiato su sé stesso.

Nelle Opere, opportunamente ripubblicate, c’è tutta la presenza e il sottrarsi dell’Artefice, da integrare con i numerosi cd che ne registrano le performance vocali, con i video di spettacoli e delle ‘corride’ televisive al Maurizio Costanzo Show.

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Carmelo Bene e Lucio dalla alla presentazione di Opere, nel 1995.

Continuo a rovistare nell’archivio, sempre in quell’articolo.

“Di musica parleranno i due, della musica di Carmelo Bene: del teatro di Carmelo Bene come musica. Musica sporca, tesa ai limiti e oltre del suono, del senso. Del rappresentabile, dell’udibile. E di amicizia raccontano, duettando”. Lucio Dalla: “Pochi hanno la fortuna di seguire quanto Carmelo la musica, di essere vicini alla musica. Anche la sua parola è una ricerca di suono. Lo sentirete in questo spettacolo-concerto (Hamlet Suite, ndr): va in alto senza assottigliare la voce; una sottigliezza, una raffinatezza dell’organo vocale tale non la trovo nei cantanti. La sua parola è ricerca di suono, come in Charlie Parker, in John Coltrane; la sua è come per loro una ricerca continua della forma, una sofferente ricerca di musica. Io ho fatto canzoni su Nuvolari, su Caruso. Può essere cantato Carmelo Bene? No, perché lui è musica, canzone. Nei concerti pop vedi solo effetti speciali e mossettine; non trovi teatro e musica. Musica e teatro diventano tragedia, come in Janis Joplin, in Sid Vicious. Quello stupore lo provo quando sento ‘cantare’ Bene; quando lo vedo è la più grande emozione”.

Bene parte dall’amicizia con Lucio, dal premio che ha dato a Dalla quando era unico direttore e unico membro della giuria di Taormina Arte, manifestazione nella quale ha premiato anche sé stesso, alla carriera. E poi inizia: “Non voglio qui presentare le mie Opere”. E in realtà le presenta, inanellando una sfilza di negazioni: “Non mi sento un letterato. Come il teatro è un non luogo, così la letteratura conta se la si fa con qualcos’altro. Landolfi diceva: non si può fare letteratura con la letteratura, musica con la musica. La mia è un’impossibilità vocale, come l’irrappresentabilità in teatro. Non riuscirei a pensare a un teatro che non sia musica. Bisogna dire oltre il dire; il suono è l’alone del suono, la parola deve disfarsi della voce. Anche Lucio, quando canta prova l’impossibile: per la semplice ragione che solo l’impossibile è possibile nell’immediato. Bisogna liberarsi dal senso. Non il significato, ma il significante. Bisogna disfarsi di sé stessi, arrampicarsi sull’impossibile. Come la Callas: era l’universo, non una virtuosa. Bisogna superare il virtuosismo. Non c’è virtuosismo in Dalla; i testi di Lucio somigliano ai miei: non sono neppure una parodia o uno sberleffo, ma come un gatto che si morde la coda. Un musicista non può essere musicale, non sa niente di musica: come si fa a vivere con la vita? Si fa sempre altro. Bisogna sempre fare qualcos’altro da quello che si sta facendo, sennò non sarai mai un grande cretino”. E poi, ancora in risposta a Dalla: “In concerto vuol dire questo s-concerto. Differire quella morte dell’orale che è lo scritto. Un work in regress continuo. Questo smemorarsi lo provi nel concerto, ma bisogna distribuire trappole per non farla franca”. L’incontro si chiude col ricordo dell’“apparizione alla Madonna” di Bene, ossia la Lectura Dantis dall’alto della Torre degli Asinelli con la voce diffusa in tutto il centro per il primo anniversario della strage alla stazione del 2 agosto 1980. È un Dante “detto al buio, perché non c’è nulla da vedere”. Alla fine della non presentazione del libro irrompono nella sala alcuni gruppi teatrali che occupano spazi in città. Chiedono di aiutarli a far uscire il teatro dal ghetto. E Bene: “Io non ho niente a che vedere col teatro: una delle chance delle quali mai privarsi è quella di detestarsi, di non essere quello che si fa” E altri rovesciamenti di senso, fino al finale: “È dar di fuori che conta. Il cantore è nello smemoramento di sé. Io non mi rivolgo a un pubblico; lo ringrazio se non mi importuna mentre vado di fuori”.

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Immagine da Hamlet Suite.

Credo che in questa cronaca ci sia molto del senso del libro, che ripercorre una scrittura che si nega nel farsi, che aspira alla scena e la rifugge, che cerca una presenza assoluta perché sa che non si è e non si può essere. Scorrono nel volume testi famosi come Nostra Signora dei Turchi, il romanzo del sud del sud dei santi, o meno noti come Credito italiano V.E.R.D.I, abbozzi e opere, selezioni da saggi come L’orecchio mancante, testi su figure che hanno ossessionato l’autore per una vita come Giuseppa Desa da Copertino, il monaco volante, il santo ignorante, o come Pinocchio o Amleto. Si leggono scritture sceniche come Il rosa e il nero, “invenzione da Il monaco di M. G. Lewis” e partiture di spettacoli come Riccardo III, Otello, e di sprofondamenti nella phoné come Manfred, Egmont, Macbeth, Adelchi, Lorenzaccio, Pentesilea, Hamlet Suite. Ancora troviamo parti di racconti-saggi da La voce di Narciso, con un intervento di Maurizio Grande, e integrale il testo di Sono apparso alla Madonna, che racconta la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, con l’apparizione ai centomila di “madonna folla” che si accalcavano tra strade e piazze. Questi scritti di poetica, come pure La ricerca teatrale nella rappresentazione di stato o dello spettacolo del fantasma prima e dopo C.B., pubblicato in un volume, La ricerca impossibile, che ripercorre la controversa Biennale Teatro senza spettacoli voluta dal nostro Artefice, sono una sfida “all’industria spettacolarizzata”, alla ricerca “sollecitata dalla maldestra tolleranza di uno Stato partitocratico ‘civilizzato’ che, sulla scorta quotidiana della sua propria rappresentazione politica, non può (e non deve) concepire lo spreco (non è in questione il denaro pubblico) d’una produzione laboratorio a porte chiuse che si nega al consumo. E con l’aggravante della vocazione”.

Arte come negazione, come “mascalzonata claustrofobica, nel suo sottrarsi al pubblico (ludibrio)”. Arte come vocazione, come richiamo di qualcosa di profondo e misterioso? 

In fondo al volume un bel gruppo di studiosi e intellettuali, da Goffredo Fofi, Ennio Flaiano e Alberto Arbasino a Giuseppe Bartolucci, Gilles Deleuze, Oreste Del Buono, Franco Quadri, Pierre Klossowski, Jean-Paul Manganaro, Umberto Artioli, André Scala, Camille Dumoulié, Piergiorgio Giacché, Edoardo Fadini, Enrico Ghezzi, interpretano il loro Carmelo Bene.

Carmelo Bene, Opere. Con l’Autobiografia di un ritratto, Milano, La nave di Teseo, pagine 1104, euro 40.

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