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Gli antichi di Pietro Citati

17 Giugno 2025

“Dirigere collane, scoprire opere sconosciute o quasi, curare libri, scrivere risvolti, correggere traduzioni – insomma tutto il lato di macchinazione e invenzione artigiana che fa parte del lavoro editoriale – mi è sempre piaciuto moltissimo. Mi piace anche perché è anonimo e il pubblico lo ignora. Dà il senso di essere un falegname o un sarto, o un calzolaio: mi sento nobilitato, come deve sentirsi qualsiasi scrittore quando scopre di essere in primo luogo un artigiano”. Così Pietro Citati in un'intervista resa a Paolo Lagazzi, compresa nel Meridiano che uscì nel 2005.

E ora, a tre anni dalla scomparsa, l'editore Gramma Feltrinelli pubblica centodiciassette risvolti, divisi in sette sezioni, tutti quelli che Citati scrisse per la collana di classici greci e latini della Fondazione Valla-Mondadori, da lui creata e diretta per più di trent'anni, dal 1970 al 2005. Il volume è curato da Andrea Cane e prefato da Piero Boitani, attuale direttore della collana. Il titolo? La follia degli antichi.

L'anonimo estensore del risvolto di questo libro di risvolti suggerisce che Pietro Citati, presentando i suoi amati classici, abbia in realtà anche voluto consegnarci il ritratto di una mente, la sua, abitata per l'appunto dalla “follia degli antichi”.

Prendiamolo in parola. Vediamo di individuare alcune analogie e corrispondenze tra gli autori del passato e il loro emulo contemporaneo. Presentando una scelta di opere dell'imperatore Giuliano (a torto definito l'Apostata), ecco quali passi trasceglie il Nostro: “desideri corse di cavalli? Ce n'è una in Omero descritta alla perfezione... Senti parlare di danzatori pantomimi? Lasciali perdere; i giovani presso i Feaci danzano in modo più virile”. Anche per Citati tutto era letteratura e tutto passava attraverso la letteratura, questa, come avrebbe detto lui, suprema forma di conoscenza del mondo.

Allo stesso modo, quando introduce il lettore moderno alle delizie di Pausania, il Baedecker della Grecia del secondo secolo dopo Cristo, ha cura di sottolineare che per lui conta in primo luogo il “catalogo”, un catalogo “di atleti, di scultori, di paesaggi, di gare, di dèi, di miti; come Omero egli desiderava dare una rappresentazione e un'enumerazione completa della realtà”. In effetti, anche in questo volume, il catalogo, l'elenco, l'enumerazione si possono reperire ad apertura di pagina, quasi che Citati fosse il Pausania di questi testi.

Qualche esempio tra gli innumerevoli: “Omero rievoca questa realtà rustica – le stalle, le scrofe, i porcelli arrostiti allo spiedo, le notti trascorse ascoltando e bevendo accanto al fuoco del bivacco, i cani che scodinzolano festosamente”. Oppure: “Erodoto parla di tutto: gli oracoli, i sacrifici, i gatti, i coccodrilli, la fenice, i serpenti alati, le profezie, la medicina, l'imbalsamazione, i pesci, le zanzare, i labirinti, il Nilo, gli dèi, le inondazioni, i santuari, i sacerdoti, i prodigi, Elena di Sparta, Sesostri, le piramidi, Micerino, gli Etiopi, gli abiti, Psammetico, Amasi”.

Accanto alla figura dell'elenco spicca, in queste pagine, il procedimento affine che, nella retorica antica, va sotto il nome di “oratio perpetua”. Un brano fra i tanti possibili, tratto dalla raccolta Arcana mundi: “Medea strega un gigante di bronzo: Simeta cerca di attrarre un uomo che la fugge: le maghe d'Orazio uccidono un bambino per preparare una pozione amorosa: la luna discende schiumando sulla terra: un'operazione magica ridà a un ragazzo la potenza sessuale: Lucio diventa asino...”.

L'“oratio perpetua” era del resto uno dei più tipici procedimenti dannunziani e dannunziana, nel senso di quell'amor sensuale della parola di cui discorreva a suo tempo Mario Praz, è la degustazione lessicale a cui invita Citati a proposito delle antiche macchine belliche, menzionate dall'anonimo autore del tardo Le cose della guerra: “la liburna: il carro falcato: la ballista a quattro ruote: la ballista fulminale: il ticodifro: il ponte di otri: lo scudo chiodato: la plumbata tribolata: il toracomaco...”

(Si noti di passata l'uso insistito dei due punti, che ricorda certe pagine di Gadda).

Boitani nella sua prefazione ricorda che i professori universitari, peraltro ben remunerati, che curavano i vari volumi della Valla, non condividevano molto certe affermazioni apodittiche di Citati.

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In effetti il libro ne è costellato. Anche qui ad apertura di pagina se ne possono trovare a bizzeffe. Generalmente hanno un tipicissimo incipit negativo: “Nessuno potrà dimenticare... Nessuno è più sventurato e solo di lui... Nessun testo, meglio delle Rane... Non si finirebbe mai di leggere Erodoto... Niente di più tremendo della guerra tra Spartani e Messeni... Nulla è più commovente della venerazione religiosa... Nessuna figura umana risvegliò mai tante fantasie mitiche, come quella di Alessandro... Mai come nella descrizione di cavalieri e cavalli intorno a Camilla... Mai Pausania rivela come qui...”.

Se esiste, come esiste, una formularità omerica studiata a fondo da Milman Parry e Albert Lord, qui si vede come esista anche un'altrettanto indubbia formularità citatiana.

Al di là di ciò, quello che colpisce il lettore è il ponte che Pietro Citati getta di continuo tra autori della classicità “pagana” e quelli cristiani.

Per Platone il vero pensiero è “corposa visione dell'invisibile”. Anche nei Misteri di Eleusi la “mente tocca – come si può toccare un corpo – la luce della verità”. Secoli dopo Ildegarde di Bingen “vede la Trinità”.

La filosofia, per Platone, sempre, “è qualcosa che nasce all'improvviso nell'anima”. Allo stesso modo per sant'Agostino “la luce della certezza penetra nel suo cuore e all'istante tutte le tenebre del dubbio si dissipano”.

Si tratta di quella conoscenza per rivelazione immediata (fondata sull'avverbio greco eksaiphnes “improvvisamente”) di cui trattò a lungo un grecista caro al nostro autore, ossia Carlo Diano (curatore fra l'altro dell'Eraclito della Valla).

Non diversamente il progetto di una “storia totale”, perseguito da Erodoto, trova il suo riscontro parecchio tempo dopo, nell'idea di una “storiografia totale” coltivato da Paolo Diacono nella sua Storia dei longobardi.

Come mai?

Forse perché “tutte le scritture, anche quelle non cristiane, sono venerabili, perché contengono le lettere con le quali si compone il nome di Cristo”.

Infine, mi si permetta di mettere in rilievo un aspetto che affiora varie volte in queste pagine. Citati insiste più volte che “qualsiasi lettore, anche chi non sappia nulla di antichità classiche” può trarre “divertimento” dai testi greci e latini tradotti.

La cultura classica, proprio perché per nulla paludata, inamidata, al contrario molto più libera e meno bigotta di quella attuale, avrebbe potuto, potrebbe, incontrare il gusto del grande pubblico. È un sogno, ma a volte i sogni si avverano.

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