Venezia 82/2. Se niente importa

4 Settembre 2025

“How do you stay hopeful in today’s often monstrous times?”. Questa la domanda che, nel corso della conferenza stampa per il Frankenstein di Guillermo Del Toro, una giornalista ha posto a Christoph Waltz. Come può tenere viva la speranza in un momento spesso mostruoso come questo? Serio, senza batter ciglio, l’attore ha risposto: “I don’t”. Non posso. Non ci riesco.

E noi ci riusciamo, da qui, dal Lido di Venezia, nella bolla festivaliera, quasi sempre impenetrabile? Certo, dopo le diecimila persone in marcia lo scorso sabato contro il genocidio perpetrato da Israele a Gaza è difficile fare finta che il mondo là fuori non esista, che le ragioni dell’arte – come ha sostenuto qualcuno – abbiano sempre e comunque la precedenza sulle ragioni dell’etica e della politica; ed è difficile talvolta perfino sperare. Altro che tempi mostruosi. Ha scritto bene Daniela Brogi nella prima puntata di questa nostra modesta cronaca veneziana: l’attesa dell’estinzione aleggia su molti film del festival. E insieme a essa il nostro senso di inanità, di impotenza di fronte a essa. 

The Voice of Hind Rajab: la regista Kouther Ben Hania (al centro) insieme agli interpreti del film.

Impotenti: così si sentono gli operatori della Mezzaluna Rossa protagonisti di The Voice of Hind Rajab, diretto dalla tunisina Kouther Ben Hania, che drammatizza, nei moduli lineari di un teledramma made in Hollywood (coproducono, fra gli altri, Brad Pitt, Joaquin Phoenix, Rooney Mara e Alfonso Cuarón), una storia vera: quella delle ultime ore di vita di una bimba gazawi di sei anni, Hind Rajab appunto, uccisa nel corso di un attacco dall’esercito israeliano, insieme a due dei suoi soccorritori. Muovendo dai documenti audiovisivi e sonori registrati quel giorno (le grida che sentiamo, la voice del titolo originale, sono del tutto autentiche), Ben Hania realizza un film semplice, diretto, a tratti persino didattico nel mettere in scena le rigorose procedure di coordinamento che gli operatori della Mezzaluna Rossa a Ramallah (83 chilometri da Gaza) debbono seguire (le autorizzazioni vengono dal governo israeliano); onesto nel mostrare le contraddizioni, la grandezza e le piccole miserie di chi salva le vite nel bel mezzo di una guerra di occupazione. Un film che non nasconde la propria natura di instant movie, accettando perfino di prendersi dei rischi (è giusto, è etico servirsi di documentazione di questa portata - la voce di una bambina ferita che invoca aiuto - all’interno di una ricostruzione fictional?), e che assolve infallibilmente il proprio compito “politico”. C’è da augurarsi che una sua eventuale presenza nel palmares (in tante e tanti, fin dalla proiezione per la stampa, reclamano a gran voce un Leone d’Oro) dia veramente una scossa alle troppe coscienze ancora addormentate, e non diventi semplicemente un comodo alibi per chi, dentro e fuori la Biennale, anche in questi giorni non ha perso tempo per lasciarsi andare ai distinguo, alle verità di comodo, alla retorica autoassolutoria.

Un movente politico, ancorché di tipo assai diverso, sembra stare alla base anche di un film come L’Étranger di François Ozon. Tratto da un classico della letteratura d’Oltralpe (ed Europea tout court), come il romanzo (1942) di Albert Camus, attraverso la vicenda di Mersault (Benjamin Voisin), giovane e bigio impiegato francese di Algeri, il film di Ozon prova a rileggere la crisi di questi anni Venti alla luce di quella vissuta dalla generazione di Camus, cresciuta nell’Europa dei fascismi e divenuta adulta con la Seconda guerra mondiale.

Certo, Ozon sa bene che i colpi di pistola che il protagonista esplode immotivatamente e gratuitamente contro un arabo, quei “quattro colpi secchi sulle porte della sventura”, ottant’anni dopo non suonano più allo stesso modo. Contestato in vita dagli stalinisti per le sue posizioni socialiste e libertarie, Camus è rimasto anche dopo la sua morte un nome controverso, soprattutto per la propria posizione ambivalente rispetto alla questione algerina (“Con Camus”, scriveva Edward Said, “i critici hanno ignorato la realtà dell'impero [coloniale], così evidente nelle sue opere”). E proprio dallo sguardo colonialista intende ripartire Ozon per questa sua rivisitazione, più che adattamento, del romanzo: l’immaginario della Francia padrona viene condensato in cinque minuti di cinegiornale d’epoca, una cartolina esotica subito contrapposta alla realtà del protagonista, condotto in carcere per il proprio delitto. È una delle rare licenze che il regista si concede, in un film che per il resto sembra ripercorrere con puntiglio talvolta persino filologico tutti i luoghi fondamentali del romanzo. 

Benjamin Voisin e Rebecca Marder in L'Étranger di François Ozon.

 

Nel solco di quel che aveva già fatto con Frantz (passato qui al Lido nove anni fa), in cui prendeva le mosse da The Man I Killed, un vecchio e bellissimo film americano di Lubitsch, Ozon gioca anche stavolta di calco e di ricalco, strizzando l’occhio alla precedente (e poco riuscita) versione cinematografica del romanzo di Camus, diretta da Luchino Visconti nel 1967; e, soprattutto, attingendo a piene mani dal repertorio visivo del cinema francese tra le due guerre, da Duvivier (la rappresentazione di Algeri) a Vigo (il mare, la spiaggia), a Pagnol (il film con Fernandel, già presente anche se non precisato nel romanzo, diventa qui Le Schpountz, diretto nel 1938 dal grande regista francese). Ed esattamente come nel film del 2016 anche qui allarga il campo: la presenza indigena, pressoché assente nel romanzo e nei film dell’epoca, è ora ovunque: nelle soggettive e semisoggettive del protagonista, nel richiamo fuori campo dei muezzin per la preghiera del venerdì, nei cartelli ben in vista nei locali pubblici, che interdicono l’ingresso agli autoctoni. L’arabo assassinato adesso ha un nome (Mamdani), una sorella (Djamila, che accusa il tribunale – e indirettamente il romanzo stesso – di parlare soltanto dell’omicida, “di sua madre, del suo caffellatte. Mio fratello non esiste”) e addirittura il finalissimo del film, diverso da quello del romanzo. 

Una vera e propria riscrittura, insomma, tanto lodevole nelle intenzioni quanto interlocutoria nei risultati. Non tanto e non solo per certe scivolate estetizzanti, ai limiti del patinato da spot pubblicitario; né per l’introduzione di certi elementi decisamente più genettiani (l’inedita attrazione-repulsione fra il francese omicida e l’arabo assassinato) che camusiani. Il fatto è che Ozon non riesce ad amalgamare davvero la critica al colonialismo euro-occidentale (e nella fattispecie francese) con la filosofia negativa che informa il romanzo di Camus. Ne risulta che, mentre da una parte il gesto omicida di Meursault dovrebbe riassumere in sé tutta la violenza arbitraria che il colonialista esercita ai danni del colonizzato, dall’altra paradossalmente lo nega (“Tutte le vite si equivalgono”, dice a un certo punto il protagonista), facendone l’epitome di un malessere esistenziale prima ancora che storico e politico. Rimane quel grido del protagonista, “Niente importa”: ennesima attestazione d'impotenza, ancorché grondante furore.

Un’identica impotenza, ma stavolta tinta di sbigottimento e incredulità, è al centro di un altro bel film in concorso, A House of Dynamite di Kathryn Bigelow. Uno stesso evento (un misterioso e proditorio attacco missilistico diretto al territorio USA). Tre episodi, tre luoghi, tre punti di vista: i tecnici, gli alti comandi, il governo. Bigelow si muove all’interno di un filone fantapolitico “a porte chiuse” che va da A prova di errore a Ultimi bagliori di un crepuscolo, passando ovviamente per Il dottor Stranamore

Rebecca Ferguson in A House of Dynamite di Kathryn Bigelow.

Una delle più grandi registe del cinema nordamericano torna al lavoro, a quasi dieci anni dall’ultimo lungometraggio Detroit (2017), con una produzione targata Netflix, che lei riesce a piegare a proprio vantaggio, trasformando i limiti imposti dalla piattaforma in una sorta di contrainte espressiva. Personaggi disegnati in pochi tratti (la sceneggiatura è di Noah Oppenheim), montaggio alternato ma non frenetico, climax emotivi gestiti con mano sicura. Più che la catastrofe, alla regista interessa l’attesa della catastrofe: l’alterazione dell’equilibrio, le perplessità iniziali (viene rievocato l’incidente dell’equinozio d’autunno del 1983), i tentativi di disinnescare l’inevitabile, lo svanire progressivo delle speranze, il momento delle scelte… il tutto lontano dagli sguardi ignari dei più. Come The Voice of Hind Rajab, anche il film di Bigelow si svolge in gran parte nel chiuso di una stanza: l’immagine della situation room piena di schermi che trasmettono catastrofi naturali, mappe satellitari e notifiche di esercitazioni militari, ci appare come una delle più efficaci allegorie del nostro presente, dove tutto sembra avvenire lontano (o non avvenire affatto) e invece è vicino, vicinissimo. E letale. A House of Dynamite è insomma un film più che mai contemporaneo: non a caso manca di una vera e propria conclusione, quasi che la storia che racconta – o quanto meno le sue premesse – sono tutt’ora in atto.

Bigelow, che già in Zero Dark Thirty (2012) interrogava la (cattiva) coscienza dell’Occidente sugli alibi morali nella cosiddetta “guerra al terrore”, stavolta dipinge gli USA come una nazione da sempre ossessionata dalle guerre (una delle poche sequenze ambientate al di fuori dalle stanze e dalle strade di Washington D.C. è ambientata nel bel mezzo di una rievocazione storica della battaglia di Gettysburg: 50.000 morti in soli tre giorni), tanto da aver immaginato se stessa come una macchina bellica progettata per funzionare alla perfezione. Una macchina destinata inevitabilmente al fallimento (umano, ma anche tecnologico) una volta messa di fronte al primo, autentico stress test. “Abbiamo creato una casa piena di dinamite”, dice il presidente degli Stati Uniti (Idris Elba), una strana crasi fra Barack Obama e Donald Trump, riferendosi alla proliferazione ormai fuori controllo di ordigni nucleari e alla paranoia che ne consegue. Non esiste via d’uscita: perfino lo sterminio di massa, extrema ratio per una rappresaglia di salvaguardia, è un prodotto come tutti gli altri, da scegliere à la carte come dal menu di un diner: “al sangue, media o ben cotta”. “This is insanity”, mormora spaventato il presidente. “No”, gli rispondono dalle plance di comando, “it’s reality”.

Valeria Bruni Tedeschi in Duse di Pietro Marcello. Sullo sfondo, Fanni Wrochna.

È curioso (o forse no, a pensarci bene) che, mentre i film internazionali del concorso fanno a gara, ciascuno a suo modo e secondo i propri mezzi e i propri obiettivi, per interrogare in modo serrato il tempo presente, il cinema italiano ripieghi nella contemplazione estetizzante di se stesso (Sotto le nuvole, di Gianfranco Rosi), nell’intimismo (La grazia di Paolo Sorrentino) o, ancora, nell’elegia storico-commemorativa, come la Duse firmata da Pietro Marcello. Pur con tutta la buona volontà, è difficile credere che Valeria Bruni Tedeschi possa, con la sua voce sempre sul punto di spezzarsi, dare corpo a colei che ai suoi tempi fu chiamata addirittura “la Divina”. In effetti, quella che vediamo agitarsi sul grande schermo, nelle scenografie meravigliosamente funebri di Gaspare De Pascali e nei costumi di Ursula Patzak, è soprattutto la protagonista dei film Paolo Virzì (Il capitale umano, La pazza gioia), che solo per ragioni di copione (scritto dal regista con Letizia Russo e Guido Silei) sembra venire riconosciuta come Eleonora Duse. Dietro di lei (che, in mancanza di autentiche alternative, potrebbe pure ambire alla Coppa Volpi), un cast dove ognuno, dai pur bravi Vincenzo Nemolato (Memo Benassi) e Fausto Russo Alesi (Gabriele D’Annunzio) alle non meno efficaci Fanni Wrochna (l’assistente Desirée) e Noémie Merlant (la figlia Enrichetta), sembra letteralmente andare per conto proprio. E poi filmati di repertorio colorizzati digitalmente, una rappresentazione macchiettistica del fascismo, trovate di gusto midcult… “Un museo dove il tempo si è fermato”, commenta nel film l’amica-rivale Sarah Bernhardt (Noémie Lvovsky) davanti a una messa in scena dusiana del dramma di Ibsen La donna del mare: “Nemmeno una guerra mondiale è riuscita a cambiare il teatro italiano”. E per il cinema italiano, quale catastrofe servirebbe? 

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