Venezia 82/3. Leoni e rimozioni

7 Settembre 2025

Lo si era visto sfilare sul tappeto rosso con una fiammante giacca viola, Jim Jarmusch; e lì qualcuno aveva cominciato a sospettare l'esito della serata. Poi, man mano che venivano annunciati i premi, il sospetto è diventato certezza: Father Mother Sister Brother è il Leone d’Oro di questa 82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Un verdetto condivisibile? Il primo a esserne sorpreso sembra essere stato lui, lasciandosi sfuggire, prima del rituale discorso di ringraziamento, un "Oh, shit...", coscienziosamente smorzato nella traduzione simultanea della diretta Rai. 

Diciamo che l’ultima fatica di Jarmusch è un film postumo, per contenuti e per stile. Si compone di tre episodi che, malgrado quello che ci si aspetterebbe dal titolo, non raccontano eventi riguardanti una sola famiglia, ma tre famiglie che si riuniscono, in tre parti diverse del mondo. In una sperduta cittadina americana ci sono una sorella (Mayim Chaya Bialik) e un fratello (Adam Driver, vedi i casi: alla guida di una macchina), che vanno a far visita al padre (Tom Waits); a Dublino, nel secondo episodio che forse è il più bello, una madre (Charlotte Rampling) riceve a casa, per un thè annuale, le due figlie (Cate Blanchett e Vicky Krieps): sono tre donne fredde, distanti, reciprocamente estranee. E infine, nel racconto finale, ambientato a Parigi, un fratello e una sorella (Luka Sabbat e Indya Moore), gemelli, si incontrano per andare a salutare per l’ultima volta l’appartamento ormai svuotato dove hanno vissuto insieme ai genitori, morti in un incidente aereo durante un viaggio. A tenere insieme i tre racconti, in senso tematico, la distanza tra genitori e figli e in sottotraccia, una desolazione incolore intorno alle cose da non buttare alla fine di una storia. In ognuno dei tre casi abbiamo madri o padri egocentrici, morti, anaffettivi. In senso stilistico invece interviene un gusto minimalista per la costruzione delle inquadrature (tavoli pieni di tazze ripresi dall’alto) e un sistema molto autocompiaciuto di elementi che ritornano, in modo inspiegato: la presenza di un rolex, due-tre skaters che sfilano per strada (questo sarebbe l’idea di cinema come libertà), il proverbio inglese Bob's your uncle, o i brindisi con bicchieri d’acqua, pronunciati in modo surreale per riempire i buchi della conversazione tra persone che, fatta eccezione per i gemelli, non hanno nulla da dirsi. Un film postumo perché sembra girato negli anni Novanta: con la fiducia molto postmoderna in un’estetica combinatoria come chiave risolutiva per rappresentare il vuoto o perfino definire un senso. 

Father Mother Sister Brother.

Si direbbe quasi che il presidente della giuria Alexander Payne abbia voluto in qualche modo “regolare i conti di famiglia”. Esponente fra i più amati del cinema indie statunitense, con i suoi 64 anni Payne si pone pressappoco a metà strada fra Jarmusch (classe 1953) e il giovane Benny Safdie (classe 1986). Non poteva quindi essere che lui a sancire il trionfo intergenerazionale di quel vasto, frastagliato e contraddittorio universo che va sotto il nome alquanto generico di “cinema indipendente americano”, idealmente riunendo l’intero album di famiglia, padri e figli, in un unico palmares: al vecchio Jarmusch il premio maggiore, al giovane Safdie (tra l’altro per la prima volta dietro la macchina da presa senza il fratello Josh) il Leone d’Argento alla migliore regia per The Smashing Machine. Certo, il Leone a Jarmusch (com’era in parte quello assegnato ad Almodóvar lo scorso anno) sa un po’ troppo di premio alla carriera, per un regista che da almeno una ventina d’anni appare, esattamente come il suo film, postumo a se stesso, impegnato nella riscrittura, in chiave vagamente hipster, levigata ed elegante, della sua opera precedente: là dove un tempo c’erano Daunbailò, Dead Man e Ghost Dog, ora ci sono Solo gli amanti sopravvivono, Paterson e I morti non muoiono.

Un palmares grigiognolo, tiepido, riflesso di un concorso che sulla carta sembrava promettere assai di più; soprattutto, un palmares che alle grida d’angoscia del presente ha preferito muoversi su sentieri meno perigliosi. E per quanto ci si possa rallegrare per il premio Mastroianni alla giovane Luna Wedler per Silent Friend, non è possibile non rammaricarsi per le scelte evidentemente di compromesso (la Coppa Volpi alla brava Xin Zhilei del cinese Sun Rises on Us All di Cai Shangjun, non particolarmente esaltata da una regia e una sceneggiatura alquanto anodine) e per le esclusioni eccellenti, a cominciare da Kathryn Bigelow con il suo A House of Dynamite, tra i titoli più significativi visti nel concorso di quest’anno.

Un discorso a parte meritano poi gli italiani. Malgrado la tradizionale narrazione vittimistica che li vedrebbe sempre tornare dal Lido a bocca asciutta, in questa 82esima edizione incassano ben due premi: la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile per Toni Servillo (con il film di Sorrentino La Grazia) e il Premio Speciale della Giuria per Gianfranco Rosi (già Leone d’Oro nel 2013 con Sacro GRA) con il suo Sotto le nuvole. Nomi e titoli non certo casuali. Rispetto all’impenetrabile ma originalissimo Franco Maresco di Un film fatto per Bene e allo stentato Duse di Pietro Marcello, la giuria ha puntato con sicurezza su due ambasciatori del Made in Italy cinematografico come Sorrentino e Rosi, probabilmente due dei nostri cineasti maggiormente esportati (ed esportabili) all’estero. Un’esportabilità fatta inevitabilmente anche di stereotipi e di auto-orientalizzazione, tanto in chiave di fiction quanto in chiave di non-fiction. Un'Italia macchiettistica e subalterna, come i paisà che mette in scena Jay Kelly, il film di Baumbach passato quest’anno al Lido, che ballano e vivono in posti meravigliosi.

The Voice of Hind Rajab.

Malgrado le aspettative della vigilia, che lo davano tra i papabili per il Leone d’Oro, The voice of Hind Rajab ha ottenuto un comunque ragguardevole Gran Premio della Giuria. E su questo film vorremmo soffermarci in chiusura, non solo per la sua originalità, ma anche per la sua spaventosa capacità di rimetterci in ascolto del mondo. Cerchiamo una parola che ci aiuti a riflettere su cosa fa succedere The voice of Hind Rajab. Il termine migliore è “dentro”, perché tutto, cinematograficamente, accade dentro: dentro la stanza del centro operativo dei soccorritori volontari della Mezzaluna Rossa palestinese, in Cisgiordania, dove è ambientata l’azione del film; dentro l’abitacolo della macchina trivellata da trecentocinquantacinque colpi di un carrarmato israeliano, dalla quale proviene la richiesta di aiuto dell’unica bambina ancora viva; dentro la sala cinematografica, dove chi assiste e assisterà al film resta in ostaggio, e in qualche modo anche costretto, in una morsa di tensione progressiva, a udire e vedere qualcosa che, se non fosse stato proprio per il cinema, si sarebbe riusciti a continuare a ignorare. Stavolta invece ci tocca sentire, non possiamo simulare, perché la struttura drammatica del film ci rinchiude in una scena unica, e ci sprofonda dentro la voce di Hind Rajab, cinque anni e mezzo, morta dopo aver passato molte ore nascosta, chiedendo aiuto in telefonate di cui sono rimaste le registrazioni e da cui è partito il progetto del film realizzato dall’autrice tunisina Kawthar ibn Haniyya. 

Mescolando tecniche documentarie e linguaggio del cinema di invenzione, il film ha ricostruito un corpo di immagini e di azioni intorno alla voce reale di Hind, con cui gli attori hanno interagito direttamente sul set. Sarebbe stato osceno riprodurre la voce, fingerla; in questo caso sì che si sarebbe trattato di sfruttamento e vampirismo. Il titolo, infatti, lo spiega bene: il film di Kawthar ibn Haniyya, invece di usare le registrazioni come testimonianza, intende proprio mettere al centro l’esistenza, insilenziabile stavolta, della voce di questa piccola, vivace e intelligentissima creatura, che dice cose spaventose per la sua età, frasi adulte che nessuna bambina dovrebbe conoscere e aver bisogno di pronunciare (le più terribili: “Morirò presto anche io” e “Venite a prendermi”). Parole che interpellano chi le ascolta, nella sala operativa ricostruita dal racconto; ma interpellano anche noi, che eravamo fuori finora, ma invece siamo tirate dentro e diventiamo partecipi di ciò che sta succedendo a Gaza. 

Per tutto l’arco del film vediamo solo quattro persone. C’è l’operatore che dopo aver ricevuto la richiesta di soccorso proveniente dalla Germania, da uno zio dei bambini a bordo della macchina, richiama il numero indicatogli e stabilisce il contatto con la bambina; il responsabile che esita a cercare e mandare subito dei soccorsi perché, fin quando non sarà assicurato un corridoio, l’ambulanza potrebbe essere attaccata; oltre ai due uomini, che spesso crollano, perdono la pazienza e si colpiscono persino, ci sono anche la direttrice della sala operativa, che gestirà la maggior parte della comunicazione; e Clara, la psicologa, che sta accanto a lei: due donne differenti, anche nell’aspetto e nelle tradizione di mostrare o non mostrare i capelli: entrambe disperatamente forti, insieme. Tutto il film, ad eccezione delle ultime immagini, avviene dentro questa stanza. Lo spazio del cinema, inteso anche come spazio spettatoriale, diventa un campo di complicazione, co-implicazione e costruzione del senso: per questo sbaglia chi volesse impoverire l’importanza, anche politica certo, di questo film e dei premi che ha ricevuto, svalutandone le risorse formali. 

Non si piange, durante la visione di The voice of Hind Rajab. Si piange dopo, casomai, quando si torna fuori, con addosso l’esperienza appena fatta di quanto possa essere stata forte e grave, sinora, la nostra capacità di incredulità all’orrore che sta accadendo. Anche grazie all’uso dei neri, per staccare le scene, e dei fondi scuri su cui si alzano o restano immobili le onde sonore dell’audio via via disturbato dalla debolezza della rete, mentre guardiamo e tentiamo di ascoltare, proiettiamo a nostra volta sullo schermo l’inimmaginabile; come se, finalmente, si aprisse spazio a una sorta di ritorno del rimosso collettivo - che è cosa del tutto diversa dal consumo televisivo e voyeuristico di una disgrazia eccezionale e fortuita. Non c’è intrattenimento del dolore, nel film di Kawthar ibn Haniyya; c’è una voce bambina che chiede, che ci chiede: “venite a prendermi”. In assenza di immagini, ecco che il cinema ci ha fatto vedere l’osceno, anche di noi stessi. 

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